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Spara al disertore!

Uno spettacolo teatrale e un disco per raccontare le storie rimosse della Prima Guerra Mondiale . E le ombre che queste proiettano sullo scenario di oggi.

Un milite ignoto racconta la sua morte: «I was not alone!», «Non ero solo! Non sono morto solo!», dice a introdurci alla tragedia collettiva, polifonica della Prima Guerra Mondiale raccontata in «Friendly Feuer», lo spettacolo scritto da Marta Gilmore per Isola Teatro che ha debuttato al Teatro India e che verrà replicato allo Strike il prossimo 27 maggio, for one night only in abbinata con l’esibizione del Wu Ming Contingent, il cui ultimo disco si intitola «Schegge di Shrapnel» e riprende quei temi a partire dalla lavorazione collettiva de «L’invisibile ovunque».

I due oggetti narrativi si prestano ad essere raccontati assieme. A partire da una domanda. Questa tragedia a più voci, come si rappresenta? Come orientarsi nel labirinto di lingue, come districarsi nell’intreccio di frontiere, miscuglio inestricabile di alleanze labili e patti, cavalli di frisia e massacri? Il Fuoco Amico messo in scena da Isola Teatro si muove sopra un grande foglio, un gigantesco pezzo di carta bianco che diventa di volta in volta carta da lettere, tomba, trincea, lenzuolo sopra i cadaveri, sipario e scenografia. La storia da scrivere e riscrivere, a più mani e più lingue, sopra un grande block-notes. Le schegge musicali che prendono il nome dal proiettile decantato da Filippo Tommaso Marinetti calcano musiche più dilatate rispetto all’album d’esordio del Contingente Senza Nome, costruiscono la tensione della macchina bellica e cantano la diserzione.

Ed ecco allora Gregorio Finimondi, eroe della guerra coloniale in Libia paracadutato sul fronte orientale del conflitto mondiale. Dal deserto allo stillicidio della guerra di posizione, Finimondo da simbolo dello spirito di adattamento, volpe del deserto italica, diverrà disertore. Daniele Bernardi, invece, inventa la pozione che provoca piaghe che assomigliano alle ferite da granata, la «Tintura di Shrapnel». Sono pezzi di questo collage storico che si proiettano nella condizione contemporanea, coro dissonante di persone sole anche dentro le linee d’assalto, ammassate dietro i sacchi di sabbia, uomini e donne che scappano dalle guerre, incapaci di orientarsi, spaesate dai confini che proliferano. E che solo raramente divengono occasione di intesa e solidarietà. Accade in uno degli episodi dello spettacolo teatrale come in «La tregua di Natale», una delle canzoni del Contingent che i clashmaniaci riconosceranno un po’ come la «Rebel Waltz» dei bolognesi.

Non c’è nessuna licenza per l’agricoltore disperato per il raccolto mancato e quindi disponibile alla missione impossibile verso le linee nemiche, cantano ancora i Wu Ming Contingent. Non si sfugge alla fucilazione per la fuga da Caporetto e sul palco di «Friendly Feuer» vengono imprigionati alcuni spettatori, improvvisamente catapultati al centro della storia. Eroi, imboscati e nevrotici che cozzano con la retorica delle celebrazioni ufficiali. Il fuoco amico, quello degli italiani che sparano ad altri italiani, colpisce ad esempio Giuseppe Marrasi, personaggio descritto da Emilio Lussu in «Un anno sull’altipiano». Lui è uno di quelli che non comparirà nelle liste dei caduti, elenchi altisonanti che compaiono nei monumenti delle piazze del paesello, morti «Come esempio sulla massa» li definisce un altro dei brani del braccio musicale dei Wu Ming. Queste storie non fanno parte dell’arredo urbano di un’Italia che per fare i conti con il fascismo deve cominciare a riprendere in mano il filo di questo passato.

Le canzoni oblique di «Schegge di Shrapnel» e le scaglie esplosive di narrazione che compongono «Friendly Feuer» sono come le lettere dal fronte mai giunte a destinazione, ferme nei meandri della burocrazia, negli archivi di Stato e nelle stanze dei manicomi e dei carceri militari perché dissonanti, non conformi alle marce militari e alle canzonette di propaganda. «Non ho altro da dire» tuona il pezzo più rock’n’roll del Contingent.

«Ho fatto tutto questo per dimostrarvi che non sono l’ultimo coglione», dice uno dei militi ignoti messi in scena da Isola Teatro. Ieri ci si perforava il timpano come oggi nei Cie ci si cuce la bocca, per non parlare la lingua delle macchine belliche e non sentire il fragore delle bombe. Per non finire come lo scemo di guerra capace di comprendere soltanto la parola Bomba.