Rottura!

Il 25%, i movimenti e la necessità del cambiamento

Rottura. Questa è la parola chiave di queste elezioni. L’italia rimanda al mittente l’austerity targata Monti, e consegna, complice anche il Porcellum, quello scenario di ingovernabilità che era a molti chiaro già da prima delle elezioni. Il dato più significativo, però, resta l’ascesa del M5S. Del movimento, e non tanto del comico che lo tiranneggia. La differenza è d’obbligo, perché esiste un abisso tra i militanti e gli attivisti che hanno animato di senso e progetti il movimento5stelle e il suo leader, ma ancora di più esiste una differenza tra questi (il minuscolo popolo che ha votato alle “primarie” web grilline), e quel 25% di cittadini che hanno scelto il comico come speranza dentro la crisi. Di questi ultimi – e della loro composizione – ha senso parlare.

Ci dicono le prime analisi che il 37% dei voti sono arrivati dall’astensionismo, il 30% dal centrosinistra (principalmente Pd e Idv), e il 27% dal centrodestra (con un bel 18% proveniente en bloc dal Pdl). Un voto trasversale, ma, come ci racconta Roberto Weber, analista elettorale, esistono due strati di voti a Grillo: uno che viene da nuove istanze democratiche e territoriali, e un voto di protesta amorfo e con dentro pulsioni molto diverse. La prima composizione, sufficientemente grande, penso ci interroghi molto da vicino.

Questi profughi della politica, in fuga dalle catastrofi prodotte dal sistema partitico e da un decennio di “voto utile” o “tutto ma non Berlusconi”, vanno al di là delle rivendicazioni populiste che Grillo strilla in ogni suo intervento. Dicevamo rottura, perché il segnale che molti cittadini hanno voluto dare è proprio questo: rottura con il passato, l’uso della parola “cambiare” deve avere un senso, dopo anni senza potere contare e decidere niente, c’era bisogno di un rinnovamento radicale, che partisse dal basso, tagliando fuori i vecchi attori della rappresentanza. Questa ripartenza dal basso, percepita da questo quarto di italiani, è il vulnus.

Una fuga disordinata, fatta da persone che, spesso, hanno sperimentato altre forme, molto spesso animando o partecipando ai movimenti che, negli ultimi dieci anni, hanno contributo pesantemente alla ridefinizione di un frame culturale dentro questo paese, pur senza mai riuscire a vincere immediatamente. Sono quel popolo che ha costruito dal basso la vittoria del Referendum, scoprendo tra le pieghe di quel successo, l’ebrezza della partecipazione, la forza dei corpi quando si uniscono, l’arroganza della politica (soprattutto di sinistra) e confermando così la necessità di cambiare. Si, ma cambiare verso dove? I movimenti sono stati in grado di costruire, per lunghi mesi, l’unica opposizione credibile ai governi di centrodestra, ma senza mai riuscire a superare l’atavico enpasse della trasformazione della lotta in potere costituente, che faccia i conti, a più di 40 anni dagli anni ’70, con la necessità di spostare la conflittualità anche dentro e sul Potere stesso, riaprendo una discussione (chiusa da decenni nel rimosso brutale del teorema Calogero e di quello che ne derivò) su come una società possa governarsi. Non solo un dibattito tattico, ma una vera e propria elaborazione strategica che, appunto, sappia fare i conti con la crisi della rappresentanza (valida anche e soprattutto per i movimenti), con le nuove tecnologie di comunicazione e condivisione, con la nuova cornice culturale, ed infine con il tramonto dell’opzione rivoluzionaria. L’assenza di questa narrazione, ha prodotto due cose: una grande capacità di influire e modificare il discorso pubblico (ricordiamoci, a titolo puramente metaforico, gli applausi delle centinaia di macchine in coda al passare dei cortei studenteschi nel 2010), ma dall’altra uno smarrimento di precipitazione che ha prodotto i nostri profughi. Dentro a un paese dove l’appuntamento elettorale è da sempre sentito e vissuto dalla più larga parte della società, con poco spazio a idee astensioniste deboli e poco trascinanti.

Non assistiamo a un voto di protesta. Assistiamo a un desiderio di cambiare forte, ma immaturo, che cerca la via di dare un segnale ai Palazzi, percorrendo l’unica strada a tutt’oggi conosciuta: il voto, appunto. Un bastimento carico di voti pieni di incertezze, che ritrovano in un comico e nella sua narrazione – che parla di coinvolgimento, partecipazione, welfare, diritti (se guardiamo al programma del m5s e agli ultimi mesi di campagna elettorale; ricordiamoci pur sempre la famigerata memoria corta dell’elettore) – uno spiraglio di rinnovamento e cambiamento possibile, anche a costo di tapparsi il naso su questioni date per anni per scontate, come la partecipazione al progetto Europa (ma d’altronde, quante altre volte ci era stato chiesto di tapparci il naso per altri versi in passato?). Non importa se, nella realtà della militanza grillina tutto questo cambiamento partecipativo non ci sia mai stato, quello che conta è la capacità di spettacolarizzazione del Grillo di queste idee, che fa sognare senza ancora aver capito bene come e dove si partecipa. Questa volta, dietro questo trionfo, non ci sono soltanto i giovani, ma un intero pezzo di società che trattiene il respiro e urla di fronte all’unica vera rivoluzione che, in più di vent’anni, hanno potuto vedere e toccare, prendervi parte assaporandone tutta la gioia del day-after, quando in bocca hai il sapore di alcuni vecchi tromboni addirittura fuori parlamento, e la faccia rugata di Bersani che si mangia le mani. La domanda però sorge spontanea: quando questo sapore svanirà (e accadrà presto), cosa ci resterà? La sicurezza di un progetto politico inesistente – quello del m5s – che tutto accomuna e tutto promette, a partire dall’uso utopistico e pericoloso del web. Dove, come nelle migliori dittature liberali, tutti sono talmente uguali di fronte allo stato che prevale sempre il più forte o il più ricco.

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Molti sono convinti che il M5S “inciucerà” nel governo con il Pd, finendo per svendersi e andare in ordine sparso in parlamento; le grandi manovre di Bersani e degli sherpa sono in atto e arrivano aperture da parte grillina a sostenere questa ipotesi. Sicuramente, fino a quando lo spauracchio del ritorno alle urne non sarà debellato (cosa alquanto improbabile in queste prime ore) ciò non accadrà, perché Grillo e i suoi sanno bene che, se si andasse al secondo turno, potrebbero superare di molto la quota – già incredibile – del 25% se continuassero a mantenere questo ruolo di alternità rispetto alla vecchia classe politica. Trionfo che terrorizza Bersani, costretto a dover frenare le sue fantasie di Grosse Koalition per impedire di far volare Grillo al 60%. Ma i mercati urlano sangue, c’è da giurarci che persino Berlusconi, dopo aver dimostrato di essere ancora sulla scena politica e indispensabile al Pdl, faccia bene i suoi conti in tasca e faccia un “passo indietro” rispetto a un suo ruolo di governo, candidandosi a uomo delle Istituzioni e magari chiedendo la presidenza del Senato, spianando in questo modo la strada al possibile nuovo governo tecnico Alfano-Bersani-Monti (facendo fuori, se protesta, il povero Vendola, di cui bisogna segnalare la sconfitta al palo del 3.5% in coalizione, confermando la sua di principio insulsaggine).

In ultima istanza, se torneremo alle urne con Bersani, Renzi, grandi coalizioni o sante alleanze, ce lo diranno solamente i mercati tra poche settimane, quando non si troverà la quadra per governare, l’elezione del Presidente della Repubblica incomberà, e il centrosinistra avrà finito di giocare con gli smacchiatori e chinerà di nuovo la testa ai toni alti degli speculatori finanziari. La Grecia dei neoliberisti è dietro l’angolo.