ROMA

Riflessioni sul voto alle donne 70 anni dopo

Luoghi della politica delle donne: dalle urne a dove batte il cuore della società. Riflessioni su voto, femminismo, crisi della rappresentanza, case delle donne.

Qualche giorno fa siamo state invitate dalla storica rivista NoiDonne alla presentazione della loro prima agenda “Noidonnecult”, dedicata simbolicamente al voto alle donne che nel 2016 compie 70 anni. Si voleva approfittare di questo anniversario per riflettere sul senso del voto oggi, partendo dalle nostre esperienze e dal significato che si dà alla partecipazione politica. Sebbene il Parlamento e il governo italiani registrino oggi la più alta presenza femminile della storia, si avverte una distanza tra elette ed elettrici, nel quadro più ampio di una disaffezione per la politica, che a ogni elezione si fa più evidente. In questo scenario, come e dove si manifesta oggi quella partecipazione appassionata che le donne esprimevano nel ’46 con la battaglia per il suffragio?

Grazie a Silvia Vaccaro e Tiziana Bartolini per aver dato a tutte la possibilità di riflettere sui nostri limiti ma anche sul possibile cambiamento!

Quello che segue è stato il nostro contributo alla discussione che, seppur parziale data l’ampiezza e la complessità del tema, volevamo condividere con tutt*.

Il tema ci interessa e ci appassiona per questo abbiamo provato a svilupparlo da molteplici punti di vista: sia come pratica di autogoverno e autogestione, sia come da queste sperimentazioni si potesse costruire una proposta politica per la città, valutando che il ragionamento complessivo parte in ogni caso da una critica al sistema attuale di rappresentanza e dalla sua stessa crisi.

Come pratica di autogoverno, occupando la Casa delle donne Lucha y Siesta, eravamo consapevoli che in un modo o nell’altro – nel tempo – sarebbe stata percepita anch’essa come un’istituzione (semmai istituzione diversa, dal basso, del comune), perché inevitabilmente divieni punto di riferimento, luogo in cui portare istanze e da cui partono battaglie e vertenze. Coscienti di questo quindi, con un procedimento completamente inverso, abbiamo fatto in modo di mantenere sempre il filo rosso dell’autogestione nel nostro “modello di istituzione” per costruire una sperimentazione concreta fatta di pratiche di autogoverno.

Come proposta politica, portando l’autogestione e l’autogoverno al centro di un discorso che per molte di noi ha rappresentato la scommessa dell’avventura di Repubblica Romana nel 2013. Partendo dal ragionamento sulla crisi della rappresentanza, dal suo svuotamento e dalla conseguente rottura di quel patto sociale che ne era alla base, abbiamo pensato che solo una proposta che mettesse al centro l’autodeterminazione delle persone e delle comunità locali potesse ribaltare il sistema in essere, che ripartendo dall’autogestione dei beni comuni e dall’autonomia si potesse ricostruire una democrazia reale.

Ora la questione di cui dibattiamo – rappresentanza e voto delle donne – è ampia e ha vari punti di vista che si potrebbero approfondire. Intanto potremmo dire che, guardandoci indietro nel tempo, ci sono stati trasformazioni radicali che si sono susseguite, e che hanno portato alla situazione attuale, ad esempio:

Negli anni 70/80 la partecipazione delle donne in movimenti di massa forti e radicali ha prodotto un avanzamento culturale e dei diritti che era loro diretta espressione e che dialogava, seppur in modo conflittuale, con le istituzioni. Dal basso vi era una spinta così forte che da un lato era impossibile non “farci i conti”, dall’altro vi erano delle istituzioni che riuscivano a mantenere un confronto – mai lineare, né facile – con le istanze che provenivano dalla società; questo dialogo ha prodotto l’affermarsi del diritto di famiglia, della legge sull’Ivg e sull’istituzione dei Consultori. Ovviamente parliamo di una fase storica completamente diversa, in cui si stava all’apice di un sistema culturale permeato profondamente da spinte rivoluzionarie.

Negli anni 90 e 2000, con l’affermarsi della crisi della rappresentanza, lo svuotamento di senso delle istituzioni crea una lontananza abissale tra le donne (e non solo) e le istituzioni. Anche perchè a seguito alle conquiste degli anni 70 ed al consolidamento del protagonismo delle donne, le istanze femministe perdono la loro connotazione rivoluzionaria. Infine, come una beffa, avviene la sussunzione di ragionamenti e pratiche del mondo femminista e queer a cui viene modificato il senso.

In merito a questo c’è un esempio che ci sembra calzante, la dicotomia rappresentata, in questa fase, dalla feroce battaglia, di stampo reazionario e fascista, contro la fantomatica “teoria gender” scagliandosi – in modo violento e spesso scomposto – contro l’impegno portato avanti da molt* sull’accettazione delle differenze; al contempo quelle stesse differenze – di/dei generi – vengono utilizzate come forme di sfruttamento – nell’economia e in politica – nel sempre più diffuso lavoro non retribuito così come plusvalore nel lavoro salariato.

Ora, il paradosso è che questa lontananza – tra rappresentanza e donne – si verifica proprio nel momento di massima presenza delle stesse all’interno delle istituzioni e nei ruoli apicali di governo; ma riteniamo sia fondamentale non confondere la presenza di donne in ruoli di potere con le istanze e le pratiche femministe, perché questa presenza è troppo spesso il frutto di quote rosa, di rappresentanza per difetto, simbolica e di riserva, o peggio ancora di logiche maschiliste che mettono le donne a servizio del potere.

La distanza tra rappresentanza formale e società è generale, ed è frutto di varie questioni. Per quanto riguarda la questione più specifica delle donne noi abbiamo individuato, almeno, due ordini di discorsi:

1) il fatto che il raggiungimento di ruoli di potere nelle istituzioni, per come sono ora, ha spesso messo in crisi gli stessi valori di cui molte erano portatrici; che le ha costrette – più o meno consapevolmente – a dover mettere davanti la “ragione di partito” piuttosto che l’istanza di cambiamento rivoluzionario propria del femminismo. Insomma il dovere ha sottomesso il desiderio.

2) la messa in discussione delle stesse pratiche di movimento. Con una manifesta incapacità di tenere dentro il conflitto, con la divisione delle donne per bene e le donne per male, affermando che c’erano pratiche accettabili e non, causando fratture e allontanamento delle giovani generazioni (e non solo) dalla pratica e dal pensiero femminista, una disaffezione per la politica o, più semplicemente, una divisione tra chi sta in basso e se lo rivendica e chi sta in alto, portatrice di idee che non rappresentano più la maggioranza delle donne femministe.

Vari esempi si possono fare rispetto a queste due direttrici: la battaglia contro la proposta di legge Tarzia portata avanti con passione per circa un anno a Roma e nel Lazio, che è stata densa di scontri in merito alle pratiche da mettere in campo; o meglio ancora l’ultima legge nazionale contro la violenza sulle donne “Legge sul Femminicidio del 15 ottobre del 2013”, controversa e non riconosciuta da gran parte del movimento – al cui interno vede solo l’ennesimo pacchetto sicurezza promulgato strumentalizzando il corpo delle donne, seppur sia stata scritta con la collaborazione di alcune femministe.

Questi temi sono stati dibattuti anche a Paestum 2013, soprattutto nel tavolo su autogoverno e istituzioni in cui abbiamo provato, noi e altre, a far emergere un”autocritica collettiva delle donne femministe che sono state nelle istituzioni negli ultimi 15/20 anni, per indagare le cause della poca incisività del portato femminista in questi anni difficili.

Siamo convinte che in questa condizione di sistema centralizzato e verticista non ci siano pratiche possibili di cambiamento all’interno del sistema attuale. C’è una possibile trasformazione intermedia ed è quella di praticare autogoverno e costruire comunità, ritessendo i nessi relazionali dentro la società. Ci sembra finito il tempo delle incursioni nelle istituzioni, poiché il sistema attuale è puramente formale, tanto è che abbiamo un governo che nessuno ha eletto e una città capitale che è commissariata dall’alto. L’unico cambiamento possibile è ribaltare completamente il modello (ad esempio come si sta provando a fare in Kurdistan con il confederalismo democratico), decentrando il potere a tutti i livelli, con pratiche di autonomia delle comunità organizzate attraverso luoghi aperti e inclusivi.

Ora è necessario alimentare il sottobosco e non preoccuparsi delle vuote poltrone; da quando abbiamo dato vita al progetto di Lucha, proponiamo di costruire case e spazi delle donne in ogni quartiere, perché questo per noi significa contribuire ad un rinnovamento sociale in grado di ribaltare completamente l’ordine del discorso e il modello di sviluppo attuale.

Le donne fanno politica e tanto, non è un caso che la maggior parte dei comitati di quartiere, dell’associazionismo, dei collettivi e degli spazi sociali o dei movimenti per i diritti per l’abitare siano composti per la maggior parte da donne. Le donne stanno dove davvero si fa politica: in fondo è una scelta, quella di stare nei luoghi della politica reale e non in quella della politica formale.