MONDO

Perché dobbiamo tenere viva la memoria di Tahir Elçi

Il 28 novembre in Turchia viene assassinato Tahir Elci, presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Dyarbakir. Oggi a Roma dalle ore 14.30 il presidio dei Giuristi Democratici davanti l’ambasciata turca per ricordarlo

La notizia dell’uccisione di Tahir Elçi ha fatto il giro del mondo. In Italia ed in Europa, numerose associazioni per i diritti umani, associazioni forensi e consigli dell’ordine degli avvocati hanno espresso ufficialmente il loro cordoglio. Ma chi era Tahir Elçi?

Avvocato, Presidente del Consiglio dell’Ordine di Diyarbakir, Tahir Elçi non apparteneva a nessuna delle associazioni forensi curde di tutela dei diritti umani, eppure, nella sua professione e nell’esercizio del suo ruolo istituzionale, si era sempre distinto per la strenua difesa del rispetto dei valori costituzionali, e dei diritti umani, per la ricerca della giustizia.

Io ho conosciuto Tahir Elçi in una circostanza molto particolare. A settembre 2015 Cizre era stata per 11 giorni sotto coprifuoco. Un evento eccezionale: taglio dell’elettricità, dell’acqua, delle forniture elettriche ed interruzione delle reti mobili in una città di 130mila abitanti. Coprifuoco h24. Cecchini appostati e attacchi da parte delle forze di sicurezza, con gli elicotteri e con i panzer. 21 civili uccisi. Numerosi feriti. Divieto alle ambulanze di soccorrerli. Interi quartieri, case e negozi danneggiati dagli attacchi armati delle forze di sicurezza. Una violazione così estesa dei diritti umani, tale da rendere necessario l’intervento di Hammamberg, il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa .

Per porre fine a questi crimini contro l’umanità commessi dalle forze di sicurezza sotto il paravento del proclamato “stato di emergenza”, oltre trecento avvocati curdi e turchi provenienti da numerose città si erano dati appuntamento per chiedere l’autorizzazione ad entrare in città. Io ero con loro. Bloccati dalle forze di sicurezza ad oltre 100 chilometri da Cizre, abbiamo proseguito a piedi, camminando per oltre trenta chilometri, prima di avere l’autorizzazione l’indomani ad entrare nella città. Era stata proclamata la fine del coprifuoco, avevamo saputo a tarda notte, dopo ore estenuanti di trattative ad ogni check point, per poter proseguire per poterci avvicinare ancora. Non c’è stata occasione nella mia vita in cui abbia visto colleghi indossare più degnamente una toga. Dai 20 ai 70 anni, grassi e magri, persone che a casa lasciavano figli, o non lasciavano nessuno, donne e uomini, con la stessa dignità avanzavano, alcuni insistendo nel tenere la toga anche dopo chilometri di marcia, tra vigne e campi, sotto un sole che ancora scaldava oltre i 30 gradi.

Alcuni di loro avevano parenti a Cizre. Erano stati contattati dal telefono fisso. Le notizie che arrivavano erano preoccupanti. “Noi non possiamo stare a guardare. La nostra libertà di circolazione non può essere limitata. Noi abbiamo il diritto di raggiungere chi ci ha conferito mandato, di raccogliere le denunce per quello che sta succedendo in città. Ci sono delle responsabilità che devono essere accertate. Il diritto alla vita viene sistematicamente violato. Può la proclamazione dello Stato di emergenza, una misura amministrativa, arrivare a giustificare una violazione massiva di tutte le Convenzioni internazionali ratificate dalla Turchia? Uno Stato dovrebbe proteggere e non attaccare i suoi stessi cittadini”. Erano avvocate e colleghi turchi e curdi, di Istanbul, Ankara, Izmir a dirmi questo…

Era palpabile la loro consapevolezza di rappresentare, dopo la politica, l’ultimo baluardo agli arbitri di Stato. Con i loro corpi erano lì a dimostrare, chilometro dopo chilometro, check point dopo check point, che alla fine la ragionevolezza del diritto avrebbe avuto la meglio sull’arroganza delle arbitrarie misure governative.

Forse così non si capisce. Sembra retorica. Io l’ho capito quella notte a Idil, quando è venuta a mancare la luce e sono stata invitata a spostarmi in un’altra stanza, lontana dalle finestre. Rumore di cingolati. E poi raffiche di mitra. E i vetri che tremavano.

“Non c’è coprifuoco – spiegava la famiglia che ci ospitava – però capita spesso, quasi ogni notte, che tra mezzanotte e le due tolgano l’elettricità. E i blindati passino in città. E poi si sentono queste raffiche. È per spaventare le persone. E indurle ad andare via. Tu non sai dove loro stiano sparando. Potrebbero aprire il fuoco in ogni momento. Anche contro casa tua. Così stanno facendo a Cizre… Però loro qui sparano in aria. Ogni notte. Appena fuori dal Paese. Perché? Gli basta dire che hanno visto qualcosa muoversi nelle colline circostanti. In realtà lo fanno per farcene andare”.

Forse così si capisce un po’ meglio l’arroganza di una lotta al terrorismo trasformata nella identificazione come nemico di una intera popolazione. Quella curda. Quella curda che in queste municipalità a maggioranza assoluta vota HDP. Il giorno dopo, all’alba, si parte per Cizre.

Eravamo i primi a calpestare quelle strade. In un’atmosfera surreale. Con la sensazione straniante di trovarsi nella Kobane danneggiata dalla guerra e la certezza di essere geograficamente in Turchia. I cadaveri, le testimonianze di chi aveva visto morire i propri cari dissanguati, per un’ambulanza negata, le facce dei bambini e delle donne, le case crivellate… quotidianità violentate dalle macerie.

È in una di queste strade, nel quartiere di Berivan, mentre mi trovavo insieme al Presidente dell’Associazione degli Avvocati Mesopotamici e ad altri colleghi, che ho incrociato Tahir Elçi. Era insieme ad altri due Presidenti del Consiglio dell’Ordine di altre città. Ci fermammo. Venni presentata. Uno scambio di parole e si proseguì nel lavoro di rapportaggio.

Di lui ho il netto ricordo dello sguardo serio e concentrato. Dello scambio di mani, di sguardi e di parole, serio come seria era la situazione che stavamo attraversando. Nessuno spazio a sorrisi di circostanza. Sulla sua faccia aveva scolpita l’espressione di chi sa esattamente cosa significa per il proprio Paese, per la democrazia, per il futuro prossimo, quello che lì era successo, ed altrettanto esattamente sa cosa fare per denunciarlo.

Lui non era venuto con noi dal giorno prima. Ma la sua presenza lì quel giorno aveva un grande valore simbolico. Perché rivendicava la centralità del ruolo dell’Avvocatura tutta nella denuncia della rottura dello stato di diritto, nell’accertamento delle responsabilità di Stato. Lui rappresentava l’Avvocatura e l’Avvocatura lì rappresentava la speranza di Giustizia, non solo per quella gente, ma anche per gli avvocati stessi delle varie sigle associative impegnate nella difesa dei diritti umani, che quella Giustizia dovevano perseguire, perché con lui lì sapevano che non l’avrebbero perseguita da soli, in quanto curdi o i quanto attivisti dei diritti umani, ma nell’interesse collettivo della difesa dei comuni valori costituzionali.

Lui ci aveva sempre creduto che questa fosse la strada giusta. Non a caso era uno dei fondatori di Amnesty Turchia. È stato sempre T. Elçi a promuovere l’appello per chiedere l’intervento di osservatori internazionali per le elezioni. Appello cui hanno aderito più di 500 persone da tutto il mondo. Soprattutto dall’Europa. E tra questi numerosi italiani, tra cui noi dei Giuristi Democratici.

Poi dopo Cizre c’è stato il coprifuoco a Silvan, dopo Silvan a Sur. E poi Nusaybin….E la conta di morti e feriti. E nuovi rapporti. E ogni volta in queste conferenze stampa si denunciava quanto accertato “sul campo”.

I numeri del Governo, i terroristi uccisi nelle “operazioni”, venivano smascherati: è terrorista un bambino di 35 giorni ucciso da un cecchino mentre è in braccio alla mamma? E una donna incinta sulla soglia di casa? E un bimbo di 7 anni? Noi le sappiamo le storie. Noi vogliamo Gustizia. Quante atrocità può coprire la lotta al terrorismo? E questo era Tahir Elçi.

Quello che continuava a chiedere giustizia per tutte le persone torturate e fatte sparire negli anni Novanta. Ieri e oggi. Quello che aveva ottenuto la condanna del Governo davanti alla CEDU. Passato e presente di una storia di persecuzioni del Governo nei confronti dei curdi, al di sopra e al di fuori dalla legge. Nella storia di un uomo, la dedizione alla democratizzazione del suo Paese, alla individuazione delle responsabilità di Stato nella lesione dei diritti umani dei singoli e della comunità.

Fino a scoperchiare il paradosso del diritto penale del nemico portato alle sue estreme conseguenze. Della lotta al terrorismo del PKK come paravento per occultare l’esigenza di affrontare politicamente le rivendicazioni del popolo curdo, legittime seppure, come ammesso, portate avanti anche con la lotta armata. Una realtà scomoda in un Paese in pole position per il livello di censura.

Una dichiarazione con cui ha firmato la sua condanna a morte. Con lui si sarebbe voluto sterminare anche tutto questo. Una volta una signora curda mi disse queste parole: noi curdi siamo sempre stati oppressi dagli Stati nei quali ci hanno diviso. Oppressi, torturati e sterminati. I nostri figli, se ci teniamo al futuro, non hanno che due strade: o fare i guerriglieri o gli avvocati. O la lotta armata o quella per i diritti e la democrazia.

Uccidendo Tahir Elçi hanno cercato di strappare a milioni di curdi che vivono in Turchia la speranza di Giustizia e di democrazia. Quella che ogni giorno muove migliaia di giornalisti, attivisti, politici e avvocati che, nell’esercizio del diritto di critica e nella difesa dei diritti umani, rischiano di essere arrestati per propaganda al terrorismo. Che cosa resta se si spegne la speranza di Giustizia? Lui voleva la pace.

Noi non dimenticheremo il suo insegnamento. Il suo esserci. Grazie. A lui per esserci stato. E a tutte le colleghe ed i colleghi turchi e curdi che gli sono sopravvissuti, e continuano a difendere diritti umani e democrazia.

Barışın Elçi’sini unutmayacağız!

*Avvocata, Giuristi Democratici