EUROPA

Ni patrie, ni patron!

Note a caldo sul voto francese
Le Pen al ballottaggio: non chiamiamoli populisti

Alla fine, le elezioni che rischiavano di far tremare i mercati e la governance europea hanno incoronato (almeno per ora) l’ipotesi più contigua alle tecnocrazie dei mercati e della UE. È solo il primo turno, ma ad oggi il principale risultato è questo.

Emmanuel Macron, ex ministro del governo Valls, ha costruito in pochi mesi un partito politico basato sulla sua immagine. En Marche!, che riprende le iniziali del suo nome e cognome, non è radicato territorialmente, né ha quadri di partito. Deve il suo successo alla relazione diretta tra base e capo, una sorta di populista ben legato ai circoli della grande finanza e propugnatore di un liberalismo abbastanza inedito. Fondamentalmente d’accordo con la ristrutturazione sociale e del mercato del lavoro imposta dai diktat europei, ma, almeno a parole, contrario alla dissoluzione dello stato sociale. Consapevole delle colpe coloniali della Francia, ma sostenitore della tolleranza zero sui temi della sicurezza. Un pezzo importante della sua campagna elettorale, Macron lo ha giocato promettendo “riforme strutturali” nelle banlieues delle grandi metropoli.

Con lui al ballottaggio andrà Marine Le Pen, seconda a poco più di due punti (21,5% contro 23,8%). Nonostante questa fosse l’elezione attesa da una vita, la leader del Front National non ha sfondato neanche stavolta. Un risultato in crescita rispetto alle elezioni del 2012 di circa 3 punti percentuali (un milione di voti), ma comunque limitato ai suoi feudi elettorali, nord-est e sud-est su tutti. Stravince nella Francia rurale, rimane limitata nella grandi città, è inesistente nell’Île de France e a Parigi (che comunque rappresentano il 25% dell’elettorato). Nella capitale, Le Pen prende meno del 4%: un risultato ridicolo per chi aspira a guidare la Nation française. Tuttavia potrebbe aggiudicarsi molti più seggi di adesso nelle prossime legislative, a giugno.

Sconfitti, in modo diverso, tutti gli altri. François Fillon, candidato del centro-destra, aveva provato a giocarsi la carta della governabilità, essendo l’unico candidato, tra quelli che aspiravano al ballottaggio, che alle legislative di giugno avrebbe potuto ottenere una maggioranza parlamentare. Per tutti gli altri, questo è quasi impossibile: Macron non ha un partito; i socialisti si sono disintegrati; Le Pen, col doppio turno uninominale, prende deputati solo in una parte del paese (un tempo identificata genericamente con Vandea); Mélenchon non ha una forza politica sufficiente. Ma nemmeno la carta della governabilità è bastata: Fillon è arrivato terzo con il 19,94% dei voti. Meno di mezzo punto in più del candidato della sinistra radicale, Jean-Luc Mélenchon: una campagna elettorale all’attacco, costruita attraverso strumenti di comunicazione innovativi e basata su due proposte politiche di rottura. All’interno: nuova costituzione e passaggio alla sesta repubblica. All’esterno: cancellazione e riscrittura dei trattati europei. Mélenchon ha recuperato molti punti e tantissimi voti nelle ultime settimane. Si è mangiato il candidato socialista, andando a rappresentare l’unico voto utile a sinistra. È cresciuto molto rispetto alle precedenti elezioni, passando dall’11 al 19%. Anche se rimane fuori dal ballottaggio, il leader del Front Populaire rende evidente un dato semplice: non c’è europeismo possibile senza rapporti di forza, senza contropoteri efficaci. Benoît Hamon e tutto il Partito Socialista Francese escono polverizzati dal voto: il 6,35% è uno dei peggiori risultati di sempre. Una morte annunciata, quella dei “socialisti”, che segue la scia di suicidi della socialdemocrazia europea ai tempi della crisi, dalla Grecia all’Olanda. Del resto, nei peggiori anni dell’austerity e della ristrutturazione neoliberale dello spazio europeo, questi partiti sono riusciti soltanto a stringere “grandi coalizioni” o ad approvare riforme peggiori di quelle della destra. La Loi Travail è uno degli esempi più evidenti! Un ultimo sussulto di dignità avrebbe dovuto spingere Hamon – silurato in corsa da Hollande e Valls, che si è schierato con Macron, rompendo per la prima volta nella tradizione socialista il patto del primarie – a ritirarsi, provando a favorire Mélenchon per il ballottaggio. Invece, non lo ha fatto e ha ulteriormente ammorbidito il suo programma strada facendo, ad esempio riducendo la forza iniziale della sua proposta sul reddito.

Il candidato di centro-sinistra, come quello di centro-destra, ha già dato indicazioni di votare Macron. Solo Mélenchon non ha fatto altrettanto, rimettendo la decisione alla piattaforma che lo sostiene.

Anche se i voti anti-establishment degli ultimi grandi appuntamenti elettorali suggeriscono di non affidarsi ai calcoli aritmetici o ai sondaggi della vigilia, è probabile che Macron vincerà anche al secondo turno. Le Pen ha toccato il suo massimo storico, ma è difficile che vada oltre, almeno per il momento. Un momento che, comunque, tra Trump, Brexit e attentati costituisce una congiuntura positiva (ma forse non sufficiente) per la leader dell’estrema destra francese. Il sistema presidenziale del doppio turno, del resto, è pensato esattamente in funzione di ciò che in Italia si chiamava “arco costituzionale”. Tutti i principali esponenti repubblicani hanno dato indicazione per Macron, anche se delle incognite rimangono. Come ad esempio, una parte dell’elettorato di Fillon, soprattutto quella cattolico integralista del mariage pour tous. Più difficile per Le Pen conquistare la fiducia dell’elettorale gollista, nonostante i suoi ripetuti tentativi e le evidenti citazioni del Generale nel discorso di ringraziamento.

Oltre all’elezione del Presidente, sarà fondamentale capire che tipo di maggioranza parlamentare si comporrà nelle legislative di giugno. Un partito come quello di Macron, ad esempio, rappresenta una variabile del tutto imprevedibile: appena nato e senza strutturazione territoriale difficilmente potrà ottenere una maggioranza solida. La probabile presidenza del leader di En Marche!, dunque, potrebbe essere sostenuta sia dai socialisti che dai repubblicani, anche in virtù del tentativo di superare il tradizionale quadro partitico. Si profilerebbe, quindi, una situazione di cohabitation (presidente di un colore, maggioranza parlamentare di un altro) sulle ceneri del sistema politico. Si tratterebbe di una maggioranza del tipo “grande coalizione” alla tedesca, parallela a quella che probabilmente si renderà necessaria anche in Italia. In una situazione sempre a doppio turno, ma non così drammatica come la scelta del Presidente non ci sarà semplicemente “voto utile”, ma una complicata negoziazione, perché ogni partito vorrà piazzare i suoi. Questa sarebbe una buona occasione per trasformare in seggi la percentuale presidenziale di Mélenchon, dopo che il Ps sarà andato in pezzi.

Per comprendere la complessa situazione politica francese, però, è impossibile limitare lo sguardo allo spazio angusto delle cabine elettorali. Il voto registra una situazione di spaccatura profonda a tutti i livelli della società francese. Una spaccatura che nessuno potrà sanare. Un elettore su tre non è andato a votare, mentre le continue mobilitazioni e i duri scontri vanno avanti ormai da più di un anno. Dal movimento contro la Loi Travail a quello contro le violenze poliziesche, partito dalle banlieues in cui la polizia francese continua a uccidere. A livello soggettivo, queste mobilitazioni hanno trasformato radicalmente un’intera generazione che in buona parte è rimasta lontana dai seggi, o al massimo ha votato Mélenchon, ma ha comunque condizionato la campagna elettorale con elementi programmatici. A livello di dibattito pubblico, le mobilitazioni hanno impedito che Le Pen monopolizzasse la scena antisistemica e potesse sfondare ulteriormente a livello elettorale. Anche la parziale radicalizzazione del discorso politico che si è data a sinistra è da leggere come prodotto delle piazze di questi mesi.

Insomma, non si è determinato alcun passaggio diretto lotte-elezioni, mentre all’orizzonte si profila un quadro di mobilitazioni di lungo periodo. Questo è il dato più importante a urne chiuse: Macron non riuscirà a pacificare il paese. Se dovesse vincere Le Pen, invece, la spaccatura diventerebbe immediatamente faglia. Con effetti imprevedibili.