ROMA

Morire in periferia, tra esclusione sociale e barbarie mediatica

72 ore dopo l’assassinio delle tre sorelle rom, vicino Centocelle, la notizia è già precipitata negli inferi delle home page, sotto le rubriche di spettacoli e curiosità.

Sotto il nuovo singolo di Fedez o il video del “promesso sposo bendato”, caduto in un “divertentissimo scherzo”. Le testate liberal, seguendo l’ombra delle prime ipotesi degli investigatori, decidono che l’eventuale “vendetta tra rom” derubrica il livello di orrore – e quindi di notiziabilità – dell’omicidio. Non si tratterebbe di “razzismo”, ma di “regolamento di conti tra zingari”. Poca roba.

Proviamo a riavvolgere il nastro della copertura mediatica.

Mercoledì 10 maggio, tarda mattinata. I primi giornalisti che arrivano sul posto cercano il bottino del “quartiere degradato” e del decoro che non c’è. Tampinano i curiosi presenti, affacciati alle finestre o all’ingresso del centro commerciale Primavera, inaugurato nel 2003 tra polemiche e scontri con i residenti per una variazione urbanistica in corso d’opera. I reporter imboccano gli intervistati sui rom che rubano, saccheggiano, sporcano. Qualcuno parla di furti generici, altri di vetri rotti “non si sa da chi”, altri ancora si soffermano sui problemi legati alla raccolta dei rifiuti da parte dell’Ama. Alcuni, temerari, raccontano di chiacchiere mattutine e questue pacifiche “con gli zingari che abitavano nel camper”.

Nel primo servizio di Sky, la geografia viene piegata alla narrazione: “Siamo nel cuore di Centocelle, a poca distanza dal campo rom di via Salviati”. Siamo a Casilino 23 (da poco Villa De Sanctis, dall’omonimo parco che si estende tra via Casilina e via dei Gordiani), Centocelle inizia lì davanti e parliamo di almeno tre chilometri e due quartieri di mezzo, Collatino e Tor Sapienza, da via Salviati.

Nel pomeriggio, la stessa giornalista si fa immortalare in un lungo piano sequenza all’ingresso del campo rom attrezzato di via dei Gordiani. L’obiettivo si sofferma sulla catasta di rifiuti che assedia la fila di contenitori dell’Ama. Sguardo in camera e voce grave: “Siamo a pochi metri dal luogo del delitto, all’ingresso del campo tanta spazzatura e poca voglia di parlare”. Siamo invece a quasi un chilometro dal luogo del delitto.

Su questa linea si muove tutta la stampa (escluso il Manifesto) e le tv, che confondono toponomastica e collocazione dei quartieri, insediamenti abusivi e campi attrezzati, omettendo fino in fondo i dati ufficiali sul numero e il tipo di reati in città. Come se fosse impossibile restare agganciati senza speculazioni al fatto in sé, all’emozione della tragedia, all’assurdo destino – accettato come normalità – di una famiglia di undici persone costrette a vivere e a morire in un camper di un parcheggio qualsiasi di una periferia qualsiasi.

Le redazioni ridotte a fortini della “sicurezza pubblica” hanno pronti in canna i due colpi per affondare qualsiasi diserzione critica sul modello di città e di accoglienza, sulle politiche sociali. Se si apre la pista dell’aggressione “esterna”, è pronto il plastico della “reazione esasperata” del branco/balordi per conto del quartiere degradato, invaso dai rom; nell’ipotesi di una “vendetta tra clan”, si disegna il quadro antropologico del deviante “di natura”, si srotola la mappa della “città illegale” ostile allo Stato, alle regole, alla buona convivenza con i cittadini sani, bianchi e italici.

Nessuno o quasi ha raccontato il quartiere dove è avvenuta la strage. Casilino 23 nasce negli anni Settanta, in una zona cuscinetto tra Centocelle e Torpignattara. Zona di edilizia sovvenzionata e di cooperative, rosse e bianche, che iniziano a costruire in quel lembo di terra lambito dai borghetti dei baraccati della vicina Villa Gordiani. “Nel costruire il suo gioco urbanistico – raccontano gli architetti di strada Rossella Marchini e Antonello Sotgia – Ludovico Quaroni ha pensato ai bastoncini dello Shanghai. Una volta gettati sul terreno, la punta di quelle case guarda a un centro indefinito, lontano, che ‘tiene’ la loro disposizione a raggiera”.

Dall’inizio degli anni Ottanta si sviluppa un piano di servizi urbanistici integrati, tra residenziale “di qualità”, spazi verdi, strutture sportive, servizi, mercato, scuole, oltre a due luoghi inventati dal basso da un ricco tessuto sociale e politico. Al confine estremo su viale della Primavera, l’ex Casale Falchetti, occupato nella primavera del 1999, testimone ideale del vicinissimo Teatro di Centocelle, nato nel 1972 in seguito all’occupazione delle limitrofe case di via Carpineto. Un vecchio garage in disuso viene scelto come spazio scenico e, nel giro di pochi anni, il teatro entra di diritto nel circuito culturale alternativo, ospitando un memorabile spettacolo di Dario Fo.

Al centro del quartiere, nel 1988, viene occupato il Casale Garibaldi e riqualificata l’area verde circostante, fino ad allora residuo di una vecchia struttura rurale (dal nome dell’ubiquo e discusso generale che lì avrebbe soggiornato…), finita in un progetto di ristrutturazione della Provincia di Roma, annunciato e mai concluso. Vinta la battaglia della riqualificazione, a carico dell’amministrazione pubblica, lo spazio si sviluppa attraverso un progetto sociale e culturale promosso da un consorzio di associazioni. Questi luoghi, insieme alla straordinaria esperienza della scuola Iqbal Masih (diretta dalla compianta Simonetta Salacone) e alle connessioni con i comitati di genitori, insegnanti creativi, gruppi informali, singoli, centri sociali limitrofi, costruiscono una trama solidale non indifferente. In grado, nel corso degli ultimi venti anni, di intraprendere diversi percorsi di inclusione, conoscenza, contaminazione con gli insediamenti rom di Casilino 700 e 900, prima, e di quelli di via dei Gordiani, fino ad oggi.

Per essere chiari: da queste parti non c’è nessuna isola felice, nessuna comunità elettiva estranea alle contraddizioni e ai problemi di una città come Roma, alle sue pulsioni razziste, al suo egoismo di ritorno. La nascita del centro commerciale, una sorta di galleria scavata sotto la pancia del quartiere, non solo ha ingolfato la zona di traffico e di consumo compulsivo, ma ha generato un residuo sociale di comitive di muretto, coatte, para-ultras, muscolari, che a volte giocano senza timore con i simboli dell’orrore. A partire da queste contraddizioni, si conferma un contesto urbano striato, fatto di spazi, progetti, modi di vivere e abitare il quartiere irriducibile alla categoria passepartout del “degrado”, dei residenti asserragliati nel fortino, dell’invasione straniera, del decoro come arma di ditruzione dei legami sociali.

La nazionalità o il colore della pelle dell’assassinio di Francesca, Elisabeth, e Angelica non saranno un fattore determinante a stabilire, in meglio o peggio, il grado di barbarie della tragedia. Il razzismo e il fascismo di oggi, più di ieri, vivono e si esprimono nelle materiali condizioni sociali di povertà, esclusione, egoismo, sfruttamento. Non hanno bisogno, necessariamente, di una connotazione “etnica” o politica pura, separata, rappresentativa di un modello binario, comodo per le coscienze poco allenate alla complessità del contemporaneo. Le parole scarseggiano, la rabbia ci fa sbandare. E così prendiamo in prestito le parole di chi ha conosciuto sul campo la dura realtà della discriminazione e la passione per la solidarietà: “È l’esclusione sociale e il vivere ai margini che uccide, prima ancora della mano (qualunque essa sia) che appicca un fuoco o mette la mano su una pistola. E lo fa al di là della provenienza, non ha nazionalità. Da sempre tali condizioni hanno prodotto e producono ancora oggi morti e disperazione. Una spirale che riproduce se stessa. Dovremmo focalizzare l’attenzione su questo, spezzare questo cerchio, perché se non si interviene sulle cause che portano a queste condizioni, episodi di questo tipo continueranno ad accadere”.