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Fantasia archeologica

Per una volta guardiamo a Roma non per parlare di buche, cassonetti straboccanti, penose giravolte di Marino e perbenismo straccione di Romafaschifo: la città, per storia e scenari, se lo merita. Il convegno di inizio giugno “2010 Rome, The Centre’s Elsewhere” è stata una buona occasione.

Se Roma, nella sua forma politica archetipica, si definisce per un nodo localizzato entro mura di antichi sentieri laziali e da cui in seguito si dirama un reticolo di strade che tagliano, organizzano, sottomettono e integrano un impero repubblicano, allora segnaliamo subito, fra mito e storia, le due tracce iscritte nel suo destino: un covo di fuggiaschi e una fucina di conflitti produttivi di istituzioni – dalle lotte fra patrizi e plebei fino all’Onda e alle occupazioni abitative e sociali di oggi. Tali conflitti, sin dall’inizio, si pongono come secessione e tensione fra centro e periferia, uso costituente dell’altrove: –the centre(s) elsewhere, appunto. Ci faranno da guida Tito Livio e il Machiavelli dei Discorsi sulla prima deca, prima ancora che Negri o Harvey.

Notoriamente Roma nasce come asilo sacro per i fuggitivi (Plutarco, Vita di Romolo, 12, 1), rifugio, a scopo di incremento demografico, per una multitudo obscura atque humilis, una turba di equivoci vicini accolta sine discrimine, liber an servus esset e soprattutto auida novarum rerum, di “bordello” si direbbe in una finta intervista odierna di black bloc (Livio I 8). Machiavelli (Discorsi I 1) tiene presente, da Livio, sia questo episodio che l’origine troiana dell’Urbe e classifica entrambe sotto la categoria di nascita “libera”, sia come aggregato per ragioni di sicurezza di «abitatori natii dispersi in molte e piccole parti» per opera di Romolo sia (a causa della discendenza di Romolo da Enea) come «liberi edificatori delle cittadi, quando alcuni popoli, o sotto uno principe o da per sé, sono constretti […] a abbandonare il paese patrio, e crearsi nuova sede».

Il passaggio dai re alla repubblica (509 a.C.) non risolve certo le tensioni esistenti fra patrizi e plebei, che restano sospese fin quando almeno i primi temono il ritorno di Tarquinio il Superbo appoggiato dai ceti popolari: «dei quali temendo la Nobilità, ed avendo paura che la Plebe male trattata non si accostasse loro, si portava umanamente con quella: ma, come prima ei furono morti i Tarquinii, e che ai Nobili fu la paura fuggita, cominciarono a sputare contro alla Plebe quel veleno che si avevano tenuto nel petto, ed in tutti i modi che potevano la offendevano» (I 3). Il contrasto esplode con la secessione della plebe nel 494 a.C., per protesta contro la tracotanza patrizia, il loro monopolio delle cariche e l’ostinata persecuzione dei poveri (spesso soldati) mediante la schiavitù per debiti (cfr. Livio, II 24-25) Malgrado l’uso strumentale del pericolo bellico dei Volsci, si scatena uno sciopero militare, in un primo tempo aggirato con promesse, poi ripreso dopo la fine dei combattimenti e l’elusione degli impegni di remissione dei debiti. Soldati e plebei si ritirano sul Monte Sacro, allora estrema periferia dell’Urbe (oltre tre miglia), e solo Menenio Agrippa, con un apologo truffaldino, riuscirà a trovare un compromesso sulla base dell’istituzione dei tribuni della plebe, magistratura interdetta ai patrizi e caratterizzata dall’inviolabilità e potere di veto dei suoi esponenti – un vero contropotere permanente.

Machiavelli intitola il cap. 4 dei Discorsi, contro ogni retorica concordista, “Che la disunione della plebe e del senato romano fece libera e potente quella repubblica” e scrive:

«Io dico che coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe, mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma [essendo] in ogni republica due umori diversi, quello del popolo, e quello de’ grandi; e come tutte le leggi che si fanno in favore della libertà, nascano dalla disunione loro […]E i desiderii de’ popoli liberi rade volte sono perniziosi alla libertà, perché e’ nascono, o da essere oppressi, o da suspizione di avere ad essere oppressi. […] E se i tumulti furano cagione della creazione de’ Tribuni, meritano somma laude, perché, oltre al dare la parte sua all’amministrazione popolare, furano constituiti per guardia della libertà romana».

Al che segue che lo sfogo legale di questa vita tumultuosa consiste non solo nell’istituzione del tribunato, ma anche nell’espansione demografica e territoriale, perché tutte le cose degli uomini sono in perpetuo moto. Torniamo così alle strade regionali e consolari che mediano il conflitto romano trasformandolo in espansione e propagazione a raggio sempre più esteso. Nella città rinascimentale e barocca esse convogliano, in senso inverso verso Roma, masse di pellegrini, intenditori d’arte e (successivamente) turisti seriali, mentre piazze e vie interne si configurano nell’attuale scenario spettacolare, senza soluzione di continuità fra celebrazione del potere papale, lettura hollywoodiana e movida, senza passare per l’urbanesimo borghese-industriale di Londra, Berlino e Parigi, l’ordinato susseguirsi di boulevards, faubourgs e banlieues.

La città burocratica umbertina entra nella modernità solo all’inizio del XX secolo, con vari esperimenti semiperiferici (esterni cioè alla mura aureliane, ma ravvicinati) e con trasporti solo di superficie. Con il fascismo lo svuotamento del centro urbano dai ceti popolari con lo sventramento di interi quartieri a fini epico-monumentali genera, per effetto collaterale, la nascita di una vera periferia (le borgate ufficiali), rigonfiata dall’afflusso di operai edili dal resto d’Italia. Una ferrea legislazione contro l’urbanesimo produce una manodopera priva di diritti e di casa, prorogata sotto il regime democristiano e riabilitata solo con la legge abrogativa del 10 febbraio 1961, n. 5, e con il risanamento dei borghetti abusivi sotto l’amministrazione Petroselli all’inizio degli anni ’80. Il regno dei palazzinari deforma il tessuto urbano moderno di Roma nel segno di un continuum, fra la città otto-novecentesca (subito fuori le mura, contenenti la città antica e barocca) e i campi della speculazione edilizia selvaggia e delle costruzioni “spontanee”, fuori da ogni velleità pianificatoria. La città “illegale” riceve, a partire dalla fine del secondo millennio, un’ondata migratoria di origine extra-comunitaria paragonabile a quella proveniente dalle province italiane negli anni del fascismo e soprattutto del dopoguerra, con i soliti sbocchi nell’edilizia e nel terziario, essendosi ulteriormente indebolite le strutture industriali sorte negli anni ’40-‘70 dello scorso secolo. Questo insieme, popolato da precari di ogni sorta, è il luogo dove si esercita l’amministrazione biopolitica della vita, il milieu foucauldiano che sostituisce la tradizionale produzione di uno spazio rappresentativo e dove vanno in scena estrazione di plusvalore e resistenze, rendita e mitologie post-urbane.

Il centro burocratico-turistico non esercita le funzioni trainanti delle grandi città europee e perfino la movida con tutti i correlati (street art, ristoranti e negozi etnici, commercio di strada) si sposta in aree lungo alcune vie radiali (Ostiense, Prenestina, Casilina, Tiburtina), ben più lontano dal centro che in altre città (anche per la maglia rada dei trasporti sotterranei). Il Pigneto e Porto Fluviale non sono Malasaña e Lavapiés, mentre Trastevere e Campo dei Fiori sono riservate ai turisti ubriachi e ai loro parassiti locali e solo San Lorenzo e Testaccio rispondono, sempre più a fatica, al paradigma medio europeo. Nulla è più provinciale, dopo il calar del sole, del “centro” romano, butterato per di più dalle succursali e trattorie parlamentari.

L’innovazione sociale, politica e di consumo (mettendoci dentro centri sociali e centri commerciali, occupazioni abitative e orrori urbanistici, ghetti etnici e abbozzi di gated communities, campi rom e nuove università o facoltà) abita invece in periferia, cominciando a valicare il cappio soffocante del GRA e dell’incompiuto anello ferroviario e della sue stazioni di cintura. È nato perfino un lago sorgivo, nell’area ex-Snia, per completare l’antico patrimonio fluviale di Tevere e Aniene. Il conflitto, che fu il sale della potenza antica di Roma, certamente ha continuato a manifestarsi nelle sedi del potere, dunque entro la cerchia delle mura aureliane e nell’Università la Sapienza, il loro immediato extra pomerium. Porta S. Paolo nel luglio 1960, le occupazioni e manifestazioni del 1968 e i cortei e la guerriglia di metà anni ’70, la Pantera del 1990 e infine l’Onda del 2010, che già significativamente, dopo gli scontri del 14 dicembre nel centro storico, si prese la rivincita sfilando sulla tangenziale, aprendo così un nuovo spazio periferico di rappresentazione del conflitto, che già prima era presente in forma effettuale ma non esibita nella pratica dei centri sociali, delle scuole di italiano e sportelli per migranti e delle occupazioni abitative.

Naturalmente la periferia – rinnovato asilo dei fuggiaschi da tutto il mondo –è anche l’incubatrice della xenofobia e del populismo, luogo di sgomberi ufficiali e pogrom fai-da-te: la “città generica” diventa l’obbiettivo delle campagne sulla “sicurezza”. Entrambi gli eserciti si schierano nel luogo della vita, che ha abbandonato il centro a commercianti in crisi, corrotto ceto politico, turisti e simil-bobos indigeni. Ruspe e anomalie si fronteggiano sul limite nuovo della città, come su quello primitivo un tempo Romolo fece fuori Remo e arruolò fra i cittadini i derelitti, iscrivendo per sempre stasis e ospitalità nel cuore di Roma.

*Relazione all’incontro “2010 Rome, The Centre’s Elsewhere”, a cura di Marco Burrascano e Simone Capra, tenutosi presso il Dipartimento di Architettura di Roma III il 4 giugno 2015 su progetti laboratoriali del Berlage Institute di Rotterdam (per gentile concessione degli organizzatori).