MONDO

Continua la lotta dei migranti africani in Israele

Tre giorni di sciopero e manifestazioni nelle principali città. Il governo di Tel Aviv non sembra intenzionato a dare risposte.

Tel Aviv, 6 gennaio 2014 – Sono al secondo giorno di sciopero e di mobilitazione continua i richiedenti asilo africani che vivono in Israele. Chiedono di mettere fine alle politiche razziste del governo di Tel Aviv, cancellare la nuova legge contro gli “infiltrati”, fermare gli arresti indiscriminati e le detenzioni ingiustificate e senza fine, esaminare le richieste di asilo (dalla sua nascita Israele ha riconosciuto la protezione internazionale soltanto a poche centinaia di persone), riconoscere i diritti civili e sociali dei profughi.

Dopo un mese di manifestazioni e marce nelle principali città del Paese e dalle prigioni del deserto fino a Gerusalemme, i migranti hanno indetto tre giorni di sciopero, dal 5 al 7 gennaio. Ieri, la più grande manifestazione di cittadini stranieri che lo Stato di Israele ricordi ha invaso Rabin Square, la piazza centrale di Tel Aviv. Oltre 30.000 persone hanno manifestato chiedendo libertà, diritti e dignità, urlando: “Siamo rifugiati, non criminali”; “Sì alla libertà, no alla prigione”. Nel frattempo, lo sciopero bloccava diverse attività produttive e dei servizi nelle località turistiche, dove numerosi migranti lavorano in condizioni di forte sfruttamento e precarietà. Oggi, la mobilitazione prosegue sotto le sedi della comunità internazionale. Israele, infatti, non è più riconosciuto come interlocutore dai manifestanti, che per questo hanno deciso di sfilare davanti alle ambasciate dei Paesi “democratici”, per sollecitare un intervento della comunità internazionale che induca lo Stato israeliano a rispettare la Convenzione di Ginevra, di cui anche Israele è firmatario. Perciò questa mattina l’ennesimo enorme corteo – stimato intorno alle 20.000 persone – ha attraversato le strade di Tel Aviv, toccando l’ambasciata statunitense, la sede dell’Unione Africana e dell’Unione Europea, l’Agenzia ONU per i rifugiati (che ha criticato le politiche razziste israeliane e la nuova legislazione anti-infiltrati) e diverse ambasciate europee, compresa quella italiana (foto in basso).

In Israele risiedono circa 50/55.000 richiedenti asilo. Vengono principalmente dall’Eritrea, dal Sud Sudan e dal Darfour. Sono costretti a vivere in condizioni terribili, imprigionati nella miseria e nella povertà, ricattati e sfruttati sui posti di lavoro, vessati dalle retoriche identitarie e razziste dei principali partiti politici e di buona parte dell’opinione pubblica israeliana. Mentre la coalizione di governo ha definito i “sudanesi” come un ”cancro” sociale, la stessa legge approvata il mese scorso chiama i richiedenti asilo “infiltrati”, un termine che rimanda a una precedente misura contro il ritorno dei palestinesi. Come a dire che cambia il nemico pubblico, ma l’obiettivo rimane lo stesso: completare la pulizia etnica per costruire uno stato omogeneo dal punto di vista religioso e razziale.

A tale scopo è funzionale la creazione di una delle più grandi strutture detentive del mondo: Holot, un centro di identificazione ed espulsione costruito recentemente nel deserto del Negev che a regime conterrà circa 10.000 persone. La retorica del governo ha presentato questa prigione come una conquista di civiltà, dal momento che gli “ospiti” potranno entrare e uscire (per andare dove, visto che si trova in un deserto?!) durante le ore del giorno. Ma i rifugiati in sciopero hanno respinto la provocazione, indicando immediatamente Holot come uno dei principali obiettivi della loro protesta, verso cui intendono marciare per chiederne la chiusura. Dall’Italia alla Libia, dalla Grecia a Israele, dai paesi di transito a quelli di destinazione dei flussi migratori non ci può essere spazio per le galere etniche, non è possibile umanizzarle. Bisogna soltanto chiuderle. Per sempre.

Mentre la lotta dei richiedenti asilo continua a crescere, coinvolgendo oltre la metà del totale di quelli presenti sul territorio israeliano, le reazioni politiche si dimostrano ancora una volta segnate dalle chiusure dei partiti di governo e opposizione, che non hanno nessuna intenzione di ricevere le istanze di dignità messe in campo da questo enorme movimento. Il sindaco di Tel Aviv ha affermato che la mobilitazione innescherà violenze razziste e il presidente della coalizione di destra che ha la maggioranza in Parlamento ha detto che le manifestazioni sono una “bomba a orologeria” che può essere disinnescata solo deportando tutti i rifugiati nei loro Paesi di origine (fonte: nena-news.globalist.it).

Ancora una volta Israele, presentato spesso come l’unico Stato “democratico” nel Medio Oriente, mette in mostra la sua indole razzista e totalitaria, irriducibile a considerare in alcun modo i diritti e la dignità degli esseri umani non-ebrei e incline a cancellare tutto e tutti pur di perseverare nella costruzione della “casa omogenea”. Ancora una volta Israele si chiama fuori dal rispetto dei trattati internazionali che tutelano i diritti fondamentali delle persone. Ancora una volta tutto ciò avviene nel silenzio complice e connivente degli Stati Uniti, dell’UE e dell’intera comunità internazionale. Ancora una volta, però, le lotte per i diritti e la dignità dimostrano di non avere frontiere. Ancora una volta le leggi, le prigioni, le frontiere si rivelano incapaci di contenere il desiderio di libertà.

 

Per seguire la protesta:

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