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Berlinguer santo subito!

Il film (?) di Walter Veltroni tra amnesie e agiografia del leader del Pci.

E’ sempre complicato quando, sullo schermo, ti trovi a vedere delle immagini, quindi delle storie, che hai vissuto. Complicatissimo quando quella è la “tua” storia. Il periodo in cui pensavi che anche quel paese, dove ti era capitato di nascere, sarebbe cambiato. Anche grazie a te che avevi scelto di essere diverso da come eri stato “pensato” e saresti dovuto essere.

Scoprivi, giorno dopo giorno, che quello che avevi deciso di farti capitare stava capitando a tantissimi. Nelle città, nelle scuole, ovunque ci fosse qualcuno deciso: a non piegarsi ad una vita disegnata dall’autoritarismo; a sigillarsi in una di quelle poche caselle che erano lì pronte ad accogliere la tua vita.

Anni fantastici. Nascevi per la seconda volta. Questa volta, però, non eri solo. Intrecciavi amori e progetti, desideri e sogni, stupore e smarrimento e soprattutto rabbia. Tanta. Per quello che, fino allora, ti aveva circondato e schiacciato.

Scoprivi un modo di essere in città. Non più in quelle case e in quegli edifici che avevano il compito di tenerti nascosto che “fuori” c’era qualche cosa. Avevi iniziato ad andare per le strade. A percorrerle, riempiendole in continui e infiniti cortei.

Potevano essere indirizzati a “riprendersi” una facoltà occupata dalle guardie; a gridare indignazione per un paese che, invece di case, schiacciava decine di migliaia di persone in baracche; a dire basta con le bombe delle stragi. Ma soprattutto avevano – e ci riuscivano – la capacità di costruirsi come popolo e a riconoscere come simili gli altri popoli del mondo, che lottavano contro la guerra e per la loro libertà.

Un popolo. Finalmente un popolo. Con le sue contraddizioni, i suoi diversi umori, le sue divisioni , le diverse strategie, capace di ritrovarsi in più occasioni (contro la scuola di classe, contro la guerra in Vietnam, sul referendum per divorzio e aborto…) ed anticipare la riflessione dei partiti che rincorrevano o ostacolavano.

Un fenomeno che ha attraversato, dolorosamente, alcune generazioni. Anche quella di Walter Veltroni che, però, di questo non parla con il suo “quando c’era Berlinguer” un documentario che ha voluto chiamare film.

Tessuto sul filo del ricordo personale, aiutato da un montaggio che strizza l’occhio a quella televisione che lo ha prodotto, dotato della “trovatina” di turno (lo svolazzare in bianco e nero della mitica pagina dell’Unità “Addio”, ripresa da un dolly che sembra sezionare la facciata della basilica di San Giovanni prima di far esplodere i corpi, i pugni chiusi, il pianto, la disperazione nelle immagini a colori del funerale di Enrico Berlinguer) Veltroni, fin dall’inizio, sembra impegnarsi più di tutto ad assolversi. A dire di essere stato dentro quella storia, ma di essere riuscito a tirarsene fuori.

Se oggi gli studenti di alcune importanti università italiane (RM3, La Sapienza, Sassari) non sanno rispondere alla domanda di chi fosse Berlinguer, non c’è da ridere, come puntualmente avviene nelle sale, quanto forse chiedersi se la distruzione della scuola – perché questo dimostrano quelle non risposte – non sia colpa non del perché abbiamo perso, ma del perché, così pervicacemente, si siano messi in campo gli strumenti per perdere. Per arrivare alla sconfitta.

Nelle tante interviste – presente una sola donna Bianca Berlinguer – monsignor Bettazzi, vescovo di Ivrea, ricordando il carteggio sul settimanale “Rinascita” con il segretario del PCI, dice che le masse cattoliche dimostrarono, con il loro voto ai referendum, d’aver capito la necessità del cambiamento contro l’indicazione del loro partito di riferimento.

Veltroni, ripercorrendo i medesimi anni, al contrario sembra voler rinunciare a chiedersi e ad interpretare i segnali del popolo della sinistra.

Così Francesco Cossiga è solo quello che “fece scappare il boia Kappler rannicchiato in una valigia” e non l’inventore delle squadre speciali, chi, con il benestare del sindaco comunista, mandò non i blindati, ma proprio i carri armati, nel 1977 a percorrere le strade di Bologna.

No. Il Pci non era la maggioranza nell’università di Roma come dice Lama, in uno storico filmato ripresentato da Veltroni, che sembrò non aver capito, né capire mai, il carattere dispotico ed eversivo del suo “comizio” alla Sapienza. Quel movimento, non solo degli studenti, fu represso e combattuto soprattutto dal PCI che non accettò la messa in discussione del partito da parte di un movimento che in pochi anni aveva consumato lo strappo con le sue stesse forme organizzative che si era dato e deciso ad abbassare il cielo sulla terra.

E’ singolare che di quel biennio 77/78, il film(?) scelga le considerazioni “standard” di un ex brigatista, mostri un incomprensibile spezzone su quello che avvenne a Milano al Parco Lambro, taccia dei compagni ammazzati nelle piazze, del “femminismo”, il nuovo modo di fare informazione (radio e giornali), le tante esperienze legate al raccontarsi, la critica al modello di sviluppo basato sull’energia nucleare, la richiesta collettiva di felicità.

E’ molto singolare che non si sia sentito, per esempio, chi, tanto per restare al cinema, anche con le immagini dimostrò di ben capire cosa stava succedendo (Gianni Amelio, Bernardo Bertolucci).

E’ molto singolare che poi tutto questo venga recuperato, in modo del tutto improprio e passivo, dal “feticcio” Lorenzo Jovanotti che dalle colline intorno Cortona ci parla del suo “comunismo”.

La felicità non si presenta mai nella stessa forma e con la stessa intensità, ma i tempi non sono mai stati il forte di Walter Veltroni.

Noi pensavamo che Achille e te ( ndr. Occhetto e Veltroni) – dice ad un certo punto Aldo Tortorella, lo storico leader per lungo tempo a capo della sezione cultura del PCI – quando si affrontò il dopo Berlinguer, avreste potuto cambiare quella condizione in cui si era venuto a trovare il Partito… dopo che facemmo un segretario di transizione (Natta), ma… la macchina sfuma la faccia e il sorriso di Tortorella sul panorama del quartiere Flaminio chiuso dal tappo del brutto edificio del Ministero degli Esteri .

Invece, eccoci qui a ricordare a trent’anni dalla sua morte una persona che anche quando ci litigavamo ferocemente non riuscivamo però ad odiare. Forse perché non lo abbiamo mai ritenuto triste e melanconico, ma solo, come noi, un piccolo uomo che sbagliò e sbagliò molto, che, quando seppe dire nel grande salone del Cremlino che c’era un’altra strada dalle invasioni dei “paesi fratelli” e delle ingerenze nelle decisioni dei partiti comunisti occidentali, ricevette un applauso di soli sette secondi. Mi sembrò di udire un boato.

P.S.

Ho visto il film di W.V. domenica pomeriggio a Trastevere (Roma) in un cinema affollato da over 50 con nessun giovane presente. Assolutamente nessuno. Quando sullo schermo i ragazzi intervistati hanno detto di non sapere chi fosse E.B, grandi risate. Ma cosa gli insegnano i loro genitori? Poi è stato tutto un cercarsi nelle immagini, a dirsi l’un l’altro dove si trovavano il giorno dei funerali, a riconoscere le facce dei dirigenti, a commuoversi insieme a Giorgio Napolitano, a stropicciarsi gli occhi e, alla fine, ad applaudire. Come si fa ai funerali. Senza chiedersi il perché. Come nelle intenzioni del regista Walter Veltroni.