MONDO

Argentina, un ballottaggio “storico”

Macri contro Scioli, per definire il nuovo presidente. Dentro e oltre la sfida elettorale, una riflessione sulla crisi del modello neosviluppista, la svolta a destra della politica e lo spazio dei movimenti. Leggi anche le riflessioni su politica, elezioni e potere di veto del collettivo Lobo Suelto

Il 22 novembre si terrà il ballottaggio per designare il successore di Cristina Kirchner, tra Scioli, candidato presidente per il kirchnerismo e Macri, espressione della destra neoliberista.

Lo scorso 25 Ottobre si sono tenute le elezioni presidenziali per designare il successore di Cristina Kirchner al governo del Paese, i cui risultati ci restituiscono un’immagine abbastanza nitida della crisi politica del kirchnerismo, della polarizzazione nel paese e dell’avanzata delle destre. Elezioni che si situano all’interno di uno scenario latinoamericano segnato dalle contraddizioni e dai nodi irrisolti da molte delle esperienze di governo del ciclo progressista, apertosi nel continente sin dai primi anni duemila, che sta oggi vivendo, per dirla con le parole di Zibechi “una fase di declino”.

Da un lato, Daniel Scioli (“Frente para la Victoria”), designato come erede del progetto peronista e kirchnerista nelle primarie dell’agosto 2015, che ha raccolto una timida vittoria ottenendo una percentuale di voti (36,85%) ben al di sotto dei pronostici e, soprattutto, di quel 54% raggiunto dalla Presidenta nelle elezioni del 2011. Dall’altro lato, Mauricio Macri (“Frente Cambiemos”), ex presidente del Boca Juniors e governatore della città di Buenos Aires, uno dei massimi esponenti della destra neoliberista argentina, che ha raccolto un insperato 34,33% di voti e si prepara al primo ballottaggio della storia del Paese.

Cogliamo l’occasione di questo ballottaggio per aprire una riflessione che vada anche oltre lo spazio elettorale, per indagare la riconfigurazione dei rapporti di potere, il modello di accumulazione del capitale e le sfide che i movimenti sociali si trovano a fronteggiare nello spazio politico argentino e latinoamericano.

Una “svolta a destra”

Il più importante e preoccupante elemento di discontinuità riguarda lo spostamento a destra del discorso pubblico ed elettorale, che emerge in maniera evidente dalle biografie, oltre che dai temi agitati, dai due candidati. In particolare, con l’avanzata di Macri, riemerge in Argentina, dopo oltre dodici anni, il protagonismo di forze politiche della destra neoliberale nel campo di battaglia per l’egemonia.

Questo elemento, comune a diversi paesi latinoamericani, ci interroga attorno al fenomeno di una destra nuova (in quanto non militarmente imposta, ma interna al processo elettorale) che, come sostengono Veronica Gago e Sandro Mezzadra, sta politicizzando oggi la “questione della sicurezza” che su “scala regionale costituisce uno dei vettori fondamentali attorno a cui si sta ridefinendo l’identità di un nuovo “partito dell’ordine” […] aggressivamente ostile a ogni processo di democratizzazione che pretenda di incidere direttamente sulla questione della povertà”.

Nonostante le differenze, come argomentano gli editorialisti di Marcha, i candidati che si contenderanno la vittoria il 22 novembre sono entrambi figli del menemismo e sostanzialmente non propongono due modelli molto differenti di Paese.

Scioli, ex governatore della provincia di Buenos Aires, si presenta come candidato di ripiego del “Frente para la Victoria” , rappresentandone in un certo senso una discontinuità: lanciato politicamente da Menem (presidente neoliberista che ha condotto l’Argentina al fallimento e all’impoverimento negli anni novanta), ben rappresenta la torsione a “destra” del kirchnerismo, rintracciabile già negli ultimi anni secondo Ariel Pennisi; tensione che si iscrive all’interno di quella tendenza, che sta attraversando negli ultimi anni i partiti progressisti, che Salvador Schavelzon ha chiamato “governismo” – ovvero l’attitudine ad una ricerca del consenso elettorale anzichè ad un effettivo cambiamento radicale in senso anticapitalista. Basti pensare all’atteggiamento “prudente” che Scioli sta assumendo dal punto di vista economico in questa fase in cui si abbassano i prezzi delle materie prime; dopo lo scontro sul debito con il FMI e i fondi speculativi guidato da Cristina, si apre lo spazio per nuovi investimenti delle corporation multinazionali, competitività e indebitamento.

Macri rappresenta invece una destra neoliberale ideologicamente allineata al golpismo venezuelano, hondureño e boliviano e ai governi messicano e colombiano. Da governatore della città autonoma di Buenos Aires si è distinto in questi ultimi anni per aver portato avanti una politica di austerità, tagli ai servizi pubblici, precarizzazione, privatizzazione e repressione. Il portale di comunicazione popolare Notas, in un interessante reportage sugli “esclusi del macrismo”, denuncia come della gestione politica della Capital durante l’ultima legislatura si ricordino principalmente le speculazioni, l’irruzione della polizia metropolitana nell’ospedale psichiatrico “Borda”, i tagli alla scuola, gli sgomberi degli spazi culturali autogestiti e degli insediamenti abitativi autocostruiti.

Le forze politiche della sinistra in Argentina (con il “Frente de Izquierda” che ha raggiunto solo il 3%), sono oggi schierate su differenti posizioni. La prima ha animato la campagna sul voto en blanco (voto nullo) inteso come denuncia della crisi della rappresentatività e della sostanziale omogeneità dei due candidati. La seconda posizione, a fronte dell’eventuale vittoria di Macri, ovvero di un pericoloso ritorno del conservatorismo reazionario, neoliberale, non senza una significativa dimensione nostalgica di matrice fascista, esprime, con diverse campagne tra cui “No nos da lo mismo” (con l’hashtag #NoDaLoMismo) e “Macri jamas”, la spinta convergere sul voto utile per fermare l’avanzata delle destre. Campagne animate da diverse realtà politiche, organizzazioni territoriali e movimenti popolari che hanno deciso di appoggiare Scioli per opporsi al Progetto-Macri, espressione di quella destra neoliberale che ha già portato al disastro il paese.

Queste elezioni avranno inoltre, inevitabilmente, una ricaduta anche sullo spazio continentale, svolgendosi tra l’altro a poche settimane da quelle venezuelane che si terranno il prossimo 6 dicembre. Lo scenario politico che si delinea alla vigilia del ballottaggio vede, dunque, un protagonismo inedito del conservatorismo e del discorso neoliberista (più o meno radicale) che si consolida oggi in maniera preoccupante come significativa forza politica e di opinione. Questa tendenza attraversa l’intera area regionale latinoamericana dove il progressismo vive un momento di impasse e non trova risposte adeguate nel contesto della crisi economica globale. Sono molte le contraddizioni politiche, economiche e sociali che i governi latinoamericani stanno attraversando oggi, pertanto la crescita “di una nuova destra può leggersi […] come conseguenza di una forza politica e sociale conservatrice e liberista che prova ad intervenire in un […] panorama economico complesso [in cui si registra] l’esaurimento del boom delle commodities”, come scrivono Lopez Monja e Orchani sulla rivista Marcha). Come vedremo, proprio la dipendenza dalle commodities rappresenta uno dei nodi irrisolti delle politiche neo-sviluppiste.

I limiti del neosviluppismo

In questi ultimi anni il ciclo progressista, prodotto di una particolare e straordinaria congiuntura di lotte, di conflitti (dal Caracazo del 1989, alla rivolta argentina del 2001 fino alla guerra dell’acqua di Cochabamba in Bolivia) di mobilitazione e organizzazione politica e sociale variegata ,che ha sancito la fine della legittimità del neoliberismo, è entrato profondamente in crisi: per comprendere le sfide che la fase attuale impone occorre interrogarsi attorno ai limiti di tali esperienze.

E’ fuor di dubbio che le politiche dei governi guidati dai Kirchner (Nestor e poi Cristina) in Argentina, e da Chavez, Morales, Correa, Mujica in altri paesi dell’America Latina, abbiano rappresentato una inversione di tendenza rispetto alle politiche neoliberali definite dal Wahington Consensus, imposte a mezzo di dittature militari dagli anni settanta in poi.

Molte delle iniziative intraprese dal kirchnerismo, in questi dodici anni di governo, sono in consonanza con i criteri che hanno guidato il processo di integrazione politica ed economica della regione, così come la lotta alla povertà, i planes sociales, i sussidi contro la disoccupazione, la creazione di nuovi posti di lavoro, il sostegno alla produzione nazionale, una (seppur parziale) redistribuzione della ricchezza, ne sono stati i punti centrali. E’ bene inoltre ricordare anche le politiche volte al riconoscimento e alla tutela dei diritti umani (in relazione alla memoria e all’eredità della dittatura militare) di quelli civili (ad esempio, il matrimonio ugualitario) e l’accesso all’educazione e alla comunicazione.

Ma il kirchnerismo non hai messo radicalmente in discussione la centralità della rendita e dei processi di finanziarizzazione e si confronta oggi con le contraddizioni dello sviluppismo e i limiti di un’inclusione sociale fondata sul (e orientata al) consumo. Sono queste le forme che assume oggi il capitalismo globale in Argentina, come argomenta Katz su La Capital. Infatti, dal punto di vista economico, si è consolidato un modello marcatamente estrattivista e improntato sull’agrobusiness, basato su investimenti in infrastrutture e impianti destinati all’estrazione mineraria e petrolifera e alla coltivazione estensiva della soia transgenica. Inoltre, la struttura industriale è rimasta centralizzata e il processo di accumulazione della ricchezza non è stato intaccato in profondità.

Dal punto di vista sociale le politiche tese a migliorare le condizioni di vita dei settori più vulnerabili sono state finanziate con il surplus derivante dai prezzi di esportazione delle materie prime e da un certo risparmio sull’importazione (oltre che da un articolato sistema fiscale), in linea con una “finanziarizzazione delle politiche sociali” – per dirlo con Lavinas – che tuttavia non ha eliminato le debolezze strutturali e le disuguaglianze sociali esistenti. La complessità di questioni e i limiti delle logiche economiche ritornano oggi in modo drammatico al centro dell’agenda politica, configurandosi nell’alternativa tra un ritorno alla politica dell’austerità e l’attacco ai privilegi economici e al modello di accumulazione capitalistico. Come afferma Zibechi su Rebelión , per perseguire questa seconda opzione, ovvero per (tornare a) delle politiche capaci di ridurre le diseguaglianze e la povertà, attaccando l’accumulazione del capitale, occorre inevitabilmente riaprire spazi di mobilitazione popolare e di conflitto.

Oltre lo spazio elettorale, la sfida dei movimenti

All’interno di tale contesto occorre quindi cominciare ad aprire uno spazio di riflessione attorno alle sfide dei movimenti sociali e popolari in Argentina e più in generale in America Latina. In questi ultimi anni abbiamo assistito ad una ripresa del conflitto sociale a partire da una espansione e continua riconfigurazione delle lotte che chiamano in causa proprio il modello economico estrattivo.

L’opposizione alle mega-miniere ha aperto un importante fronte di conflitto nel paese, così come nell’intero continente, contro l’implementazione dell’apparato estrattivo e i conseguenti effetti sociali e ambientali di questo modello produttivo. Pensiamo alle mobilitazione nelle aree andine in Argentina (ed in Perù, Bolivia ed Ecuador), così come alle lotte contro l’espansione dell’agrobusiness della Monsanto.

In altre parole, è l’opposizione alla logica del saccheggio del territorio l’elemento comune di queste nuove lotte contro il modello di accumulazione del capitalismo contemporaneo. Inoltre, se intendiamo l’estrattivismo nella sua accezione ampliata proposta da Gago e Mezzadra, ovvero come un “modo in cui il capitale finanziario presidia le “cuciture”, le connessioni e le articolazioni di quella cooperazione sociale profondamente eterogenea che costituisce la base dell’estrazione di plusvalore all’interno delle economie latinoamericane”, possiamo individuare nuovi campi di conflitto attorno alla dimensione biopolitica – cioè di resistenza allo sfruttamento, alla violenza e al controllo sui corpi. Pensiamo, per esempio, alla mobilitazione dei movimenti femministi, da anni impegnati nella mobilitazione per la legalizzazione dell’aborto, che a Mar de Plata lo scorso 11 ottobre hanno portato in piazza sessantamila donne (con tanto di repressione poliziesca ) in opposizione alla violenza di genere, ai femminicidi (in costante e preoccupante aumento) ed in generale alla cultura machista e patriarcale.

Le esperienze articolate e complesse di forme di lotta, organizzazione, produzione e riproduzione dei los y las de abajo si confrontano oggi con la necessità di reiventare ed espandere le forme e gli spazi del conflitto, ripensando l’autonomia in un contesto politico profondamente mutato. Occorre rilanciare le sperimentazioni di modelli socio-economici alternativi a quelli dominanti, di pratiche di cooperazione e autogestione, come le fabbriche e le imprese recuperate dai lavoratori (che continuano ad aumentare di settimana in settimana in questi ultimi anni) così come le esperienze di comunicazione alternativa, popolare e comunitaria. E’ da questi densi ed eterogenei tessuti sociali, composti da esperienze locali che mostrano una tensione immediatamente transnazionale, che si deve ripartire per riaprire, dentro eoltre la dimensione elettorale, spazi di trasformazione possibile e reale per un cambiamento radicale.