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American Sniper

Allora, ci scanniamo sull’ultimo film “irakeno” di Clint Eastwood? Guai a parlarne male, oppure è un rigurgito imperiale […] o semplicemente è venuto meno bene dei precedenti?

D.W. Griffith, con The Birth of a Nation (1915), inventò tutto il cinema, tecnica di ripresa e forma di racconto. Sotto il primo aspetto: ritmo della successione delle azioni e dei personaggi, soggettiva, primo piano, montaggio alternato. Certo, dopo sono venuti il sonoro, il colore, il cinemascope, il dolby, il piano-sequenza, il 3D. Oggi X. Dolan in Mommy passa per ogni gradazione di ampiezza dello schermo: dall’inedito 1:1 quadrato al classico 4:3 fino all’estatico 16:9… Sotto il secondo aspetto, Griffith normalizzò per il nuovo mezzo, amplificandone enormemente diffusione e rilevanza, due caratteri che già permeavano la letteratura americana rispetto a quella europea: la sistematica traduzione della storia sociale collettiva in vicenda individuale (di uno o più individui, spesso sullo sfondo di una natura selvaggia), l’opposizione netta (di origine puritana) fra bene e male senza sfumature di grigio. La coralità di Guerra e Pace, tanto per intenderci, vs l’epica di Moby Dick, il labirinto del sottosuolo dostoevskiano e la nettezza della Lettera scarlatta.

Il film, per esigenze di mercato, deve ancor più animare la storia in vicende individuali e ben individuate –che rispondevano alla logica profonda e all’apparato di aspettative e speranze dell’American Dream–, mentre le rigide caselle del bene e del male venivano inesorabilmente a riempirsi, la prima con l’immagine wasp, la seconda di volta in volta con i negri stupratori di Griffith, gli indiani del western, i gangster, i musi gialli, gli arabi terroristi, ecc. Il paesaggio naturale e urbano incorniciava mirabilmente quelle vicende e in qualche modo interagiva con la matrice puritana semplificatoria conferendo una maggiore complessità e offrendo nuove icone all’immaginario europeo stesso. Il cinema, in una celebre ed essenziale definizione che il grande poeta epico dell’individualismo, John Ford, regala a un esordiente Spielberg per toglierselo dai piedi, consiste nel tenere sempre la linea dell’orizzonte nell’inquadratura o molto in basso o molto in alto, mai in mezzo, dunque nel collocarvi contro e al centro le figure.

Ora, American Sniper di Clint Eastwood ci ha deluso non perché sia un film fascio-bushista (al massimo fastidiosamente texano), ma perché è un film che perde l’orizzonte “eccentrico” e la complessità di Ford, riducendola al campo visivo telemetrico del cecchino, nella stessa misura in cui schiaccia il campo nemico sulla figura del terrorista adulto o bambino, senza un contorno sociale che non siano donne ululanti e sfigati collaborazionisti a pagamento. Non ci sono sunniti e sciiti, non ci sono insorti e vittime neutrali e chissà perché alla fine gli Usa hanno dovuto sgombrare e sono arrivati i cattivissimi di Isis…Il cecchino è la figura estrema dell’eroe solitario, la cui controparte non può consistere che in un mirino rivale. Beninteso, altri film hanno trattato tale figura in modo più contestuale e umano: la tiratrice viet in Full Metal Jacket di S. Kubrick, 1987, il sovietico e il tedesco nella battaglia di Stalingrado, Il nemico alle porte, J.-J. Annaud, 2001, ecc.

Eastwood ripete meccanicamente uno schema di combattente-fra-le-rovine già esposto, oltre che nei due film citati, anche nel molto più coinvolgente The Hurt Locker, 2010, di K. Bigelow (che già adottava il modello dei turni e dei sempre più brevi e difficoltosi rientri in famiglia) e in Black Hawk Down, 2001, di R. Scott, e ripropone per i Navy Seals lo stranoto addestramento kubrickiano dei marines, aggiungendo alle imprecazioni dei sergenti e alle marcette la variante beffarda di una sperimentazione del waterboarding. Soprattutto, insistiamo, non è tanto il fatto (desunto dall’autobiografia del vero sniper, lo psicopatico Chris Kyle) che lui creda a un legame fra l’attacco alle Twin Tower e l’invasione dell’Irak, ma che lo sguardo del personaggio cinematografico (di Clint, dunque, non di Chris) ritagli nella realtà del conflitto solo lo spazio del bersaglio (al massimo del cecchino rivale), evadendone solo nelle telefonate satellitari alla moglie lontana. Non ha imparato nulla, ha la coscienza tranquilla, ha protetto i commilitoni dal fuoco nemico. Non ci sono vittime innocenti. Quanto manca in assoluto è la duplicità dello sguardo, la risposta di chi è guardato a chi guarda –cosa che Eastwood conosce benissimo e che aveva magistralmente impiegato nel dittico su Iwo Jima, con la simmetrica versione americana e giapponese della battaglia. L’orizzonte fordiano che sale o scende rispetto ai protagonisti.

Cosa lo sostituisce? L’atono degrado dello sguardo unilaterale di Chris, annebbiato dal fumo e dalla sabbia nell’ultima missione, sempre più allucinato fino a spegnersi nel vuoto nel post-traumatico rimpatrio. Come se l’uccisione del cecchino-antagonista l’avesse esaurito –completato ed evacuato di senso. Si spezza di conseguenza il nesso fra stimolo visivo e azione che corre fra Dirty Harry (da noi ispettore Callaghan) e lo sniper, la fredda e minacciosa individuazione del nemico da sfidare e abbattere (make my day!). Prende allora rilievo l’altro sguardo, quello assai più scettico della moglie, che prima nutre normale apprensione per il marito in guerra, poi si spaventa dei suoi sempre più letargici ritorni dai turni irakeni, infine capisce di colpo cosa è diventato la “leggenda” quando lo vede ormai incapace di distinguere un movimento qualsiasi da una minaccia nemica, al punto da strozzare quasi il cane di casa che ruzza con il bambino. Inevitabile che si precipiti verso il gioco conclusivo degli sguardi: la leggenda in congedo si dedica alla riabilitazione dei commilitoni più danneggiati di lui nel fisico o nella mente: un malato che cura malati più gravi, senza rimorsi e rimessa in discussione della cause, fin quando incontra il suo disturbato carnefice. Al cui sguardo, che viene dal nulla e annuncia annientamento, risponde quello terrorizzato della moglie che intuisce dove andrà a parare. Se il film si fosse concluso qui, il potenziale critico implicito nelle precedenti sequenze sarebbe rimasto almeno in sospeso, avrebbe generato interrogativi. Saltare invece alla scena patriottica del funerale su superstrada conferma quella perdita di lucidità che ci lascia scontenti: la potente ambivalenza di un’ideologia della post-frontiera contaminata dal reale si riduce ora alla componente più scontata. La banalità del visivo si adagia sulla banalità del politico.