Micropolitica del jazz

Gli anni ’50 e ’60 negli Stati Uniti hanno visto nascere un movimento, che è riduttivo definire “nero”, e che prese forza e risuonò nella cultura, nell’economia e nelle istituzioni politiche.

Gli anni ’50 e ’60 negli Stati Uniti hanno visto nascere e dispiegarsi, più che un movimento nero, un’eterogeneità di gruppi, obiettivi, strategie e risorse che avevano nel problema razziale il punto in comune, senza essere caratterizati necessariamente nello stesso modo. Alcuni sostengono che definire questa eterogeneità il “Movimento per i Diritti civili” mutila la sua ricchezza e la pluralità di orizzonti che lo animavano. Invece, può essere pensato come un avvenimento politico che prese forza e risuonò nella cultura, nell’economia e nelle istituzioni politiche.

Le cose entrarono in effervescenza, tra queste, la musica.

Così sono nate delle esperienze affascinanti d’invenzione estetica e modi di vita che hanno segnato le rappresentazioni che molte volte, ancora oggi, abbiamo della condizione nera negli Stati Uniti. Suoni, forme di organizzazione, attitudini artistiche, amicizie e inimicizie. Un certo uso della storia, della memoria, delle tradizioni e, al contempo, dell’oblio, i rifiuti, i superamenti.

C’è stato in un jazz nero, cavernoso, fumante, dove una politica della memoria, la cultura e certi passaggi affermati in gesti della minoranza andavano e venivano dalla musica (la combinazione di suoni e silenzio) fino a raggiungere altre zone del sociale. C’è stata la fecondità di un atto politico, di un’azione diretta potremmo dire, di una liberazione acustica: ciò che quel gruppo di musicisti (Miles, Coltrane, Ornette Coleman, Archie Shepp, Sonny Rollins, Paul Chambers, Philly Joe, Red Garland, Charles Mingus…) trovò nella reinterpretazione del linguaggio stabilito del jazz, nelle nuove/vecchie fonti.

Rispetto alla situazione dei musicisti neri nell’ultima parte degli anni ’40, Miles Davis raccontava la seguente storia, dove convivono lo scontro generazionale tra i neri, una domanda per la continuità e per il registro della musica, e gli elementi con i quali la nuova generazione si afferma per portare i suoni in altri luoghi: «La scena musicale soffriva di molti pregiudizi, sia per le condizioni di vita nella strada, sia per il continuo boicottaggio della registrazione. Non restavano tracce, né testimonianza della musica. Se non sentivi suonare bebop nei clubs, ti dimenticavi della sua esistenza. Noi suonavamo regolarmente in pochi luoghi, tra questi l’Onyx e il Three Deuce. Ma Bird ci fotteva con i soldi e questo ci frastornava. Io avevo sempre considerato Bird come un Dio, però mi era già caduta la benda dagli occhi. Avevo 22 anni, una famiglia e avevo appena vinto il premio New Star 1947 della rivista Esquire nella categoria trombettista ed ero arrivato a pari merito al primo posto con Dizzy nella votazione dei critici secondo Down Beat. Non che tutto ciò mi avesse dato alla testa, però cominciavo a capire chi ero musicalmente».

Se c’è qualcosa come un gesto nero nella musica, è quello di attuare sapendo che il futuro non è del futurismo ma si trova nell’andare e venire, nel tornare di volta in volta a quell’archivio, quasi infinito, per deviarlo, in alcune occasioni soltanto un poco, in altre in modo sensibile, e poter rilanciare le cose. Quindi, afferrare la zavorra di un certo modo di vivere, e reinventarlo. Elevare l’esperienza musicale del jazz allo statuto di affermazione politica. Questo fecero. Tornare alle vecchie domande e riattualizzarle: come vogliamo vivere, quali sono le cose che non accetteremo, cosa abbiamo da dire. Quello che stava accadendo sugli autobus, nei ristoranti, nei ghetti, nei partiti politici, nei movimenti sociali. Volere qualcosa, fare qualcosa e non misurare, ma abitare le conseguenze.

«Il gruppo che abbiamo fatto con Coltrane fece di noi delle leggende. Mi sono situato definitivamente nel mondo musicale attraverso quegli album meravigliosi che abbiamo fatto per Prestige e poi per Columbia Records. […] Mentre il nostro gruppo riceveva gli applausi dei critici, sembrava che il paese cambiasse di umore, come se tra il popolo nero o bianco sbocciassero nuovi sentimenti. Martin Luther King si metteva alla testa del boicottaggio degli autobus, laggiù, a Montgomery, in Alabama, con l’appoggio di tutti i neri. Marian Anderson è stata la prima persona nera a cantare al Metropolitan. Arthur Mitchell è stato il primo nero a ballare con un’importante compagnia di ballo bianca, il New York City Ballet».

Nella lettura di quella generazione c’è stato un lavoro di passaggio, da un’ermeneutica musicale a un’interpretazione della musica come modo di vita, come economia politica del suono in atto e come insieme di enunciati che entravano, senza chiedere permesso, nel gioco delle dispute e le lotte sociali. Quella é stata la sua forza.