approfondimenti

ITALIA

Xr blocca le strade, Eni stoppa le inchieste Rai. Come viene represso l’attivismo climatico

Dai fogli di via alle richieste di censura, fino agli omicidi e alla violenza fisica: attivisti e attiviste per la giustizia ambientale in tutto il mondo sono sotto attacco, spesso con accuse di “terrorismo”

Stretti fra la fine del mondo e una repressione costante: è la condizione di tanti attivisti e tante attiviste per il clima in tutto il pianeta. Le violenze ambientali non si limitano infatti a danneggiare l’ecosistema, ma colpiscono sempre più donne e uomini: «Questa è una crisi contro l’umanità. Noi tutti dipendiamo dal mondo naturale, e quando ci accingiamo alla sua sistematica distruzione, le persone vengono uccise. Può sembrare semplicistico, ma è un fatto che vale la pena considerare: il processo di cambiamento climatico è violento, e si manifesta non solo con la violenza contro il mondo naturale, ma anche contro le persone», si legge all’interno del Global Witness 2020, report che esamina appunto i casi di violenza sistematica nei confronti di chi protesta per la giustizia ambientale e climatica.

Proprio negli ultimi mesi, in Italia e in Europa, azioni di questo tipo sembrano essersi intensificate: i grandi vertici internazionali del G20 a Roma, della pre-Cop a Milano e della Cop26 a Glasgow hanno visto migliaia e migliaia di persone scendere in piazza, mettere in atto gesti di disobbedienza civile con cortei, mobilitazioni, blocchi stradali e performance simboliche.

Anche nelle ultime ore, nella capitale così come in altre città del mondo tra cui Washington Dc, una parte del movimento ambientalista Extinction Rebellion sta dando vita a una campagna di protesta e sensibilizzazione denominata “Ultima Generazione” che cerca di ostacolare il traffico delle maggiori arterie metropolitane, puntando a creare disagio nei quotidiani ritmi di vita, a “inceppare il sistema” per chiedere l’istituzione di assemblee cittadine di partecipazione e decisione democratica. Via Aurelia, via Flaminia, vari punti della tangenziale est: nel giro di una settimana a Roma si sono verificati ben sei blocchi autostradali con momenti di tensione fra le persone alla guida dei veicoli e il piccolo gruppo di attivisti e attiviste che si posizionava in mezzo alla strada. 

Nessuna concessione a chi, arrabbiato, chiedeva di passare e rompere il cordone, nessun intento di mediazione con gli agenti di polizia arrivati sul posto. Si tratta d’altronde della tipica strategia di lotta di Extinction Rebellion, per cui «disobbedienza civile significa infrangere la legge per come è conosciuta al momento», come dichiarava al “manifesto” il cofondatore del movimento inglese Roger Hallam (ora attivo anche con l’iniziativa Insulate Britain). «È l’attraversamento del Rubicone dalle attività legali a quelle illegali. […] Se la legge viene infranta la controparte ha due scelte: permetterti di continuare a infrangerla e creare ulteriori disagi oppure arrestarti». È, in qualche modo, il bivio di fronte a cui si sono state spinte le forze dell’ordine romane con le azioni di questi giorni: fin dal primo momento, i membri di Extinction Rebellion sono stati identificati, condotti in commissariato e puniti con un foglio di via dalla capitale che, però, è stato ripetutamente violato per portare avanti i blocchi successivi.  

Difficile sapere come procederà la magistratura da qui in poi, ma è probabile che verranno applicate ulteriori misure repressive. Fa sapere Extinction Rebellion con un comunicato stampa pubblicato stamattina, proprio dopo un bocco stradale che ha paralizzato il Grande Raccordo Anulare dalle ore 8 alle 10.20: «Al momento 8 attivisti e attiviste sono in questura, ogni giorno vengono comminate loro due denunce e sanzioni amministrative; sanno di aver violato il foglio di via, sanno di rischiare di andare a processo per questo ma non demordono nelle loro azioni di disobbedienza civile nonviolenta».

Un ritorno dell’“ecoterrorismo”?

A quasi due anni dall’inizio dell’emergenza pandemica, con un grado di mobilitazione politica che era andato per forza di cose scemando per via delle restrizioni, si assiste dunque a una ripresa di manifestazioni, proteste e cortei. Extinction Rebellion, Insulate Britain e gruppi simili continuano a mettere in atto strategie di disobbedienza civile con blocchi e azione diretta. Se qualche tempo fa la comparsa sulla scena di questo tipo di espressione del dissenso in ambito della giustizia climatica poteva rappresentare una novità, soprattutto in Italia, ora si tratta invece di formule più consuete e conosciute, non da ultimo dall’apparato repressivo che pare affinare la propria “contro-strategia”.

«Il tipo di repressione messo in campo dalle forze dell’ordine nei nostri confronti è molto subdolo», raccontano a DINAMOpress alcuni attivisti e alcune attiviste di Extinction Rebellion-Italia. «Ci sembra che l’intento sia quello di sminuire il più possibile le nostre azioni e “sgonfiare” il clamore che si può creare attorno a esse, salvo poi colpire a posteriori le persone che scendono in piazza con multe e con altre misure giuridiche (le quali, tra l’altro, il più delle volte non si basano neanche su motivazioni di natura politica. Ci sentiamo in una sorta di “guerra a bassa intensità”, in cui polizia e agenti sul momento ti trattano senza violenza ma per fare in modo che la tua protesta non esploda e non sia visibile. Certo, dipende dal contesto: per esempio nell’area torinese, dove l’attività di Xr è spesso in simbiosi con quella del movimento No Tav, la repressione è più dura e diretta. Ci pare che la possibile alleanza fra diversi gruppi e movimenti sia la cosa più temuta e l’obiettivo è dunque dividerci e sfiancarci affinché si molli la presa».

Anche nel caso dei blocchi stradali che si sono svolti a Roma, in effetti, l’intervento della polizia è quasi sempre stato misurato e poco eclatante “sul campo”, salvo poi utilizzare uno strumento giuridicamente molto pesante come il foglio di via sin dalla prima azione.

In generale, allargando lo sguardo pure ad altre realtà e paesi, ci sono segnali di come la repressione nei confronti dell’attivismo climatico potrebbe aumentare se dovessero intensificarsi mobilitazioni e gesti di disobbedienza civile.

Nel 2019, la città di Londra aveva completamente messo al bando le proteste di Extinction Rebellion, mentre un paio di mesi fa a Zurigo si sono verificati ben 27 arresti durante un blocco stradale. Dal punto di vista legislativo, si sta iniziando a utilizzare il concetto di “terrorismo” in relazione all’attivismo climatico: negli Usa, in alcuni stati si sono introdotte misure ad hoc in questo senso, viste anche le forti controversie che si sono create attorno al gasdotto del Dakota; nelle Filippine di Duterte, la consulente delle Nazioni Unite e attivista per i diritti indigeni e per la giustizia climatica Victoria Tauli-Corpuz è stata espressamente etichettata come “terrorista”…

La parola sembra farsi strada anche in Europa, se pensiamo al fatto che due anni fa, in vista della Cop24 a Katowice, la Polonia ha deciso di negare l’ingresso sul proprio territorio a 13 attivisti menzionando anche il “terrorismo” fra le motivazioni; oppure, andando un pochino più indietro, al fatto che la Francia – sfruttando lo stato di emergenza post-attacchi terroristici del 2015 – ha posto agli arresti domiciliari almeno 24 attivisti climatici senza alcun preavviso giudiziario, sequestrando computer e oggetti personali. Come sintetizzano Justine Calma e Paola Rosa-Aquino sul sito Grist, «etichettare attivisti e attiviste per il clima “ecoterroristi” non è qualcosa di nuovo [basti pensare che nel 2004 un ufficiale dell’Fbi dichiarò che l’ecoterrorismo fosse in quel momento “la maggiore priorità investigativa” negli Stati Uniti, ndr]. Le denunce per ecoterrorismo hanno conosciuto un picco negli anni ‘90, per diradarsi attorno al 2012. Ora il termine sta cominciando a essere nuovamente popolare. E le conseguenze del trattare gli ambientalisti come terroristi potrebbero andare ben al di là di negare loro l’ingresso a una conferenza sul clima».

La violenza continua              

Al di là delle etichette, le conseguenze della repressione nei confronti delle battaglie per l’ambiente sono ben mostrate dal report di Global Witness citato in apertura, che nel 2020 ha registrato 227 vittime. L’omicidio è solo la violenza ultima: minacce di morte, rapimenti, sorveglianza, violenza sessuale e di genere, criminalizzazione o indifferenza, accuse di ecoterrorismo sono alcuni dei metodi messi in campo per mettere a tacere i difensori dell’ambiente. Ed è rilevante che violenze e omicidi aumentino con l’incremento degli effetti del cambiamento climatico.

Omicidi e abusi avvengono prevalentemente in America Latina, Africa e India. In particolare, riporta l’analisi di Global Witness dal titolo Last Line of Defence, «le popolazioni indigene sono state l’obiettivo di cinque delle sette uccisioni di massa registrate nel 2020».

Le emissioni di Co2 si concentrano in percentuale maggiore nel mondo “occidentale” ma le conseguenze del cambiamento climatico sono più che evidenti sotto l’equatore, e la pandemia ha solo contribuito ad accentuare queste disparità. Disparità che, inoltre, si appoggiano a forti abusi di potere a una collusione neanche troppo velata fra governi e volontà delle grandi aziende. Continua infatti Global Witness: «Interi villaggi vengono spianati, i rifiuti vengono scaricati nei fiumi e gli azionisti continuano a trarre profitto senza pagare il prezzo di questa crescita economica insostenibile. Sono gli affari – spesso abilitati o incoraggiato da governi negligenti – che sono comunemente responsabile dei rifiuti tossici, dell’inquinamento dell’aria e della deforestazione di massa che distruggono il nostro pianeta e danneggiando le comunità di tutto il mondo».

Chi prova a opporsi a questo stato di cose viene fermato a ogni costo, anche al prezzo della propria vita. È il caso, per esempio, dei 9 morti e dei 17 arresti tra la comunità indigena filippina dei Tumandok, a seguito di un intervento militare avvenuto un anno fa.

La popolazione che abita l’isola di Panay e da sempre la difende si oppone ai lavori della diga di Jalaur, che stima un investimento di circa 250 milioni di dollari ed è volta a intensificare la produzione annuale di riso a scapito dei villaggi che verrebbero inondati portando alla scomparsa della comunità ancestrale. Le violenze contro attivisti e attiviste in questa zona del mondo non sono isolate, e l’Anti-Terrorism Act approvato a luglio 2020 dal già menzionato regime di Duterte fornisce uno strumento legale per giustificare tale brutalità tramite la pratica del “red-tagging” (una sorta di “lista di proscrizione” che identifica persone ritenute pericolose dal governo, spesso affiliate o presunte tali al Partito Comunista, da cui la parola “red”).

In Messico, Amnesty International nel rapporto 2020-2021 “La situazione dei diritti umani nel mondo” riporta come «le autorità federali hanno dichiarato che, nel 2020, 6.957 persone erano state registrate come scomparse». Miguel Vasquez, viene rapito a casa sua a Tlapacoyan, Veracruz in Messico il 20 ottobre 2020. Il suo corpo verrà ritrovato solo 4 mesi dopo. Vasquez si batteva per la difesa del fiume Bobos-Nautla contro le mini centrali idroelettriche di Tlapacoyan.

Foto di Contagio Radio, Colombia

Celia Umenza, leader indigena del dipartimento del Cauca, in Colombia, per tre volte è scampata a un tentato omicidio. Membro della Guardia Indigena, lotta con i contadini contro le multinazionali che producono monoculture di canna da zucchero a danno dell’ambiente e dei coltivatori locali.

65 fra attivisti e attiviste sono morti in Colombia secondo Global Witness nel 2020, quasi un terzo del dato totale. 34 di questi sono riconducibili agli interessi dell’industria mineraria e dell’agribusiness riporta sempre l’Ong. La Colombia è tra i paesi che stanno rallentando l’accordo latinoamericano di Escazù, a tutela dei difensori del diritto all’ambiente, ratificando ma non firmandolo.

Anzi, la tutela degli interessi delle grandi multinazionali sembrerebbe sempre prevalere sulle legislazioni nazionali e sulla salvaguardia di tanti diritti umani, compreso quello della libertà d’espressione. Tornando qui da noi in Italia è notizia di questa settimana che Eni abbia operato pressioni sul nostro servizio pubblico d’informazione.

La società del cane a sei zampe ha infatti inoltrato una mail indirizzata alla trasmissione Report della Rai in cui richiede la censura del servizio che tratterebbe il tema dell’oleodotto nigeriano Olp245 con Antonio Tricarico di Re:common. «Eni si riserva pertanto di agire in ogni sede a tutela della propria reputazione laddove ve ne fossero ulteriori riscontri a esito della visione o nel caso della mancata integrale esposizione dei propri argomenti e documenti» riporta la mail, rivendicando l’assoluzione di Eni al processo in via definitiva. Re-common denuncia le intimidazioni nei suoi confronti e ribatte sull’esito del processo facendo presente che la pubblica accusa e la Nigeria hanno presentato un ricorso in appello che si svolgerà nel 2022 e che di definitivo c’è solo l’assoluzione di due intermediari nell’affare Olp245.

La scelta del tribunale di Milano di non riconoscere Re:common parte civile ribadisce come la repressione nei confronti di chi denuncia crimini ambientali assuma forme diverse, dalle più subdole e fisicamente innocue fino agli assassinii mirati, ma è sempre presente ogni qual volta si tocchino gli interessi di realtà che hanno a cuore tutt’altro che la giustizia climatica.

Immagine di copertina di Extinction Rebellion

Immagini nell’articolo di Extinction Rebellion e Contagio Radio

Mappa di Patrizia Montesanti