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Wittgenstein critico?

Nella recensione di Andrea Di Gesu, “Wittgenstein e il pensiero politico. Linguaggio, critica, prassi”, la possibilità di rifondare in ogni momento il gioco democratico, come qualsiasi altro gioco linguistico apre al diritto di rifondazione di ogni democrazia radicale, lasciando però indefinito il soggetto e le condizioni di questa innovazione

La prima metà del Novecento, recita l’adagio, fu epoca di tragedia creativa per la filosofia di lingua tedesca. Ascendente sul piano ontologico e giuridico, questa avrebbe vissuto un contrappasso etico e politico. Le indagini sull’essere al mondo, nonché sul suo ordinamento di regole e poteri, norme ed eccezioni, sarebbero state coronate dal fatale abbraccio con una visione bellica e suprematista di quel mondo. I profili di Heidegger e Schmitt avrebbero proiettato l’ombra del nazismo sui concetti elaborati nel solco di Kant e Hegel, Nietzsche e Husserl. A chi non voglia rassegnarsi al pensiero impolitico di Thomas Mann o alla dialettica pessimista di Adorno e Horkheimer, conclude l’adagio, sono offerti arnesi concettuali scottanti – “stato d’eccezione” e “angoscia”, “amico/nemico” e “abbandono”, solo per citarne alcuni – maneggiabili al prezzo di un rischioso détournement delle loro origini e obiettivi.

Le principali interpretazioni

Ma la favola inquietante che da Königsberg porta ad Auschwitz perde coerenza narrativa non appena se ne complichi la trama, allargandone la geografia e moltiplicandone i protagonisti. È ciò che, tra gli altri, ci invita a fare Andrea Di Gesu in Wittgenstein e il pensiero politico. Linguaggio, critica, prassi (DeriveApprodi, 2025, pp. 95). Questo agile volume passa a contropelo le letture mainstream del filosofo cresciuto nella Vienna fin de siècle, a un tempo vicina e lontanissima dalla Monaco delle Squadre d’Assalto, per proporre una rassegna delle sue principali interpretazioni politiche. Rivoluzionario della logica, della filosofia del linguaggio e della matematica, con idee talmente dirompenti da comportare un risvolto mistico, Wittgenstein lo sarebbe anche in politica. A riprova di ciò, Di Gesu non adduce soltanto i suoi argomenti e concetti, ma anche la loro ricezione nel secondo dopoguerra, a suo avviso dotata di formidabili implicazioni per la critica della società. Invece che interrogarsi sulla teoria politica riscontrabile (o meno) nelle opere del «padre ambiguo e ripudiato della filosofia analitica» (p. 5), analizzandone testi maggiori e minori, quaderni d’appunti e manoscritti inediti; più che discutere delle opinioni e delle posizioni che assunse durante la sua vita (una questione non secondaria, ma relegata a una lunga nota a piè di pagina), Di Gesu prende le mosse dalle interpretazioni – ma potremmo dire: dagli usi – di Wittgenstein nel pensiero critico. Di queste propone una breve ma vivace rassegna, corredata da una ricapitolazione delle tesi più note del cosiddetto “primo” e “secondo Wittgenstein”. La teoria del linguaggio come “raffigurazione” e la ricerca di una “forma logica” delle proposizioni, l’ipotesi dei “giochi linguistici”, la nozione di “forma di vita” e il paradosso dell’“allievo recalcitrante” diventano il prisma attraverso cui ricostruire il rapporto che teoriche e teorici critici hanno intrattenuto con Wittgenstein.

In questo modo, oltre a introdurre il lettore alle principali interpretazioni politiche del viennese e a ricordarne i concetti più famosi, il libro abbozza una panoramica di alcune importanti opzioni filosofico-politiche contemporanee, riordinate alla luce del loro rapporto con il pensiero wittgensteiniano.

Il primo capitolo è dedicato alla ricezione di Wittgenstein da parte delle diverse generazioni di ricercatori legati all’Istituto per la Ricerca Sociale di Francoforte e ai filosofi detti “postmoderni”, qui curiosamente associati ai francofortesi. Confronto duro ma dinamico, nota l’autore, perché in rapida evoluzione. Dalla stigmatizzazione di Wittgenstein come teorico “conservatore”, pronunciata da Adorno, e dalle dure critiche di Marcuse, per il quale la filosofia è «il contrario di ciò che Wittgenstein la fece essere» (p. 25), si passa alla più calda accoglienza riservatagli da Habermas, che ne riprende le intuizioni nella teoria del “agire comunicativo”, per arrivare infine all’entusiasmo di Lyotard e Rorty, che vedono nei “giochi linguistici” il paradigma di un pensiero multiculturale finalmente svincolato dall’universalismo. Rispetto a questa ricezione variegata e contraddittoria, Di Gesu mantiene tuttavia una prudente distanza. Sottolinea l’infondatezza testuale, ma anche le ragioni storiche e strategiche, che motivano le condanne di Adorno e Marcuse, smaschera l’ambigua «kantizzazione» (p. 36) di Wittgenstein imposta da Habermas e denuncia gli esiti quietistici a cui giunge la sua lettura postmoderna. Riassumendo le prospettive di ricerca più recenti emerse in ambito francofortese, mette infine in evidenza le potenzialità, ma anche i limiti, dell’uso della nozione di “forme di vita” (Lebensformen) come base per definire il modello della “critica immanente” proposto da Axel Honneth e sistematizzato da Rahel Jaeggi.

Il secondo capitolo conduce dalle anse del Meno alla costa atlantica degli Stati Uniti per passare al vaglio gli effetti politici della galassia di studi noti come New Wittgenstein. La ricostruzione delle teorie, diverse e addirittura divergenti, di Chantal Mouffe e Linda M. Zerilli, di cui Di Gesu sottolinea l’eredità wittgensteiniana, si svolge infatti sotto il segno dell’influente interpretazione proposta, tra anni Settanta e Ottanta, dal filosofo statunitense Stanley Cavell. Quest’ultimo infrange l’immagine stantia di Wittgenstein come geniale “teoreta” alla ricerca del senso ultimo del linguaggio e delinea piuttosto il profilo di un terapeuta pragmatico, che sperimenta delle pratiche per riportare un linguaggio alienato da troppa teoria ai suoi usi concreti e perciò sensati. Scettico rispetto alle derive “populiste” di Mouffe e solleticato invece dall’uso femminista di Wittgenstein proposto da Zerilli, Di Gesu sembra trovare in Cavell i prodromi di un uso non soltanto critico, ma insorgente di Wittgenstein. Il «nuovo Wittgenstein», che ancora le pratiche linguistiche al «terreno scabro» dei modi di vivere e prendere parola, costituisce per Di Gesu un serbatoio di intuizioni per pensare «un modello di democrazia radicale anti-liberale» (p. 44). Rifiutando l’astratta geometria di norme e procedure, valori e regole, a cui certa scienza politica la riduce, la democrazia immaginabile a partire da Wittgenstein si presenterebbe come una composizione instabile e conflittuale di «voci» cioè atti performativi, che esibiscono la fragilità e la costitutiva apertura dei «fondamenti della comunità» dando luogo a una «proliferazione agonistica e pluralistica delle differenze politiche» (p. 55).

Più che il paradigma ludico del mondo liquido paventato dai postmoderni, “giochi linguistici” e “forme di vita” mettono così in scena l’ossatura dell’agone democratico, cioè di quel match paradossale che ha in palio le stesse regole del gioco.

Il terzo capitolo introduce il lettore alle avventure del marxismo italiano, ricostruendo la sua originale, per non dire unica, ricezione di Wittgenstein. L’autore presenta anzitutto la ricerca pionieristica del semiologo Ferruccio Rossi-Landi che, negli anni Settanta, interpreta il “secondo Wittgenstein” nel solco di Marx. Per Rossi-Landi, Marx e Wittgenstein svilupperebbero due critiche del feticismo e dell’alienazione, declinate in ambiti disparati ma dotate di un apparato argomentativo analogo. L’analisi dell’unità economica della merce del primo libro del Capitale e quella dell’unità linguistica della parola delle Ricerche filosofiche si basano entrambe sulla logica materialistica del valore d’uso e denunciano ogni attribuzione di valore, monetario o semantico, separata da quello. Dalla semiotica e dalla linguistica, il capitolo slitta però rapidamente all’ontologia e all’antropologia filosofica, per ricostruire il diverso ruolo giocato da Wittgenstein nel percorso di due influenti pensatori dell’operaismo. Nel caso di Negri, l’autore mette in luce i riferimenti – sparsi, ma strategicamente posizionati nei suoi lavori – al pensiero del viennese. Si scopre così che Negri trova in Wittgenstein uno dei principali esponenti novecenteschi di quella corrente sotterranea materialista e «alter-moderna» che, da Machiavelli e Spinoza, giunge a Marx e riemerge infine nella “biopolitica” di Foucault e nelle “linee di fuga” di Deleuze e Guattari. Nel caso della «speculazione di Virno» (p. 83), Di Gesu segue invece una traiettoria a zig-zag, che restituisce la complessa dialettica tra natura e storia, biologia e società, “essere” e “avere” la facoltà di parlare, che caratterizza l’antropologia linguistica che quest’ultimo va elaborando da più di un ventennio.

Una storia degli usi politici

Quella tracciata da Di Gesu, dicevamo, è insieme una storia degli usi o una mappa delle appropriazioni – debite e indebite – di Wittgenstein nel pensiero politico. Sviluppando un’utile cartografia, essa pone anche delle questioni generali, relative al modo di concepire oggi la critica della società. Benché singolari e per molti versi irriducibili, gli usi politici di Wittgenstein orbiterebbero infatti per l’autore intorno alla stella fissa che dà al libro il suo sottotitolo: il rapporto tra “critica”, “linguaggio” e “prassi”. Diversamente declinato a seconda della costellazione interpretativa, ma centrale soprattutto in chi si ispira a Cavell e alle analisi marxiste della “svolta linguistica” in economia, questa triangolazione permetterebbe, secondo l’autore, di rifiutare sia il “neorealismo” promosso, in modi diversi, da filosofi come Quentin Meillaussoux e Maurizio Ferraris, sia l’“antinaturalismo” di Habermas e dei francofortesi. Politicizzando le principali intuizioni di Wittgenstein – il significato come uso, le norme come giochi plastici e le forme di vita come loro limite storico-biologico – Di Gesu sostiene che la critica della società può ancorarsi all’’“ordinario”, vale a dire alla trama di pratiche sociali e corredi biologici che compongono la nostra vita di tutti i giorni.

Ne conclude che la riscoperta della sfera ordinaria della vita fornisce un campo per sperimentare il pensiero e le pratiche della “democrazia radicale”, mettendo la filosofia politica al passo delle più recenti sollevazioni popolari che si sono opposte al neoliberalismo e alle sue varianti autoritarie.

Quest’uso di Wittgenstein nell’ambito della teoria della democrazia, che Di Gesu deriva da Cavell, solleva delle questioni che, nella misura in cui restano inevase, promettono ulteriori sviluppi e chiarimenti. La prima riguarda lo statuto e la funzione della “democrazia radicale” evocata nel volume. La «democrazia perfezionista» di Cavell, afferma rapidamente l’autore, sarebbe non soltanto “radicale” ma anche «anti-liberale» Ispirandosi a Wittgenstein ma iscrivendosi anche nel solco di Jefferson, Emerson e Thoreau essa si distanzia dal contrattualismo e dall’individualismo possessivo che legano Hobbes e Locke a una parte del pensiero repubblicano. Cavell non concepisce la democrazia soltanto come un regime di governo o a una costituzione – da conservare, espandere ed eventualmente esportare – ma come una sperimentazione in continuo divenire: un “gioco democratico” analogo ai “giochi linguistici”. Si tratta in questo senso di una prospettiva “anti-fondazionalista”: un approccio che rifiuta di fondare la democrazia sul pactum di unione e sottomissione, cioè su un meccanismo d’obbligazione infrangibile, e la immagina invece come l’ordine fluido e metastabile nel quale certe performance – quelle dei movimenti sociali, per esempio – possono rimetterne in questione non soltanto i corollari, ma i principi primi. Benché si tratti di un riferimento assente nel libro, la democrazia radicale sembra così richiamare un’idea antica quanto Spinoza e Machiavelli: il diritto all’insurrezione contro il sovrano, o il movimento di “ritorno ai principi” della costituzione, che si attiva quando la moltitudine è confrontata a un potere che ne frustra la potenza comune.

Chi e quando rifonda?

a dinamica di continua “riapertura” del senso della comunità democratica appena evocata solleva inoltre degli interrogativi relativi al soggetto, ai mezzi e all’orizzonte di questo «diritto alla rifondazione» Nei termini di Cavell, ci ricorda Di Gesu, il soggetto che riapre lo spazio democratico è infatti indistinguibile dall’insieme di pratiche che ne esprimono la “voce” (voice), cioè l’atto performativo che rompe la procedura legale per ridiscuterne i fondamenti normativi. Questa definizione fa sorprendentemente eco alle performance del “parresiasta” analizzato da Foucault – il “dicitore di verità” che, esibendo un contenuto scandaloso nel suo modo di vivere, sovverte gli equilibri di potere della polis – ma ne condivide anche l’ambiguità. Come notato in un altro contesto da Étienne Balibar, se queste «voci contro» o contra-dizioni, costituiscono il motore di ogni processo di democratizzazione, ci si può tuttavia chiedere quali siano le contraddizioni materiali che favoriscono la loro irruzione in tal luogo e a tal momento. Riprendendo i termini della obiezione che, secondo Rossi-Landi, Marx avrebbe potuto rivolgere a Wittgenstein, potremmo anche dire che la «democrazia perfezionista» promossa da Di Gesu sulla scorta di Cavell sembra reinvestire il “pubblico” – o il “politico”, declinato al maschile – ma mancare di un ancoraggio al sociale e ai suoi conflitti. Chi si ponga il problema della soggettivazione politica di quei conflitti potrebbe allora chiedersi: da dove vengono e chi esprime le “voci” che fanno irrompere la differenza nello spazio democratico per riportarlo ai suoi dissidi fondativi? Queste differenze hanno forse una genesi che intreccia processi di classe, genere e razza? E se così fosse, come alcuni passaggi del libro lasciano intendere, come distinguere e valorizzare gli atti performativi di una «voce» a un tempo proletaria e intersezionale? Che linee di divisione impone e quali prospettive di trasformazione dischiude? È a condizione di rispondere a domande come queste che, a parere di chi scrive, il Wittgenstein critico abbozzato nel bel volume di Di Gesu potrebbe addirittura diventare insorgente.

Immagine di copertina di Remarques Mêlées da flickr.com

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