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West Side Story, l’empatia costruisce ponti

L’adattamento di Steven Spielberg insiste su questione razziale e urbana, rimanendo fedele agli originali ma ripensando alcuni passaggi. E la breaking ball della gentrificazione selvaggia spazza via la guerra tra bande di giovani proletari figli dell’immigrazione

Quando nel 1961 Robert Wise e Jerome Robbins presero un musical che dal ’57 riempiva le platee di Broadway e ne fecero un film da 10 premi Oscar, la questione razziale era dinamica ancora in faticoso divenire. Le accelerazioni arrivarono dopo le morti violente di Malcolm X nel ’65 e Martin Luther King nel ’68. Poi ci pensò la Sporca Guerra del Vietnam a rimescolare tutto, dai campus universitari ai ghetti neri. Ma allora era la soffice declinazione metropolitana di Romeo e Giulietta la carta vincente di West Side Story, corroborata dalle collaudate corografie di Robbins e dalle fortunate partiture di Leonard Bernstein: poca contraddizione comportava che a interpretare i portoricani Maria e Bernardo fossero Natalie Wood e George Chakiris (lei di ascendenze ucraine, nata Natalija Nicolaevna, lui figlio di genitori greci), che i neri non comparissero nemmeno per spazzare un marciapiede, che le differenze etniche non dessero vita ad alcuna “questione”. A sessant’anni di distanza Steven Spielberg apre il nostro sguardo su una gigantesca breaking ball, palla da demolizione manovrata da un cingolato, incombente su un quartiere sventrato in nome di strategie di gentrificazione già saldamente incardinate nei processi di trasformazione urbana. Il colore virato sui toni del grigio ferro fa subito scattare un cortocircuito tra le macerie di Berlino in sottofinale di Schindler’s List e ciò che rimaneva delle fondamenta delle Twin Towers in apertura del nuovo millennio: l’enorme palla di acciaio suggerisce tanto il destino letale dei protagonisti quanto la rottura di ogni ipotesi di legame filologico con l’illustre precedente cinematografico, destrutturando il film di Wise e Robbins per rimontalo in un suo rovescio denso, lucido e stratificato. 

Le lunghe e affollate strade dell’ Upper West Side, le facciate di mattoni dei palazzi decorati dalle scale antincendio, le Plymouth e le Pontiac dai robusti paraurti in acciaio, gli spazi in cemento recintati da alte reti metalliche in cui si gioca a basket sono più veri del vero, così come gli abiti da lavoro e la sporcizia sugli indumenti dei due gruppi rivali, i Jets e gli Sharks. Spielberg mantiene una rigorosa osservanza delle coordinate anagrafiche di origine di una vicenda che affonda le sue radici nella più celebre tra le tragedie di Shakespeare ripulendola dalla polvere e dalle incrostazioni del tempo. Modificando i dialoghi, alleggerendo e velocizzando le coreografie (di Justin Peck) dalle quali cancella i passaggi acrobatici, riconsegnando la lingua ispanica ai portoricani (senza sottotitolarla) ricostruisce un impianto narrativo solidamente attuale. Ci sono bianchi e neri assieme per strada a osservare sorridendo le danze di corteggiamento dei giovani puertorriqenos, ci sono bambini neri che sorridono da un finestrino dell’autobus, è dalle mani di un nero che arriva la pistola che finirà in quelle di Chino affinché la tragedia si compia. Ricordando, a chi vuole, un altro dei problemi irrisolvibili degli Stati Uniti. I giovani immigrati di seconda generazione, dall’est europeo i Jets, e da un’isola caraibica gli Sharks, si contendono un territorio che non è già più di nessuno di loro, sottratto – meglio: disintegrato – da una politica che ha già deciso che sul loro teatro di scontro verrà edificato il Lincoln Center. Sarà uno sbirro, una volta tanto non caricaturale, a dirglielo chiaro.

Spielberg sembra voler confezionare un film dallo spessore altamente politico, riproponendo una questione morale che i suoi blasonati predecessori hanno solo sfiorato. Ricordandoci che l’America di oggi non è così diversa da quella degli anni Cinquanta: ci saranno sempre bande di giovani proletari figli dell’immigrazione a combattersi tra di loro, dando vita a guerre tra poveri perfettamente funzionali alla riproduzione del comando e del controllo sociale. Qui sta la vera tragedia. Quella della paura dell’altro, del machismo prevaricatore e omofobo, del razzismo endemico, della povertà ineliminabile perché necessaria alla divisione della società in classi, dell’esclusione quale strumento della propria affermazione, della frontiera da raggiungere, o da non raggiungere mai. Non abbandona però la speranza affidandola a Valentine, quella Rita Moreno che interpretava Anita sessant’anni fa. È lei a cantare Somewhere: da qualche parte, in qualche modo, un giorno. È lei, 90 anni, la prova vivente che quel diamante costituito dall’amore improvviso, travolgente, incontrastabile tra Maria e Tony continuerà a brillare tra le macerie. Ad annodare uno dei mille fili che attraversano sia la cinematografia di Spielberg che il nostro presente. La vita vera, insomma.

In copertina e nel testo, immagini dal film West Side Story