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Venezia 7/ A Venezia la violenza del potere

Presentati e premiati alla 77° edizione della Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, i film “Genus Pan” del filippino Lav Diaz, “Terra desolata” dell’iraniano Ahmad Bahrami e “Nuevo Orden” del messicano Michel Franco, propongono da angolature differenti una sguardo crudo sulla violenza del potere

La mostra del cinema di Venezia si è chiusa con il Leone d’oro a Nomadland, della regista sino-statunitense Chloé Zhao, un film-compitino ben fatto che si tiene senza sbavature e senza imprevisti, prodotto dalla Disney e costruito intorno alla sicura performance di Frances McDormand (che ne è anche produttrice) e alla retorica della frontiera e dei nuovi pionieri. Tutt’altra cosa rispetto agli ambiziosi film premiati nel quadriennio 2013-2016, da La donna che s’è andata di Lav Diaz a Sacro Gra di Gianfranco Rosi, tornato a Venezia con un film ambizioso e coraggioso, Notturno.

Spettatori e spettatrici hanno comunque trovato un ampio catalogo di opportunità, tanto da poter tracciare a ritroso personali percorsi tematici di visione. Uno riguarda la violenza del potere,  presente in modo più o meno esplicito in molti film e in modo diverso in 3 di quelli che hanno ottenuto importanti riconoscimenti: Genus Pan del filippino Lav Diaz, che ha incassato il premio Orizzonti miglior regia; Terra desolata dell’iraniano Ahmad Bahrami, premio Orizzonti per il miglior film, e Nuevo Orden del messicano Michel Franco, Leone d’argento, gran premio della giuria.

 

Terra desolata, di Ahmad Bahrami

Il film iraniano vincitore della sezione Orizzonti gira intorno a un annuncio: la chiusura di una fabbrica di mattoni costruita in un deserto sabbioso dove il vento tira forte, la terra è arida e la città lontana, miraggio di luci e possibilità minacciose. Il proprietario riunisce gli operai davanti al suo ufficio per l’annuncio: i mattoni non si vendono più. La fabbrica, una delle ultime due sopravvissute ai cambiamenti dell’economia e dei consumi, chiuderà. Le 3 famiglie di operai che rappresentano parte della diversità dell’Iran – quella proveniente da Mashad, quella azera, quella curda – devono andarsene. Trovare altrove casa e lavoro. Così dovranno fare anche Sarvar, la donna sola di cui è rispettosamente innamorato il custode e tuttofare Lotfollah, e il figlio di lei. È un bambino ma lavora. In attesa che il padrone della fabbrica faccia arrivare dalla città quel documento d’identità promesso da tempo e che gli permetterebbe di frequentare la scuola, imparare a leggere e scrivere, anche se «Lotfollah non ha frequentato la scuola, ma sa leggere e scrivere» ed è un brav’uomo. Nato quarant’anni prima proprio nel mattonificio, Lotfollah è talmente attaccato al suo lavoro e al deserto ventoso in cui vive, alle fornaci e alle carriole cigolanti, da non sapere cosa fare della propria vita, e se vivere ancora, una volta che la fabbrica chiuderà.

 

 

Il potere qui è incarnato dall’uomo a cui Lotfollah risponde con fiduciosa e filiale prontezza, il proprietario della fabbrica. Camicia chiara e panciotto scuro, sulle labbra sigaretta con bocchino, accoglie nel suo ufficio scalcinato i lavoratori. A turno affinché non si alleino, non capiscano che sono tutti sulla stessa barca. Tutti ugualmente rassicurati dal padrone, ma sfruttati. È un padrone che non ha mai soldi, così dice, paga in ritardo gli stipendi, anche di 10 mesi, ma dispensa consigli e sentenze. Sono verità buone sulla carta: «è forte chi ha pazienza», «vince chi sa aspettare il tempo giusto». «Tutto a suo tempo», ripete con calma serafica ai lavoratori e a Lotfollah, il custode incapace di riconoscere la rassicurante ferocia del potere. Lotfollah che non trova l’amore e conosce solo la dignità del lavoro: Dashte Khamoush, Terra desolata, è un omaggio del regista Ahmad Bahrami al padre , «che ha lavorato in fabbrica ed è andato in pensione dopo trent’anni di fatiche», e a «tutti coloro che, in ogni parte del mondo, lavorano duramente. Quei lavoratori senza i quali la civiltà degli uomini non avrebbe raggiunto l’attuale livello di progresso».

 

Genus pan, di Lav Diaz

È un’umanità senza progresso, invece, quella raccontata dal regista Lav Diaz: «nonostante la specie umana sia la più sviluppata, la maggior parte di noi reca ancora in sé l’atteggiamento dello scimpanzé, il genere Pan, degli ominidi, la grande famiglia di primati», spiega il regista nelle note di regia. Uomini «violenti, aggressivi, ossessivi, trasgressivi, invidiosi, territoriali, narcisisti ed egocentrici, esattamente come il nostro cugino, il genere Pan». Ed esattamente come il Sergente, il Capitano e i loro sgherri, la combriccola criminale che governa l’isola da cui provengono Andres e i suoi due compagni di viaggio. Li incontriamo all’inizio del film su un’altra isola, o forse sulla terraferma. La stagione in miniera è terminata. Tre mesi durissimi per una manciata di soldi, parte dei quali va a mediatori, padroni e padroncini. Qualche collega è rimasto sotto terra. Sepolto vivo. Ucciso dal lavoro e – accusa Andres a voce troppo alta – dalla famiglia Vargas, gli eredi di quei coloni che ancora sfruttano e capitalizzano la miseria altrui.

 

 

Andres e i due colleghi tornano sulla loro isola. Attraversano la foresta. Affrontano leggende e superstizioni, la paura di un cavallo nero e dell’imminente e violenta morte che gli si associa e la paura del proprio passato, del drammatico rimosso che torna a galla dopo una sbornia. Al villaggio  arriva solo Andres, uomo-buono dostoevskiano, deciso a chiedere giustizia per un fratello «tagliato a pezzi come un maiale» e per l’intera eredità di soprusi inflitti ai miserabili come lui.

 

Nuevo orden, di Michel Franco

Nel film del messicano Michel Franco i miserabili, gli ultimi, i diseredati assaltano il potere, stufi di subirne la violenza – di razza, di genere, di classe, quello che il sociologo portoghese Boaventura de Sousa Santos definisce fascismo sociale. Assaltano il simbolo del capitale: la villa di ricchi, avari e gaudenti corrotti in cui si svolge un matrimonio sfarzoso, tra giovani rampanti che si fanno di peyote e mdma e vecchie cariatidi che pianificano nuovi progetti per drenare risorse e beni comuni. Vigilantes e alte mura di cinta servono a tenere fuori i miserabili. A essere allontanato è anche l’ex tuttofare della villa, uomo vecchio e stanco che dopo anni di servizio torna a chiedere un aiuto per ricoverare la moglie malata in una clinica privata. Il cordone di avarizia e insensibilità alzato contro gli sfruttati respinge anche lui, che torna a casa con una manciata di soldi.

Ma nel cielo volteggiano gli elicotteri: la rivolta è già in corso. Le mura non bastano a tener fuori donne e uomini in rivolta, che irrompono armi e bombolette spray alle mani. Festeggiati e ospiti finiscono scannati, pallottole in testa o nella pancia, dopo aver consegnato soldi e preziosi o aver tentato maldestre e tardive implorazioni di pietà. Non c’è scampo, non c’è perdono. La città è in fiamme, gli scontri feroci, la rivolta si fa colpo di Stato, lo Stato perde pezzi, i militari diventano sequestratori e stupratori. Il “Nuovo Ordine” si impone con la stessa violenza del vecchio, ne riproduce le stesse dinamiche, consolidandole.

 

 

Nuevo Orden, dichiara il regista, «propone una visione distopica del Messico, che tuttavia si discosta solo leggermente dalla realtà». «Vuole essere un monito» contro «la disparità sociale ed economica, attualmente sempre più diffusa e insostenibile». Un manifesto politico che legittima la lotta di classe, dunque. Ma che rischia di produrre l’effetto opposto. Film conservatore, se non reazionario: non c’è altra società da costruire, non c’è emancipazione possibile, liberazione dal giogo razziale ed economico. Rimane solo la violenza, rituale, feroce e carnevalesca. Finita la festa, concluso il periodo in cui l’eccezione diventa regola, rivoltate momentaneamente gerarchie e autorità, assaltato il banchetto di ricchi e avari, a regnare è sempre il vecchio potere. Ingiusto, violento e corrotto.

 

In copertina un’immagine di “Genus Pan” di Lav Diaz