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MONDO

Uso e abuso del corpo delle donne palestinesi nel progetto nazionalista di Israele

In Palestina, sul corpo delle donne, si sta perpetrando un piano genocidiario tra i più atroci del nostro tempo. Le politiche sioniste sull’uso della violenza di genere e sul controllo riproduttivo trasformano le Palestinesi in un “campo di battaglia” con l’intento chiaro di annientare identità, resistenza e futuro

In ogni conflitto esiste sempre un prima ed esiste sempre un dopo: un evento, che definisce nettamente i contorni e fa intravedere il futuro. Nel piano di sostituzione etnica del popolo palestinese, quel prima e quel dopo si chiama Deir Yassin.

No, non è iniziato tutto il 7 ottobre

Nella storia orale palestinese, la Nakba (النكبة) viene raccontata, di generazione in generazione, come saldamente ancorata alle fondamenta cementate con il sangue del villaggio di Deir Yassin, a cinque chilometri a ovest di Gerusalemme.

Prima della “catastrofe”, il villaggio di Deir Yassin assomigliava a tanti altri villaggi della Palestina antica. Posizionato su una valle terrazzata coltivata a fichi, mandorli e ulivi, con le sue case di pietre bianche estratte dalle cave, avrebbe raccontato – insieme a molti altri villaggi – la violenza e l’odio del piano genocidiario su cui si fonda, sin dal 1948, lo Stato colonialista d’Israele.

In quel venerdì 9 aprile 1948, un numero imprecisato di civilə inermi fu uccisə dalle milizie sioniste: uomini, ma soprattutto donne e bambinə, in un’escalation di brutalità che rappresenta l’”evento” che apre la strada alla politica di cancellazione identitaria e al colonialismo di insediamento portati avanti da Israele.

“Il massacro” aveva un immediato scopo pratico: «sbarazzare il nascente Stato ebraico del maggior numero possibile di palestinesi», come scrive lo storico israeliano antisionista Ilan Pappé, ma l’obiettivo a lungo termine era lasciare una testimonianza indelebile del potere e del controllo sionista sul futuro dell’intero popolo palestinese.

Di questo specifico progetto furono vittime e testimoni, in particolare, le donne di Deir Yassin: uccise, violentate, picchiate, mutilate e fatte sfilare «nella vicina Gerusalemme, come monito per tutte le altre Palestinesi del destino che le avrebbe attese se avessero opposto resistenza».

Produrre e distruggere memoria: la violenza di genere è strategia di guerra

Dietro ogni guerra, dietro ogni conflitto, si nasconde una realtà a lungo taciuta: l’uso sistematico della violenza sessuale contro le donne come “strategia di guerra”. Solo negli ultimi vent’anni questa pratica è stata finalmente riconosciuta e posta al centro del dibattito pubblico. Per troppo tempo relegata a “questione privata”, attribuita a devianze individuali o impulsi sessuali, è stata separata dai crimini di guerra e trattata come un danno collaterale inevitabile di ogni conflitto.

Per secoli, l’abuso del corpo delle donne è stato taciuto e ignorato e i responsabili hanno potuto godere di immunità e di silenzi complici da parte di regni, stati, governi e organizzazioni. Anche quando non è stato possibile tenere gli abusi celati, a causa della gravità e del numero elevatissimo delle vittime, questi sono stati derubricati, sminuiti dal benaltrismo e giustificati dagli eventi imprevedibili delle guerre.

Ma la storia ci insegna fin troppo bene che il corpo delle donne è da sempre “terreno collettivo di conquista”; mezzo di affermazione del potere coloniale e strumento di pulizia etnica.

Ne sono testimoni le quasi 50.000 donne kosovaro-albanesi vittime di violenza sessuale durante la guerra del Kosovo, usate come esempio per terrorizzare la popolazione e costringerla alla fuga.

E lo sono le 35.000 donne e ragazze croate e musulmane di origine bosniaca, rinchiuse nel “campi di stupro” serbi durante la guerra in Bosnia ed Erzegovina tra 1992 ed il 1995, il cui scopo primario era quello di far nascere una nuova generazione di purə bambinə serbə, eliminando la linea etnica patrilineare del nemico per sempre.

Dal 2020 al 2022, a trent’anni di distanza, in Etiopia, lontano dall’interesse pubblico mainstream, anche i corpi delle donne del Tigrè sono stati campi di una ferocissima guerra etnica. Considerate custodi della riproduzione e della “morale” comunitaria, le donne tigrine sono state colpite in modo sistematico: non solo attraverso pratiche di sterminio, ma anche tramite forme di violenza sessuale mirata che, come scrive “The Guardian“, intendevano deliberatamente «distruggere gli organi riproduttivi delle donne tigrine» e con essi il futuro del popolo del Tigrè.

Il genocidio è una questione femminile

Dalla Germania nazista all’Armenia di inizio secolo, dalla Cambogia dei Khmer Rossi alla tragedia contemporanea degli Yazidi, il corpo delle donne ha assunto, e continua a farlo, un ruolo strategico soprattutto nel caso di un genocidio.

In Ruanda, nella seconda metà degli anni ‘90, quasi 250.000 donne, ragazze e bambine subirono violenza sessuale; moltissime diedero alla luce figli non voluti di etnia mista e per questo furono costrette a vivere con il dolore e con lo stigma sociale per sempre. I loro corpi smisero di essere umani, per divenire “terreno politico”: oggetti di derisione, di terrore, di scambio o semplicemente qualcosa da eliminare poiché in grado di «produrre e riprodurre memoria». 

Anche nel genocidio in atto del popolo palestinese i corpi delle donne sono una “risorsa” bellica. Nel 2014 Mordechai Kedar, studioso sionista del Medio Oriente all’Università Bar-Ilan, affermò, senza troppi problemi etici, che ogni “terrorista” di Hamas avrebbe riflettuto bene prima di farsi saltare in aria in una delle strade di Tel Aviv se fosse stato consapevole che sua madre e ognuna delle sue sorelle sarebbe stata violentata dai militari dell’IDF in risposta a tale atto.

Nei territori occupati della Cisgiordania, a Gaza e a Gerusalemme, la violenza contro le donne e le bambine palestinesi da parte dei militari è all’ordine del giorno.

Le incursioni notturne nelle abitazioni e gli arresti arbitrari, le violenze sessuali in regime detentivo, gli abusi e le umiliazioni ai check-point e le molestie sessuali quotidiane, anche a donne e ragazze incinte, hanno come obiettivo non solo quello di distruggere i corpi e le menti ma anche quello di sfruttare la base patriarcale della società palestinese e le sue “fondamenta morali e religiose”.

Come scrive su “Middle East Eye” Falastine Saleh, scrittrice e femminista palestinese: «L’idea di perdere il controllo sui nostri corpi infonde in noi un profondo senso di terrore, infiltrando i nostri pensieri, desideri e molto senso di sicurezza. […] L’aspetto più agonizzante di questa realtà è la consapevolezza che i nostri corpi vengono cinicamente armati da uno stato occupante, sfruttando le norme patriarcali della nostra società per attaccare la nostra resilienza collettiva».

Strumentalizzare l’onore per colpire chi resiste

La società palestinese, prevalentemente regolata dalla legge islamica, vive ancora oggi – nonostante il grande contributo delle donne alla resistenza e le molte realtà femministe palestinesi – profonde fratture interne legate alla disparità di genere. La stigmatizzazione e la condanna di qualunque aspetto legato alla sessualità femminile al di fuori del matrimonio, vengono strumentalizzate dal sionismo per minare – come già accaduto altrove – la stabilità familiare e, con essa, le fondamenta sociali del popolo palestinese.

È pratica nota, da parte dei militari israeliani, l’induzione di giovani donne al collaborazionismo attraverso lo sfruttamento delle percezioni conservatrici dell’“onore”.

Come racconta Nada Elia nel suo libro La Palestina è una questione femminista, la polizia israeliana è nota per pedinare “ragazze obiettivo” con l’intento di fotografarle insieme ai propri fidanzati fuori dal controllo parentale, per poi estorcere informazioni sotto la minaccia di divulgare pubblicamente le immagini.

In altre testimonianze si parla di ragazze drogate, denudate e fotografate in atteggiamenti considerati illeciti; in alcuni casi abusate, videoriprese, minacciate e successivamente ricattate. In una intervista a “The Guardian” un ex-militare dell’IDF ammette: «Quelle che ci interessano davvero non sono in alcun modo terroriste. Sfruttiamo la capacità di pressione che abbiamo su queste persone per metterci in una posizione di vantaggio. Approfittiamo dell’impatto che abbiamo sulle loro vite. Possiamo davvero rovinargli la vita.»

Inoltre, nonostante la costante retorica pinkwashing che presenta Israele come «terra di libertà e diritti» il Mossad ha spesso sfruttato la difficile condizione delle persone queer palestinesi a proprio vantaggio. Una delle strategie usate è l’honeytrapping in cui agenti si fingono online donne o uomini europeə,per sedurre persone queer, per poi ricattarle minacciando di diffondere pubblicamente immagini e conversazioni private.

L’onore o la terra dunque. La vergogna o la difesa delle origini. La pratica dello sfruttamento patriarcale messa in atto da Israele è così violenta che le vittime alla fine collaborano. Consapevoli di non poter ottenere giustizia, molte scelgono il silenzio, costrette a vivere il dolore e l’umiliazione senza il sostegno delle proprie famiglie. Un isolamento costruito ad arte, parte di una strategia coloniale che punta a disgregare il tessuto sociale palestinese dall’interno con l’obiettivo di colpire chi tenta di resistere.

Genderwashing come arma coloniale: il falso mito dell’Israele liberale

Al di là della base culturale patriarcale che attraversa le terre palestinesi – base che condivide con qualunque altro paese del mondo – la storia del colonialismo ha ampiamente dimostrato come ogni tentativo di imporre dall’esterno nuove norme e nuove regole produca, da parte deə colonizzatə, una volontà ferma di preservare le proprie tradizioni. Nel caso della Palestina, il discorso sui diritti delle donne e delle persone omosessuali viene inevitabilmente associato a Israele e perciò considerato “nemico”.

Tutto questo, spiega Nada Elia, ha comportato un ancoramento rigidissimo, da parte di molte comunità palestinesi, a un modello maschilista ed eteronormativo che ha portato a un aumento della violenza di genere intrafamiliare e dei femminicidi da parte di mariti, fratelli e padri.

Le ingiustizie quotidiane, l’impossibilità di combattere ad armi pari, la mancata autonomia politica, lavorativa e di movimento, nonché la sensazione di non riuscire a proteggere la propria famiglia, generano negli uomini palestinesi un collasso dei propri indicatori culturali della virilità. Questo produce un contraccolpo fortissimo in termini di pratiche violente volte alla “riacquisizione del potere”. In una condizione di oppressione, la risposta diventa – tragicamente – quella di opprimere, in una “illusione del potere” che nasce soprattutto dal controllo del corpo e dell’autodeterminazione delle donne, le quali, in un contesto di occupazione e colonizzazione, rappresentano un vero e proprio “capitale culturale”.

Tale contraccolpo, provocato dall’occupazione sionista, viene strumentalizzato da Israele e trasformato in genderwashing, con l’intento di raccontare una Palestina violenta, retrograda e oppressiva che deve essere liberata e condotta verso le cristalline e democratiche acque dello Stato ebraico.

La contrapposizione tra un Hamas omofobo e sessista e un Israele “democratico e liberale” è una delle retoriche più potenti e funzionali messe in campo dai sostenitori dello Stato sionista. La questione dei diritti deve assolutamente essere affrontato alla luce delle reali politiche messe in atto dal governo israeliano, evitando strumentalizzazioni, poiché costituisce una delle principali armi di indottrinamento e produzione di consenso.

Riprodurre o scomparire: la maternità contro la “minaccia demografica”

Un altro dei nodi cruciali nel progetto sionista è la stretta interconnessione tra nazionalismo e riproduzione. La questione della supremazia demografica è centrale per l’affermazione dello Stato di Israele, poiché è sul numero e sulla maggioranza territoriale che si regge il potere dell’occupazione. I continui atti volti a estromettere ə Palestinesi dalle proprie case, a impedire “il ritorno” dei profughi e dei discendenti della Nakba, la costruzione di sempre nuovi insediamenti in Cisgiordania, la sostituzione delle colture nelle terre e il genocidio nella Striscia hanno come denominatore comune la necessità geopolitica da parte di Israele di generare un considerevole squilibrio numerico con ə Palestinesi.

Dati alla mano: dal 1950 la popolazione in Israele è cresciuta di quasi il 500%, arrivando oggi a quasi 10 milioni di persone. Con un’età media di 29 anni e un rate di 2,9 figli per donna, è il Paese con il più alto tasso di fertilità tra quelli membri dell’OECD (Organisation for Economic Co-operation and Development), che riunisce 38 paesi con economie di mercato considerate avanzate e sistemi democratici.

Per lo Stato ebraico la maternità è fondamentale e non si limita a essere un fatto privato o familiare, ma un contributo pubblico e nazionale che affonda le radici nella concezione ebraica del “popolo eletto da Dio”. Nel primo libro della Torah, infatti, una delle principali prescrizioni recita: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela». In questa visione la maternità è un “segno” di appartenenza alla comunità nazionale. Non solo generare figliə, ma crescere cittadinə, contribuire al futuro dello Stato di Israele.

Se da una parte Israele tenta in tutti i modi di aumentare il proprio peso demografico, anche attraverso spinte narrative non certo liberiste come quella della “missione ebraica” delle donne, dall’altra mette in atto strategie di annientamento per combattere la “minaccia demografica” del prolifico popolo palestinese.

Una delle prime strategie adottate fu quella del monitoraggio del numero deə natə. Dal 1967 Israele ha infatti imposto nei territori occupati l’obbligo per le donne palestinesi di partorire esclusivamente negli ospedali, negando alle levatrici (doyat) le licenze per i parti in casa. In tal modo lo Stato si assicura la possibilità di identificare e sorvegliare la crescita demografica del popolo palestinese.

Ovviamente gli avvenimenti successivi al 7 ottobre hanno reso quasi del tutto marginale questa strategia. In questa fase storica l’obiettivo dello Stato ebraico non è più monitorare la crescita demografica, ma cancellare del tutto la “minaccia demografica” attraverso l’eliminazione sistematica del maggior numero di palestinesi. 

L’attacco al diritto riproduttivo svela la paura di Israele per il potenziale della Palestina

Oltre alle strategie già menzionate, anche le deportazioni, lo sfollamento, la pulizia etnica e il controllo della mobilità hanno come obiettivo ridurre la capacità riproduttiva delle comunità in loco, così come anche le carcerazioni arbitrarie delle donne palestinesi in gravidanza.

Altrettanto strategiche sono poi le politiche amministrative. Negando i permessi di ricongiungimento familiare e imponendo restrizioni al riconoscimento anagrafico, con l’intento di ostacolare la formazione e la stabilità delle famiglie, compromettono la capacità riproduttiva e il mantenimento demografico. Il confinamento, il controllo della mobilità, il blocco prolungato imposto su Gaza di medicinali e attrezzature mediche e igienico-sanitarie il numero limitato di infrastrutture sanitarie rimaste in piedi completano l’opera, incrementando intenzionalmente e strategicamente la mortalità materna e infantile.

Secondo l’OMS, infatti, solo nei territori occupati della Cisgiordania negli ultimi due anni si sono verificati più di 720 attacchi a strutture sanitarie, che hanno causato il decesso di moltissime donne e bambinə. Stessa sorte per tutte quelle donne incinte costrette a raggiungere gli ospedali nei centri urbani e trattenute ai check-point dalla polizia israeliana.

Nel marzo di quest’anno la Commissione internazionale d’inchiesta dell’ONU ha pubblicato il rapporto “More than a human can bear”: Israel’s systematic use of sexual, reproductive and other forms of gender-based violence since October 2023” nel quale si conferma ufficialmente la volontà sistemica da parte di Israele di annientare la capacità riproduttiva deə Palestinesi a Gaza, attraverso la distruzione deliberata di strutture sanitarie riproduttive, tra cui anche la clinica IVF Al‑Basma, principale centro di fertilità del territorio palestinese che conservava embrioni, spermatozoi e ovuli. Il rapporto afferma che questo atto può essere interpretato come «misura genocidiaria poiché intesa a impedire nascite» in violazione della Convenzione sul Genocidio e dello Statuto di Roma.

In tutte le politiche di Israele legate alla maternità, dunque, da un lato c’è un disegno programmatico e politico di creare condizioni che impediscano alle donne di portare avanti le gravidanze; dall’altro emerge un evidente moto d’odio verso la vita palestinese e il suo futuro – un odio che affama, uccide, mutila e rende orfani ə più fragili al grido di «definisci bambino».

In questo scenario, il corpo delle donne palestinesi non è più solo un fatto intimo, ma diventa un atto profondamente politico. Con la sua capacità di generare futuro, si trasforma in un “campo di battaglia” su cui si combatte una guerra fatta di numeri, identità e resistenza. Israele, attraverso una combinazione di strategie militari, amministrative e simboliche, agisce non solo per sottrarre terra, risorse e autodeterminazione, ma anche per “interrompere la continuità” del popolo palestinese.

In risposta, ogni gravidanza portata a termine, ogni bambinə cresciutə in un contesto di oppressione, ogni famiglia che resiste alla disgregazione imposta, rappresenta un atto di sfida e un’affermazione collettiva di esistenza contro un progetto coloniale che mira alla cancellazione.

La copertina è di Mohamed Zarandah da Pexels

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