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Urbanizzazione africana. Tra economie popolari e pandemia, intervista ad AbdouMaliq Simone

Uno dei più importanti urbanisti del cosiddetto Sud Globale racconta come la pandemia ha ristrutturato le economie popolari nelle città africane e le reti sociali che le innervano

Per comprendere i processi di trasformazione urbana, così come i conflitti e le sfide politiche delle città del sud globale, risulta particolarmente interessante indagare le articolazioni tra le eterogenee trame sociali e spaziali nelle esperienze di vita quotidiana delle maggioranze popolari e i processi di produzione della città. Da questa prospettiva, come possiamo caratterizzare le economie popolari urbane? Quali pratiche, territori e soggettività emergono da questi processi? 

È possibile organizzare la nozione di economia popolare urbana attorno a quattro punti, quattro movimenti che compongono una serie di traiettorie: il primo definisce lo sviluppo di particolari pratiche economiche popolari urbane come modo di usare le esistenti municipalità, istituzioni religiose, scolastiche, i processi di mercato con le loro identità chiare e durature, come particolari tipi di istituzioni urbane. Si tratta in questo senso di particolari modelli e logiche di utilizzo, modi di navigare le relazioni tra queste istituzioni per creare particolari forme di sostentamento, per articolare modi particolari di intendere e di posizionarsi come residenti dello spazio urbano.

Il secondo punto riguarda il modo in cui alcuni elementi di queste istituzioni e di questi settori discreti compongono un tipo di assemblaggio, una costellazione dotata di un particolare valore strumentale e di una sua identità, anche se in maniera molto più mobile, nel senso che sebbene questa costellazione possa essere impiegata come una sorta di macchina, la sua identità è molto diversa da quelle statutarie o normative create dalla legge, dalla politica e dalla storia.

In terzo luogo, è possibile dire che i territori urbani si caratterizzano per una varietà di incompiuti strutturali, di vuoti, per esempio nella disposizione della terra, il suo statuto, spesso determinato da forme plurali di regolamentazione, di amministrazione e di proprietà, dove i sistemi di proprietà e le varie disposizioni si accavallano, entrando spesso in conflitto tra loro, generando lacune. A questo livello le economie popolari urbane prendono forma come possibili usi strumentali, modi di approfittare di queste lacune.

In molte città africane i progetti e le politiche hanno una sorta di “vita interrotta”: si costruiscono cose che non vengono portate a termine, che danno luogo a particolari modi di utilizzo, a protocolli, per cui continuano a vivere ma non secondo la destinazione con cui erano state pensate. C’è una sorta di vuoto, in cui si inseriscono usi ed effetti non voluti, non previsti, che formano un dominio altro, quello delle economie popolari urbane.

In quarto luogo, c’è una tendenza politica, un tipo di dissenso e di rifiuto a perseguire particolari piani e questo introduce una sorta di incompletezza nelle operazioni. Il modo in cui le persone semplicemente non danno per buone alcune politiche, alcune di queste operazioni, introduce una sorta di incompletezza che diventa a sua volta un modo altro di usare le risorse.

Queste sono quattro traiettorie diverse, quattro tipi di operazione che compongono un insieme che potremmo definire come economia popolare urbana.

Beira (Mozambico) Interno del Grande Hotel Beira – Due donne con i loro bambini sulla scalinata dell’hotel che porta alla grande hall.

Se intendiamo le economie popolari come espressione di molteplici modi di lavorare e di organizzare la riproduzione sociale, oltre la dicotomia tra formale e informale, come assemblaggi di pratiche differenti, quali logiche di visibilità di pratiche sociali, modalità di sfruttamento e conflitto sono emersi o si sono intensificati con l’irruzione della pandemia?

Durante la pandemia abbiamo assistito a una sorta di tensione tra il tentativo di consolidare una base sicura da cui operare e la necessità di sperimentare modalità diverse per organizzare il sostentamento, la cura, l’approvvigionamento. La tensione tra queste due dinamiche (sicurezza e sperimentazione) si è acuita ed è divenuta motivo di contesa durante la pandemia.

Quello che sembra essere successo in molti luoghi, a molte persone impegnate nelle maggiori comunità urbane, è che le condizioni su cui poggia questa sicurezza sono diventate molto più difficili e urgenti, ad esempio le persone hanno chiesto che venissero saldati i debiti, di essere ripagate subito. Il confinamento non è stato solo una limitazione della mobilità fisica, è stato anche una limitazione di un certo tipo di mobilità sociale; ha sostanzialmente obbligato le persone a cercare rifugio appellandosi a strumenti che tendono a essere riconoscibili dallo Stato, dall’ordine sociale, sebbene non siano quelli impiegati comunemente e non riflettano il modo in cui le persone effettivamente vivono.

Questo è un altro aspetto importante della pandemia, il fatto che le forme dell’abitare sono molto più eterogenee e plurali di quello che ci si aspettava e che seppure i contesti, i luoghi e le condizioni dell’abitare siano molteplici, tutti vengono esperiti come forme di abitare. Sia il bisogno di sicurezza che il bisogno di escogitare modi diversi di operare sono diventati più urgenti, ma meno conciliabili di prima, lo spazio per improvvisare si è ridotto, per le forme di adattamento, per negoziare.

La pandemia sembra portare alla luce questa disgiunzione e ovviamente gli Stati tenteranno sempre di approfittarne per riorganizzare il tutto a proprio vantaggio. È in questo senso che, in termini di economie popolari urbane, la pandemia ha posto domande importanti: quali sono i nuovi assetti in corso di definizione? Chi è a capo di questa riorganizzazione? Quali logiche vengono perseguite? Cosa possiamo già dire sulla base delle varie ristrutturazioni in corso?

Beira (Mozambico) Un bambino si affaccia sui tetti della città.

In un importante articolo di qualche anno fa (People as Infrastructure) riferendoti al contesto di Johannesburg, hai parlato di “state of preparedness”, ovvero la prontezza dei residenti urbani di rispondere ai diversi regimi di instabilità (politica, economica o sociale), come tratto che accomuna molte città africane. Quali sono state le risposte dei cittadini africani e delle loro reti di collaborazione sociale alla pandemia e alle misure prese per contrastarla (lockdown, chiusura dei confini)?

Negli anni in cui ho vissuto in diverse città del continente ho notato un ethos, che accomuna in particolare giovani uomini e donne, che dice in sostanza «sii sempre pronto a fare qualcosa per cui non sei preparato». Le risorse che permettono di fare questo derivano sempre dal modo di concepire il proprio universo limitato (la casa, l’isolato, la strada, il quartiere) come legato a qualcosa che si estende al di là. Per costruirci una vita sostenibile in un determinato luogo tendiamo sempre a immaginarci in qualche altro luogo, ciò che siamo si allarga anche al di là di un luogo specifico.

Questa è, in un certo senso, la logica alla base dell’urbanizzazione, perché le persone hanno sempre fatto avanti e indietro, spostandosi verso le città per poi tornare nelle aree rurali, per poi riavvicinarsi alla città, e la vita sociale, politica ed economica si è sempre basata sulla maniera di stare tra questi diversi mondi e su questo spostamento che avviene fisicamente, spiritualmente e in termini di identità sociale. Bisogna essere sempre aperti alla possibilità che il proprio fare si svolga altrove.

Questi canali di trasmissione sono stati in gran parte erosi nel corso degli anni e quello che vediamo ora è che le persone non hanno più accesso a questi canali, o i costi sono troppo alti, il prezzo da pagare troppo alto e così le persone cercano di saltarne fuori, di muoversi verso qualche altro posto. In Africa occidentale c’è un tipo di circolazione, un movimento continuo, un movimento che ora è più disperato, più speculativo e pronunciato, e questo significa che quella prontezza, quella disposizione, si traduce spesso in qualcosa di più impulsivo e di meno programmato.

In condizioni di crisi e di pandemia, in un momento in cui la circolazione è ridotta, questa maniera di operare presenta nuove criticità. Ovvero, questo sistema circolatorio, in cui diversi tipi di luoghi, di comunità e di persone erano in grado di sviluppare questi elaborati circuiti di scambio, è diventato molto più parassitario. Il contrabbando, per esempio, è sempre stato segno di una certa complementarietà, il manifestarsi di una certa prontezza: oggi invece si presenta sempre più come furto che debilita, che mina le capacità di particolari tipi di locale.

Beira (Mozambico) Veduta sul porto commerciale.

Come hai più volte scritto, nelle città africane, malgrado i calcoli e le decisioni pianificate nella scelta del proprio percorso di vita, una persona si troverà sempre davanti a un incrocio imprevisto (quelli tu chiami «crossroads»), con la necessità di assumere nuovi rischi in condizioni di costante incertezza futura. L’abitudine a fronteggiare una quotidianità nella quale le regole del gioco cambiano continuamente ha avuto un ruolo nella tenuta delle città africane malgrado l’assenza di ammortizzatori sociali e infrastrutture stabili? Cosa produce questa instabilità delle condizioni di vita e di lavoro, sempre più estesa a livello globale, rispetto alla mobilità e ai flussi che attraversano le città, ma anche rispetto agli immaginari futuri della vita urbana?

Storicamente uno dei fattori che hanno permesso alle città africane di funzionare è stato questo ethos basato sulla disponibilità, di persone disponibili l’una per l’altra, e questa disponibilità è diventata uno dei valori primari attorno a cui la vita sociale si è organizzata. Nonostante le gerarchie evidenti che caratterizzano gli ordinamenti di molte società africane, c’è questo investimento nella disponibilità, che è un investimento di energia molto diverso dalla proprietà. Nel caso della proprietà, l’investimento ha poco a che fare con la disponibilità, perché la proprietà consiste nel consolidare qualcosa che è separato da ciò che hanno gli altri e molta energia deve essere spesa nel difendere i confini di questa proprietà, nel difendere le condizioni che garantiscono questa separazione. Quando parlo di investimento della disponibilità, intendo l’investimento che si fa in un circuito di informazioni, un circuito di collaborazioni che ha saputo adattarsi rapidamente alle circostanze mutevoli della città. Tuttavia la disponibilità ha anche i suoi aspetti critici, perché le nozioni di stregoneria e di possessione esprimono un particolare tipo di preoccupazione che riguarda proprio quanto si sia disponibili alle operazioni e ai desideri degli altri. Il lato negativo è questo essere sempre esposti alle iniziative e alle scelte di altre persone. Ci sono infatti altri modi, oltre alla proprietà, con cui molti residenti urbani africani cercano di separarsi dagli altri.

Se però, prendendo in considerazione la nozione di «differenza senza separabilità» elaborata da Denise Ferreira da Silva, vediamo che questo ethos urbano africano privilegia l’idea secondo cui c’è una molteplicità di differenze che coesistono senza essere separate nella forma della proprietà e. a mio avviso, questo è un’importante legacy dell’esperienza urbana.

È anche vero che le richieste, gli obblighi, la pressione che questo tipo di disponibilità subisce, la proliferazione di alcuni tipi di attività che garantiscono la sussistenza, stanno in un certo senso sovraccaricando il sistema. In molti casi questa disponibilità viene compensata dall’ossessione di accaparrarsi un pezzo di terra, e questo genere di disponibilità che le persone hanno l’una verso l’altra si converte sempre più spesso in disponibilità di terra.

In questo senso credo che il bivio di fronte a cui ci troviamo oggi sia tra questo prodotto urbano duraturo, persone disponibili l’una verso l’altra, persone che si procurano a vicenda risorse, e questo patrimonio concepito in termini di acquisizione di terra. Sappiamo cosa succede con le acquisizioni massicce di terra, che si traducono facilmente in una questione che riguarda chi ha il diritto di appartenere a un luogo, chi ha i titoli per rivendicare questa appartenenza, che ci porta a tutta una serie di nozioni di autoctonia…

Siamo di fronte a questo tipo di bivio, l’atmosfera in molti spazi urbani africani si è fatta più tesa, c’è un senso di affollamento, sebbene ci sia, allo stesso tempo, soprattutto tra i giovani, una maggiore apertura e disponibilità a prendere in considerazione tipi di pensiero e di esperienze che permettono di scavallare le divisioni linguistiche, le divisioni territoriali, di creare attraversamenti che prima non c’erano.

Questa intervista è stata pubblicata sul numero 4 della rivista DINAMOPRINT dal titolo Transizioni, città e corpi fuori norma, pubblicato nel mese di dicembre del 2021

AbdouMaliq Simone è urbanista e professore presso lo Sheffield Urban Institute, con una lunga esperienza lavorativa in Africa e nel Sud-Est asiatico e un particolare interesse per le classi operaie musulmane urbane e le economie popolari

Immagini di copertina e nell’articolo di Valeria Scrilatti. Nell’immagine di copertina una veduta di Monrovia (Liberia). Dei 4,7 milioni di abitanti nel Paese, oltre un quarto vive nella capitale.