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DIRITTI

Un’esperienza intersex

Lorenzo S. ha 35 anni ed è nato in provincia di Roma. Poco dopo la maggiore età ha scoperto di essere intersex, Klinefelter XXY 47. Uomo, donna o entrambi? Aveva ancora questa domanda in testa quando in una riunione che preparava il Pride della capitale intervenne per dire che alla sigla Lgbt andava aggiunta la i. «Che vuol dire?» chiese qualcuno. In quel momento non lo sapeva bene neanche lui

Come hai scoperto di essere intersex?

Durante la pubertà ho sviluppato il seno. Lì per lì, in realtà, non me ne ero neanche accorto. Il mio corpo cambiava. A casa era tutto tranquillo. I miei genitori non dicevano niente. Sembrava tutto normale. Ma nell’incontro con gli altri bambini è venuto fuori che avevo qualcosa di diverso. Mi ricordo una volta, avrò avuto 13 anni, che come ogni pomeriggio ero andato a giocare a pallone. Indossavo una canottiera e avevo tutte le zinne di fuori. Io ovviamente non mi ero reso conto di nulla. Mentre giocavamo, però, questi bambini dicevano: «ahó guarda quello, c’ha le tette!». All’epoca c’era un amichetto mio, vicino di casa, che mi voleva un sacco bene e rispondeva al posto mio che era una cosa normale. Lì mi sono accorto che il mio corpo era differente da quello degli altri bambini. Per la prima volta. Col tempo la cosa è diventata sempre più difficile. Subivo pressioni. Mi prendevano tutti per culo. Mi emarginavano. Non era semplice. Così a un certo punto cominciai a maturare l’idea di togliere il seno: era diventato un problema sociale. A 18 anni andai a fare una visita dal chirurgo. Mi disse che prima dell’operazione dovevo fare degli accertamenti clinici per capire perché avevo sviluppato le tette. Da lì è iniziato il mio calvario.

In che senso?

Hanno cominciato ad analizzarmi, a farmi esami di qualsiasi tipo. Di tutto. Mi hanno rigirato come un pedalino. Il problema è che non avevano mai risposte certe da darmi. Piano piano sono caduto nel baratro. Sentivo di avere qualsiasi malattia mi passasse per la testa. Alla fine mi dissero che avevo la sindrome di Klinefelter e dovevo prendere dei farmaci. Nessuno mi spiegò cosa fosse questa sindrome, né il farmaco per curarla. Nessuno mi disse che la terapia ormonale è irreversibile o quali sono i suoi effetti. Comunque ho iniziato a prendere il testosterone. E il mio corpo è cambiato. Prima non avevo tutta questa barba. Avevo pochissimi peli. La mia voce era diversa. A un certo punto mi sono guardato allo specchio e non mi sono più riconosciuto. La mia immagine non corrispondeva all’idea che avevo di me. Io volevo togliere il seno, non essere più maschile. Mi sentivo maschile già prima. Anche se sembro l’ultima frocia dell’universo, è questa la mia mascolinità. E va bene così. Invece il protocollo medico che ti fanno seguire serve per produrre una mascolinizzazione secondo alcuni criteri culturali. Lì ho iniziato a pensare: ma com’è che ho una sindrome e la cura di questa sindrome è più mascolinità? Qual è il nesso? Se hai problemi alla tiroide, segui una cura che ti stabilizza la tiroide. Non è che segui una cura che ti stabilizza la tiroide ma ti fa diventare qualcun altro, ti fa aderire a un modello di mascolinità.

Come hai vissuto questo trattamento?

Male, malissimo. Sono stato trasformato in una cavia. Non mi spiegavano niente. Per esempio un periodo prendevo il testosterone in forma di gel. Dovevo farlo tutte le mattine. Si poteva spalmare sui fianchi o sulle spalle. Non avevo idea che nel punto di applicazione sarebbero spuntati un sacco di peli. Nessuno me l’aveva detto. Per fortuna siccome il gel era conservato in frigo ed era molto freddo non l’ho usato sui fianchi. Così sulle spalle mi è uscito un bolerino di peli. Dopo un paio d’anni che prendevo il testosterone in questo modo il corpo si è assuefatto. L’endocrinologo mi ha annunciato che ero stato inserito in un protocollo particolare, in un gruppo selezionato per sperimentare un nuovo farmaco. Io ho sempre avuto la lingua un po’ lunga e gli ho risposto: «Sai che c’è? Sperimentalo sul tuo gatto, poi se funziona chiami me». Il concetto è che non sei più una persona, diventi un oggetto che permette ai dottori di fare ricerca e studiare questa cosa misteriosa.  E poi non ci sono servizi di nessun tipo. Ho 35 anni, non ho lavoro, ho subito dieci anni di violenza medica e non esiste alcun servizio che mi aiuti a reinserirmi nel contesto sociale e lavorativo. Non c’è uno sportello psicologico gratuito né niente.

Alice Wellinger

La «sindrome» ha effetti sulla salute?

Il nodo è questo. È una sindrome o una malattia secondo i medici. Ma non secondo le persone intersex. Tu stai in ospedale e quindi vieni trattato come una persona malata. È la tua identità che diventa la malattia. I sintomi non appaiono attraverso il corpo, come quando hai la febbre o l’influenza. No, il sintomo della malattia è la forma stessa che ha il tuo corpo. Tu diventi la malattia. La incarni. Ti convincono di questa cosa. È vero che io soffro di tiroide o mi hanno diagnosticato che con gli anni posso andare incontro all’osteoporosi, ma questo rischio esiste anche per le donne. Però non esiste la sindrome XX. Quindi perché il mio status corporeo è una malattia e quello di un soggetto considerato donna no?

Quindi qual è il rapporto tra sindrome di Klinefelter e intersessualità?

I medici la chiamano sindrome di Klinefelter, le persone intersessuali dicono che è una variazione del sesso intersex. Definirsi intersex ti aiuta a uscire dalla dimensione della malattia, è un modo per sentirsi sano, trasforma la percezione che hai di te stesso. Capisci che hai un corpo caratterizzato da un sesso particolare, ma non da una malattia. Io ho iniziato il mio percorso di uscita dalla medicalizzazione partendo da lì, dalla definizione di me stesso. E oggi mi sento bene, nonostante la strada sia stata lunga e difficile.

Questo percorso di uscita dalla medicalizzazione com’è andato?

Immagina di vivere in un mondo in cui non esiste altra rappresentazione di te se non quella medica. Televisiva, giornalistica, artistica, letteraria. Nessuna. Ti ritrovi soltanto sui manuali di endocrinologia. Ho pensato che per rompere questa cosa dovevo cominciare a dire che sono inetrsex, a comunicarlo, perché magari c’erano persone che vivevano la mia stessa esperienza o una simile. Così ho iniziato a parlarne. Farlo mi ha dato l’opportunità di sentirmi meno solo e più compreso. Tutto è andato molto lentamente. Ho anche fatto un percorso di psicoanalisi durato cinque anni. Senza non credo ne sarei mai uscito. Quando sono arrivato dallo psicologo avevo 20 attacchi di panico al giorno. Non uscivo più di casa. Non dormivo. Se mi addormentavo mi svegliavo urlando. Quando si parla della terapia applicata alle persone intersex si nominano solo i risultati positivi, per dire che funziona, ma mai questi effetti collaterali.

Da cosa dipendono?

Vivi nella paura di morire. Da quando ti dicono che hai la sindrome di Klinefelter entri in un tunnel che ti porta a star male. Perché ogni volta che vai a fare delle analisi hai addosso il terrore che ti trovino qualcosa di terribile. A Roma, dove sono stato seguito per molto tempo, mi hanno diagnosticato di tutto. Con due globuli bianchi in meno mi hanno detto che avevo la leucemia. Poi il cancro alla prostata. Dopo, quello al cervello. Ogni anno avevo una visita e ogni volta prima della visita scleravo di brutto. Perché facevo queste analisi e trovavano sempre qualcosa. Ma alla fine non ho avuto nessuna di queste malattie. Quando sono arrivato a Bologna, dove vivo adesso, i medici mi hanno chiesto: ma perché ti hanno fatto fare tutta questa roba?

Come ne sei uscito?

Un punto di svolta è stato all’università. Frequentavo storia dell’arte alla Sapienza. Un’amica mi disse che c’era un corso un sacco bello, sui femminismi «altri». Una critica al femminismo bianco e occidentale attraverso autrici postcoloniali. Lì conobbi la professoressa Caterina Romeo. Alla fine della prima lezione andai da lei e le dissi che ero intersex e stavo cercando del materiale perché non ne sapevo niente. «Neanche io ne so assolutamente nulla, ma se ti va scrivi un pezzo e lo leggiamo insieme a lezione», rispose lei. Era il 2008, avevo 25 anni. Forse neanche si è resa conto di quello che ha fatto. Ma io le sono molto grato.

Poi hai trovato qualcosa?

Il primo libro è stato Middlesex, di Jeffrey Eugenides. Me lo avevo consigliato Caterina. Silvia Calderoni dei Motus ne ha tratto uno spettacolo teatrale. Poi alcune cose di Judith Butler. A pensarci ho letto più cose scritte da me che da altri su questo tema. Sono sempre stato abbastanza isolato. In Italia c’è un sommerso di violenza gigantesco e quindi le persone intersex hanno difficoltà a parlare. Io sono tra i più fortunati perché il protocollo medico di cui sono stato vittima è tra i meno invasivi. E poi sono arrivato a 20 anni con una mia identità e una mia formazione. Ci sono tante persone medicalizzate dalla nascita, operate da piccolissime e psichiatrizzate. La loro vita diventa la medicalizzazione. Il problema dei protocolli sulle persone intersex è che sono violenze totalizzanti. I medici si sostituiscono al tuo sé. Diventi quello che loro desiderano tu sia. Se la biologia dice che sei maschio ti fanno diventare maschio. Ti costruiscono come un maschio. Io a un certo punto non capivo più chi desiderava cosa sul mio corpo. Se ero io che volevo fare delle scelte o erano i medici a chiederlo.

Come decidono se devi essere uomo o donna?

Non conosco i criteri nel dettaglio, ma in base a quelli ti inseriscono in alcuni protocolli che ti portano a diventare più uomo o più donna. E così fanno i danni. Perché dovrebbe essere il singolo a scegliere, nel momento in cui può farlo, quello che vuole essere.

Com’è stata vissuta quest’esperienza a casa tua?

I miei sono persone estremamente aperte e accoglienti. Forse anche per le loro esperienze di vita. Mia madre è nata dentro una stanza e ci ha abitato fino a 23 anni con altre tre persone. La borgata, ma della provincia. Per loro la rete sociale è sempre stata tutto. Hanno accolto chiunque. E anche con me sono stati carini e aperti. A casa mia è stato sempre tutto normale. Questa è una delle mie fortune: i miei genitori mi hanno appoggiato in tutto e per tutto. La cosa fondamentale è che per loro non sono mai cambiato. Anche quando mi sentivo un altro, per loro non ero una persona malata o una persona intersex. Ero sempre io. Lorenzo. E questo è stato un punto fermo decisivo.

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Hai conosciuto altre persone intersex?

Solo una e molto tardi. L’anno scorso. Eppure non è una condizione poco diffusa. Si stima che riguardi una persona ogni 5mila. Il fatto è che te ne rendi conto solo attraverso analisi cliniche specifiche, ad esempio la mappa cromosomica. Quindi tantissime persone sono intersex ma non lo sanno. Quelle che lo sanno non lo dicono perché sono vittime di queste violenze totalizzanti. È difficile parlare. Sei visto come un mostro. Quando dici che sei intersex la gente pensa subito a come sei fatto fisicamente, a che cos’hai in mezzo alle gambe, a come fai sesso. E questo è fastidioso, è un’invasione della tua intimità. Si parla sempre di corpo intersex e mai di esperienze intersex. Ognuno di noi fa un’esperienza differente del proprio corpo. Secondo me non esiste una definizione esatta della parola, ce ne possono essere molte. Ognuno ha una sua percezione del corpo, una sua esperienza attraverso il corpo, un’immagine di sé e un modo di definirsi. Io per esempio ho fatto caso che quando mi riferisco alla medicalizzazione parlo in termini di malattia Klinefelter, quando evoco una collettività mi definisco intersex, ma se penso a me stesso mi sento maschio. Sono cresciuto con l’idea di essere maschio, mi piace. Al massimo non mi definisco proprio. Ciao, sono Lorenzo e punto. Quello che voglio essere si vede.

Non hai mai voluto essere donna?

Sì, il periodo Lollette. Un annetto tra il 2007 e il 2008. Mi sentivo femmina. Gli altri si dovevano rivolgere a me al femminile. Rubavo i vestiti alla mia coinquilina che mi odiava per questo. È una dimensione che ho indagato per cercare di comprendere se fosse effettivamente la mia. Ma mi sento più uomo. Perché nel maschile sono a mio agio con la mia dimensione femminile. Ma non vale il contrario. Le ragazze trans del movimento identità transessuale (Mit) di Bologna mi prendono sempre in giro, dicono che sono femmina dentro. Come un mio amico, che mi ripete in continuazione che gli ormoni non mi fanno alcun effetto. L’ultima volta che ho fatto le analisi avevo il testosterone a 11. Un maschio normale ha in media 7,80. Adesso me l’hanno abbassato. Ma non è il testosterone in sé a mascolinizzare. Il testosterone produce degli effetti sul corpo –  la barba, i peli, la voce – che noi interpretiamo come maschili.

Con la tua esperienza alle spalle cosa diresti a un ragazzino che scopre di essere intersex?

Lo tratterei come chiunque altro. Spesso il problema non sono i ragazzi, ma i genitori. Il lavoro va fatto su di loro. In Italia dovrebbero esistere servizi che aiutano i genitori a comprendere che i figli sono nati semplicemente con un sesso che non è mai stato rappresentato, non ha mai avuto una dimensione sociale e politica e per questo è considerato una non identità. Un non sesso. Un vuoto. I genitori si impauriscono anche perché i medici gli dicono che i figli potrebbero star male o morire. Di fronte a questo rischio subentra la paura e uno si affida allo specialista. Bisogna aiutare i genitori a capire che i figli sono persone altre che devono essere accompagnate nella crescita. Questo vale per tutti i bambini, non solo per quelli intersex. Chiunque dovrebbe sentirsi libero di scegliere la propria identità di genere, il proprio corpo, la propria dimensione relazionale e affettiva. I genitori dovrebbero capire che il loro ruolo è accompagnare i figli in questa scelta, in questa crescita. È la cosa migliore da fare.

 

Una versione più breve di quest’intervista è stata pubblicata originariamente su alias, inserto del manifesto, del primo giugno 2019 (pag. 4)

Le opere raffigurate sono dell’artista intersex Alice Wellinger