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OPINIONI

Una selva molto oscura. Il neoliberismo comunitarista delle scuole parentali e libertarie

Educazione parentale, scuole libertarie e asili nel bosco promuovono un modello neoliberista di riorganizzazione delle politiche scolastiche. Si tratta del modello “free to choose” teorizzato da Milton Friedman che, mediante il sistema dei buoni scuola, intende favorire un uso privatistico delle risorse pubbliche sottraendole, in nome del pluralismo educativo, alla scuola statale

La concezione progressista della scuola democratica di massa — ossia l’istruzione pubblica, statale, obbligatoria e gratuita — ha sempre incontrato due grandi oppositori: il primo sono le organizzazioni religiose, a cui sottrae parte del controllo ideologico sulla formazione dei futuri cittadini; il secondo il mondo delle imprese, a cui riduce i margini di disciplinamento e regolazione della futura forza lavoro.

 

Per questa ragione, nel promuovere modelli di riforma delle politiche scolastiche, questi due soggetti sociali hanno spesso agito in modo sinergico, hanno armonizzato le proprie visioni per contrastare o dirigere l’avanzata della scolarizzazione democratica.

 

Non perché siano nemici della democrazia, bensì perché la scolarizzazione democratica semplicemente favorisce un processo di emancipazione economica e culturale delle classi subalterne che, per sua stessa natura, entra in conflitto con la distribuzione del potere economico e politico e con gli equilibri sociali precedenti — anche solo per l’implicita e inevitabile spinta verso la mobilità sociale e lavorativa ascendente.

Da una parte le istituzioni religiose sentono minacciati i residui di organicità comunitaria premoderna che ancora riflettono l’ordine sociale da loro auspicato. Dall’altra le organizzazioni imprenditoriali temono l’ingovernabilità dell’eccedenza quantitativa e qualitativa della forza lavoro che esce dal sistema scolastico, che costringe a una diversa e maggiore regolamentazione del lavoro, in cui l’offerta — cioè i lavoratori — non può più essere una mera variabile dipendente. È un timore, del resto, più che giustificato. Di fatto, lo Statuto dei Lavoratori del 1970 fu il risultato delle lotte sociali nella produzione ma anche della crescita generalizzata dei livelli di istruzione.

 

Ma ecco che in tempi recenti sono apparsi dei nuovi nemici dell’istruzione pubblica obbligatoria, che presentano caratteristiche sociali, culturali e ideologiche non immediatamente assimilabili ai due soggetti che abbiamo citato.

 

Si tratta di quella compagine apparentemente variegata che raccoglie al suo interno l’educazione parentale, le scuole libertarie o alternative e gli asili nel bosco, che proprio in questi anni si stanno diffondendo in Italia. Queste realtà sono accomunate da una serie di presupposti più o meno consapevoli ma tra loro coerenti: un approccio pseudopedagogico regressivo e scientificamente volgare, una filosofia della storia di stampo reazionario, un’implicita filosofia politica neoliberista e una visione sociale comunitarista. In poche parole, tutto ciò contro cui si batte ogni pedagogia progressista e democratica.

 

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Se si considera la ridottissima estensione quantitativa del fenomeno, l’attacco feroce che rivolgeremo a queste realtà nelle righe che seguono potrebbe apparire eccessivo e politicamente superfluo. E forse così sarebbe stato qualche anno fa, quando ancora si poteva liquidare la questione come bizzarro fenomeno di costume che riguardava uno sparuto gruppo di innocui «fricchettoni». Ma la situazione è cambiata.

Da un lato queste organizzazioni stanno convergendo nel fronte neoliberista che intende estendere l’azione del mercato, come principio regolatore, all’intero sistema dell’istruzione. Homeschoolers, anarcolibertari e «pedagogisti del bosco» stanno già esprimendo pubblicamente la richiesta politica di attuare un sistema di voucher: buoni scuola erogati dall’ente pubblico per permettere ai clienti, ossia le famiglie, di scegliere liberamente dove educare i propri figli. Questo sistema fu concepito da Milton Friedman negli anni cinquanta ed è divenuto, nei decenni successivi, uno dei cavalli di battaglia della destra neoliberista.

 

Dall’altro lato queste organizzazioni stanno trovando spazi di interlocuzione istituzionale e a volte, ahimè, anche parzialmente accademica.

 

I rapporti, seppur blandi e occasionali, con alcune figure universitarie permettono loro di vendere nel mercato della «formazione dei formatori» dei semilavorati intellettuali dal vago sapore pedagogico: pseudoteorie, consulenze e corsi infarciti di una retorica motivazionale estranea alla scienza sociale ma molto comune nella formazione aziendale e nella promozione di prodotti o strategie per il benessere personale.

È giunto dunque il momento di rivolgere loro una critica severa. Non solo per portare l’attenzione sulla loro pericolosità politica, ma anche per offrire strumenti di difesa, teorici e argomentativi, a coloro che a diversi livelli lavorano nella scuola pubblica e che ricevono continui attacchi da questi predicatori della libertà. Perché, come è sempre accaduto nelle fasi di ristrutturazione neoliberista dei sistemi scolastici, la delegittimazione sociale degli insegnanti è una necessità strategica per arrivare a metter mano al reclutamento e alla selezione del personale. L’attacco culturale prepara quello sindacale. Per poi colpire, giuridicamente, la condizione lavorativa e la forza contrattuale del personale scolastico.

A questi lavoratori ci rivolgiamo; è con loro che ci interessa intavolare una discussione. Interloquire con questi nuovi nemici, invece, non ha alcuna utilità. E non è nemmeno possibile, dato che rifiutano le regole del processo democratico tanto quanto quelle che disciplinano e permettono il conflitto di interpretazioni entro la comunità scientifica. Il dibattito si risolverebbe in un dialogo tra sordi, zeppo di equivoci linguistici, il cui unico effetto politico sarebbe offrire una immeritata dignità culturale e scientifica a queste organizzazioni.

L’intenzione di questo testo, al contrario, è proprio quello di smontare il discorso alla base di quell’incantesimo ideologico che fa sì che questi soggetti, che si autorappresentano e percepiscono come progressisti o addirittura rivoluzionari, operino a tutti i livelli come inconsapevoli servitori dei due grandi, ma ben consapevoli, nemici della scuola pubblica che abbiamo citato nelle prime righe. E sono talmente inconsapevoli e inconsapevoli strumenti di questi nemici da fare proprie proposte di riforma mutuate in senso letterale, senza nemmeno una riformulazione lessicale, dalla destra neoliberista (e ben poco liberale).

Parrebbe un capolavoro delle classi dominanti, non fosse che queste ultime non hanno fatto assolutamente nulla per sedurre, attrarre o sostenere queste realtà. E nemmeno hanno interesse a stabilire una alleanza esplicita con un piccolissimo aggregato culturalmente e politicamente confuso. Ma potrebbero nondimeno approfittarne per rafforzare il proprio consenso o, peggio ancora, per frammentare e indebolire dall’interno il fronte democratico che si oppone alla ristrutturazione/destrutturazione giuridica, organizzativa e proprietaria della scuola pubblica statale.

Andiamo per punti:

1. Al di là dei vari proclami e delle dichiarazioni universali, il bambino come soggetto portatore di diritto in senso sostanziale nasce con l’obbligo scolastico. Per la prima volta nella storia viene posto un argine reale, coercitivo, al potere discrezionale della famiglia o della comunità. Il bambino riceve per diritto un’istruzione che prescinde dalla condizione economica e dalle idee educative, politiche o religiose della famiglia. E un’educazione i cui metodi e contenuti sono il risultato del processo democratico, più o meno imperfetto, della società in cui vive. Nella storia della scuola, l’istruzione obbligatoria e gratuita è la vera rivoluzione sociale, pedagogica e civile.

 

Oggi come ieri, promuoverla e difenderla è la battaglia più importante, senza la quale ogni innovazione pedagogica è politicamente e socialmente inutile.

 

Nell’attaccare le istituzioni educative statali, questi cattivi libertari riducono la scuola alla sua funzione di trasmissione ideologica. Come se non fosse altro che un insieme di metodi e contenuti. E ragionano sempre in modo antistorico e falsamente universale. In realtà molti degli elementi progressivi dell’istruzione pubblica obbligatoria risiedono proprio nella sua dimensione extrapedagogica, nelle sue caratteristiche materiali, geografiche e storiche.

Ad esempio il fatto di «andare a scuola», inteso come moto a luogo, è più importante di qualunque metodo o contenuto educativo. Per alcune ore della giornata il bambino è sottratto alla famiglia, condotto in un luogo separato e affidato a degli insegnanti qualificati e selezionati dallo Stato. Si siede in un’aula con venti sconosciuti, con i quali dovrà forzatamente socializzare. Venti sconosciuti non scelti da lui né dalla famiglia o dalla comunità.

Per questa ragione l’ingresso nella scuola dell’obbligo è anche il principio dell’esistenza propriamente sociale del bambino, della sua cittadinanza in senso pieno. La doppia deprivazione, culturale e sociale, che l’educazione parentale o sedicente libertaria infligge al bambino si configura dunque come violazione dei suoi diritti soggettivi in favore della restaurazione del potere della famiglia, che torna a disporre interamente della vita del soggetto.

 

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2. Questa violazione del diritto del bambino si presenta sempre in forma mascherata e rovesciata. La restaurazione della centralità dispotica del genitore viene maldestramente spacciata per un ritorno alla centralità del bambino, riattualizzando il mito della spontaneità educativa contro cui Gramsci scrisse pagine infuocate, e su cui un secolo di riflessione ha lasciato una bibliografia sterminata oggi ignorata o svilita.

Alla prospettiva repressiva e «adultocentrica» attribuita alla scuola pubblica, colpevole di mortificare lo sviluppo spontaneo e libero della personalità dello scolaro, le scuole alternative contrappongono una visione «bambinocentrica», che permetterebbe di coltivare la diversità, la specificità e l’unicità dell’espressività infantile. Se, come affermano, la scuola pubblica punta a omologare i bambini, a renderli tutti uguali; quella libertaria sostiene invece di favorire la singolarità, l’eccezione, l’irriducibile particolarità di ciascuno. Smontiamo insieme i presupposti teorici di tale visione.

 

Il carattere mistificante e involontariamente parodico di questa retorica, il fatto che tenda a produrre l’esatto contrario di ciò che predica, è evidente anche a un primo sguardo esteriore, immediato.

 

Basta riconoscere l’incredibile omogeneità delle idee, delle pratiche, dei consumi e dei costumi di coloro che operano all’interno delle scuole libertarie e di coloro che vi affidano i figli. Al contrario della scuola pubblica statale, che spicca per la pluralità culturale e sociale da cui è perennemente attraversata, le scuole libertarie presentano un grado di omologazione difficile da rintracciare altrove. Insegnanti e genitori sono tutti uguali. Mangiano biologico, vestono etnico, prediligono le medicine alternative e la spiritualità new age alla scienza medica e alla religione, si riconoscono in un unico quanto vago immaginario politico, restano facilmente sedotti dalle teorie della cospirazione e dall’antivaccinismo.

Sono gli eredi del lato regressivo della controcultura degli anni sessanta e settanta. Di quel alternativismo individualista che — nella stagione di depoliticizzazione generazionale che ha fatto seguito agli anni della contestazione — ha reintrodotto nella cultura della sinistra diffusa tutti gli elementi reazionari contro cui si era precedentemente combattuto. In questo milieu culturale e ideologico, la stessa educazione dei figli diviene parte del processo di affermazione identitaria del genitore, il quale si rispecchia e si riconosce nella sua scelta, cancellando qualunque spazio autonomo dell’infanzia.

Iscrivere i figli all’asilo offre al genitore la sensazione di star facendo qualcosa di diverso e di politicamente o eticamente rilevante. Ed è soprattutto un’opzione coerente con la sua visione del mondo. Ma in realtà quel genitore sta compiendo una delle scelte più reazionarie, ossia quella di optare per una struttura educativa che riflette i valori e le idee della famiglia d’origine.

La forza democratica della scuola pubblica obbligatoria consiste proprio nel fatto che impedisce questa armonizzazione. Al contrario, la scuola pubblica produce un attrito tra la cultura familiare e quella che il bambino incontra a scuola, e che non potrebbe incontrare altrove. Solo così si creano i presupposti per un’autonomia anche culturale del futuro cittadino, che gli permetterà eventualmente di assumere una posizione non subalterna rispetto ai codici e ai legami familiari e comunitari. È semplice: la libertà del bambino, la sua esistenza autonoma e sociale, inizia dove finisce la libertà del genitore di disporre di lui.

 

Il bravo genitore è quello che accompagna il figlio verso l’esterno, verso la società, non quello che glielo impedisce, come accade con l’educazione parentale o con le scuole libertarie.

 

La matrice antimoderna e antidemocratica di questi soggetti alternativi è rilevabile in ogni anfratto del loro pensiero. Tutto è pervaso da una mistica della superiorità dei legami primari, diretti e comunitari, contrapposti a quelli disciplinati da una mediazione giuridica, istituzionale o sociale. Insomma, sono continuamente esaltate, perché ritenute più «autentiche», le forme premoderne e comunitarie del legame sociale, le quali, al di là delle illusioni coltivate da alcuni anarchici contemporanei, non possono che reintrodurre quelle pratiche di dominio, sopraffazione e oppressione che caratterizzavano le relazioni di potere precapitalistiche.

L’utopia libertaria — che intende creare isole «liberate» come anticipazioni del futuro regno della libertà entro quello presente della necessità — produce in realtà microistituzioni totali dal sapore medievale. Inoltre l’onnipresente culto della natura, in senso romantico, e del passato, un passato mitico e non storico, assieme al rifiuto del progresso sociale e tecnologico, rivelano come questi esperimenti educativi afferiscano, in modo più o meno consapevole, alla costellazione ideologica del pensiero reazionario, millenarista e antisocialista.

Lo rivela spesso persino il linguaggio da loro utilizzato. «In questo crescendo di scolarizzazione, di educazione ed istruzione specifica» scrivono su scuolalibertaria.blogspot.com «si è visto come l’antico e fiero carattere degli italiani, al contempo così aperto, creativo e fraterno, si sia progressivamente svilito e trasformato in una poltiglia stucchevole di servilismo e docilità estrema». Perché, se non si studiano il fascismo e le sue coordinate culturali e ideologiche, si finisce per riprodurne non solo le idee ma pure il lessico.

3. Un altro aspetto inquietante dell’ideologia pseudopedagogica delle scuole libertarie è la continua richiesta rivolta ai bambini di decidere e di scegliere cosa, come, dove, quando e con chi apprendere. La retorica della «pedagogia non direttiva» serve a mettere in atto la più meschina forma di manipolazione occulta dei bambini, ossia quella di far loro scegliere ogni cosa. Compreso se andare o meno a scuola. Una falsa libertà di scelta che, oltre a condannare il bambino alle sue precognizioni, gli attribuisce assurdamente responsabilità non adeguate alla sua età e condizione.

Anche in questo caso si assiste alla negazione dello spazio dell’infanzia e della sua specificità. Si trattano i bambini come piccoli adulti, anziché come piccoli cittadini. Vi è una rimozione del principio di autorità in favore di un autoritarismo dissimulato da egualitarismo. Molte di queste scuole hanno, come organo decisionale principale, delle assemblee cui partecipano bambini, insegnanti e genitori. Tutti con eguale diritto di voto. Questa pantomima della democrazia diretta, in realtà oppressiva e subdola, arriva a concepire delle vere e proprie mostruosità.

Ad esempio, la Piccola Scuola Libertaria “Kether”, attiva dal 2012 nei colli veronesi, si vanta di essere un esperimento di democrazia partecipata grazie alla modalità assembleare ed egalitaria con cui i bambini decidono le sorti della scuola. Sul loro sito scrivono: «Bambine/i, ragazze/i, sono liberi di decidere dell’assunzione, del mantenimento e del licenziamento di accompagnatrici/ori come pure della frequentazione o meno delle stesse/i, delle loro materie proposte, siano esse considerate convenzionalmente «obbligatorie» o «facoltative».

In poche parole, da un lato privano il bambino degli strumenti culturali e sociali che gli permetteranno di avere pari dignità sociale con gli altri cittadini, dall’altro lo addestrano ad una delle più abiette e disdicevoli pratiche della vita adulta: licenziare liberamente le persone. Questa è la verità: l’unica libertà che insegnano, nella scuola libertaria, è la libertà di licenziamento.

 

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4. Prima di concludere vorremmo segnalare un altro tratto problematico di queste realtà, ossia il fatto che pratichino una forma di educazione ambientale anti-ecologica e retrograda. Fondandosi su una concezione della natura romantica, religiosa e antiscientifica, scuole libertarie e asili nel bosco veicolano contenuti che ostacolano, anziché favorire, la maturazione di una coscienza ecologica all’altezza del nostro tempo e sempre più urgente alla luce degli sconvolgimenti climatici e ambientali imminenti, con cui le nuove generazioni dovranno misurarsi in tempi brevissimi.

Come i cantori ottocenteschi della wilderness, queste scuole promuovono un rapporto estatico con una «natura» il cui perimetro è delimitato da confini ideologici, estetici e spirituali. Nulla a che vedere con la comprensione scientifica del concetto. Più che di «natura» sembrano parlare di «campagna». E la descrivono, in contrapposizione alla città, come un ambiente armonico, equilibrato e sostanzialmente statico, che l’uomo può abitare felicemente e senza crear problemi se impara a conoscerlo, amarlo e rispettarlo. E a inserirsi al suo interno in modo organico, senza pretese di intervento, controllo e dominio su di esso.

 

Ovviamente non vi è nulla di naturale in questi concetti. Al contrario, sono concetti antropomorfi e ideologici. Armonia, equilibrio e organicità non appartengono al mondo della biologia o della storia naturale, bensì ad una filosofia politica precisa.

 

Quando nelle scuole libertarie parlano di natura, in realtà stanno di nuovo descrivendo l’utopia di un ordine sociale comunitario e premoderno, statico, fondato sulla solidarietà organica, in cui ruoli e funzioni sono «naturalmente» prestabiliti. Si tratta di una proposta politica, di un modello reazionario di vita e di società, peraltro totalmente insostenibile dal punto di vista ecologico.

Se, per assurdo, si realizzasse davvero un mondo di piccole comunità organiche, autogestite, la specie umana si estinguerebbe in pochi mesi. Data l’impossibilità di attuare economie autarchiche di sussistenza, che sono una pura fantasia, la frammentazione e il decentramento moltiplicherebbero esponenzialmente la circolazione delle merci e dei servizi connessi. Le infrastrutture che permettono la produzione, la distribuzione e dunque l’approvvigionamento di ogni genere di risorsa si sovraccaricherebbero fino a implodere. Ogni possibilità di pianificazione, ottimizzazione e razionalizzazione ecologica sarebbe preclusa. Forse sopravviverebbero poche realtà isolate, collocate in territori particolarmente ricchi di risorse e meno esposti agli effetti dei mutamenti climatici.

In altre parole, la visione implicita nel discorso ambientale delle scuole libertarie è quella dell’ecofascismo malthusiano che, negli ultimi anni, è divenuto sempre più popolare negli ambienti della nuova destra radicale. Ovviamente questa ideologia non si presenta così. Il lessico e il sentimento della proposta ambientale libertaria ricorda, più che il fascismo, il disprezzo ottocentesco dell’aristocrazia nei confronti della città, proletaria e zozza, e il fascino per l’incontaminato, per il non-antropizzato. Insomma, percezioni ambientali che riflettono divisioni sociali. Più che di amore per la natura si tratta di odio di classe.

Peraltro lo stesso «bosco» di cui tanto parlano è un ambiente antropico, costruito e gestito tramite l’intervento umano. Altrimenti i bambini non riuscirebbero nemmeno a entrarci. Fare asilo nel bosco significa semplicemente spostare dei bambini da un contesto artificiale, la scuola, a un altro altrettanto artificiale. Con la differenza che, rispetto a una scuola dell’infanzia o a un nido, non è costruito a misura di bambino. Sia dal punto di vista del progetto architettonico-pedagogico, sia da quello dei saperi e delle conoscenze impiegate al suo interno. Nonché del personale impiegato, dato che rivendicano di scegliere liberamente gli insegnanti senza badare a titoli di studio o altro. Insomma, di selezionare in modo totalmente discrezionale e deregolamentato.

Si ripropone dunque quella cancellazione dello spazio specifico dell’infanzia. Il bosco è un luogo per adulti, dove è bene che i genitori, se possono farlo, accompagnino i bambini nel tempo extra-scolastico. Oppure possono farlo gli insegnanti, grazie ai sempre più diffusi progetti di outdoor education, di educazione ambientale e scientifica. Che offrono visite guidate e strutturate, in cui il rapporto del bambino con l’ambiente è mediato, anziché spontaneo e casuale. L’asilo nel bosco invece non è altro che una proiezione ideologica dell’adulto, un luogo dove gli adulti amano guardare i bambini immersi nella natura. Anziché portare i figli allo zoo, ce li mettono.

Tutte queste visioni devono essere, oggi più che mai, contrastate. È fondamentale che i futuri adulti che educhiamo assumano una comprensione scientifica dei processi ecosistemici opposta a quella estetica, estatica, spontanea e intuitiva. Che sappiano che l’albero che cresce nel cortile della scuola non è meno artificiale della scuola stessa, intesa come edificio. Che la natura è il tutto, non ha elementi esterni; comprende, senza alcuna distinzione morale, il plutonio e le violette. Che non si può fare del bene o del male alla natura, perché la natura non è Dio e dunque non contempla il bene e il male, ma necessita di altro genere di categorie interpretative.

Ma soprattutto i bambini, i futuri cittadini adulti, dovranno sapere che la sopravvivenza o meno della specie umana non dipenderà dalle scelte di consumo individuali delle classi abbienti, dagli exemplum falsamente virtuosi delle comunità liberate o della decrescita felice, bensì dalla capacità di cooperazione e interazione razionale a livello planetario. Che implica da un lato il massimo investimento pubblico nella ricerca scientifica, dall’altro una coordinazione e pianificazione sovranazionale che entra in diretto conflitto con la regolazione di mercato.

 

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E richiede dunque che quest’ultima venga ristretta e disciplinata, sottraendole interi settori essenziali per la riproduzione della specie. Mentre le scuole libertarie, al contrario, vogliono estenderla al settore dell’istruzione, convergendo nel fronte neoliberista che punta a riorganizzare i sistemi scolastici secondo il vecchio motto «Defund! Deregulate! De-unionise!».

5. Infine, l’enfasi sulla pessima qualità dell’offerta formativa di questi progetti di pedagogia alternativa potrebbe essere utile anche a quei genitori che rischiano di restarne affascinati. Al punto da privare i loro figli di una esperienza formativa preziosissima. La scuola pubblica infatti, nella misura in cui affianca bambini di classe sociale, retroterra culturale e appartenenza religiosa diversa, è una grande palestra di convivenza democratica e di civiltà. Affianca e insegna a convivere da uguali nella diversità.

Le scuole alternative invece, a causa dell’omogeneità sociale e culturale che le caratterizza, producono inevitabilmente soggetti non predisposti al riconoscimento dell’altro. Perché sono scuole di classe, perfettamente compatibili, a differenza della scuola pubblica democratica e generalista, con i percorsi di canalizzazione precoce delle traiettorie di vita lungo le linee di divisione economica della stratificazione sociale capitalistica.

Inoltre presentano seri limiti dal punto di vista dell’inclusione non solo sociale. Si pensi anche solo ai problemi di accessibilità di un asilo nel bosco per le disabilità motorie. Taluni sostengono che potrebbe rappresentare però un ambiente favorevole per BES, DSA e ADHD. Possibile. Ma, come emerge dai siti di queste strutture, vi è il rischio elevato che tali problematiche vengano negate e rilette alla luce della teoria newage-cospirativa dei bambini indaco.

Danilo Casertano, figura di spicco del movimento degli asili del bosco in Italia, scrive che la caratteristica comune di questi bambini indaco è «la tendenza all’anarchia»: «Essi agiscono sfidando ogni regola comune, ma siamo così certi che la soluzione per educare un anarchico sia uno stato forte, una scuola seria, un sistema solido? Potrebbe essere che dietro l’anarchia ci sia un incontenibile anelito alla libertà?».

 

Insomma, oltre a negare le diagnosi e «adultizzare» il bambino, Casertano «infantilizza» l’anarchismo, riducendolo a un tratto psicologico soggettivo e innato. Con buona pace di Bakunin e Kropotkin.

 

Ma la cosa più urgente e importante in questo momento è impedire che queste scuole alternative — alcune delle quali stanno premendo per entrare a far parte del sistema integrato 0-6 definito dal Miur — abbiano accesso alle risorse pubbliche che, oggi più che mai, devono essere destinate e distribuite secondo criteri di equità e di democrazia sociale. Perché — proprio mentre le iscrizioni alle scuole libertarie o boschive crescono cavalcando l’onda dell’antivaccinismo — educatrici e educatori di nidi e scuole dell’infanzia stanno operando in condizioni di sotto-finanziamento strutturale e, nonostante l’elevatissimo rischio biologico a cui sono esposti, non vedono riconosciuto loro un adeguato grado di priorità nella campagna vaccinale.

 

 

Foto di copertina da WikiCommons