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CINEMA
Un Frankenstein convincente a metà
Il “Frankenstein” di G. Del Toro (2025), da novembre disponibile sulla piattaforma Netflix, non approfondisce troppo i motivi più avanzati dell’originario racconto, inserendosi senza sfigurare ma neppure innovare nella lunga serie di trasposizioni cinematografiche del soggetto
Il Frankenstein di Guillermo Del Toro è «liberamente ispirato» a quello di Mary Shelley, come recitano perentoriamente i titoli di coda, mentre l’IMDB assegna la paternità della sceneggiatura a Guillermo Del Toro e a… Mary Shelley stessa, come se i due avessero lavorato allo stesso tavolo, in una scrittura a quattro mani in cui la geniale autrice e il visionario regista avessero messo insieme i loro saperi e sensibilità in virtuosa sinergia. Diciamolo subito a scanso di equivoci: non necessariamente l’ispirazione «libera» è indice di impoverimento rispetto all’originale né, all’opposto, la ricerca dell’assoluta fedeltà nella rivisitazione di un classico è garanzia di successo.
Tuttavia, nel caso di questo (ennesimo, bisogna dirlo) Frankenstein, la “libertà” dell’ispirazione sembra ridursi al tentativo deliberato e poco felice di tralasciare volontariamente tutti i nuclei più forti, originali e rivoluzionari (non solo per la propria epoca) dell’archetipo letterario.
Numerosissimi sono gli adattamenti cinematografici più o meno riusciti che, fin dai primi decenni del cinema, hanno tentato la trasposizione di questo immenso classico, esplorato attraverso una molteplicità di approcci e di temi – sociologico, politico, psicologico, demenziale, drammatico o pornografico, solo per citarne alcuni in ordine sparso. Tra gli ‘X’, merita ricordare il tentativo di Paul Morrissey – Andy Warhol del ‘74). Domina la pletora di adattamenti il capolavoro di James Whale, con l’iconico Boris Karloff nei panni della creatura, uscito nello stesso annus mirabilis (1931) di M, Il mostro di Düsseldorf di Fritz Lang e del Dracula di Tod Browning, che replicherà pochi mesi dopo con un altro capolavoro dell’horror, Freaks, a chiudere il commento corale del mondo che inesorabilmente mutava – diventando mostruoso – dopo il crollo di Wall Street del ’29. Frankenstein sembrava adatto a evocare l’alterità inquietante e allo stesso tempo pienamente umana (per riprendere il coro dell’Antigone) in quegli anni di crisi del compromesso liberal-democratico, del socialismo e del riformismo con l’emersione dei fascismi, del sordido e inesorabile perfezionamento degli strumenti tecnici e delle idee politiche che preparavano i peggiori totalitarismi e il loro inevitabile sbocco sul conflitto mondiale.
Di questa complessità, il blockbuster di Del Toro (budget dichiarato di 120 milioni di dollari, prodotto da Netflix e presentato a Venezia con poi un’uscita teatrale limitata di circa tre settimane e solo in alcuni paesi, prima di esser reso disponibile sulla piattaforma dal 7 novembre) sembra smarrire quasi tutto. Restano sullo sfondo (ma veramente sullo sfondo) i temi della guerra (di Crimea, 1853-56) con i suoi orrori e della hybris che anima l’esplorazione geografica del XIX secolo, incarnata dall’equipaggio della nave intrappolata tra i ghiacci nella ricerca del passaggio a nord-ovest (felice l’ispirazione, per i paesaggi e le atmosfere, all’ottima S01 di The Terror a firma di Ted Simmons).
La scelta di posticipare l’ambientazione della vicenda di circa sei decenni rispetto all’originale è molto significativa. La grande umanità del Victor Frankenstein di Shelley è pienamente figlia dell’illuminismo e delle sue incertezze, la cui innocenza si perderà, certo, nei fiumi di sangue versati durante il Terrore, ma il cui sogno non si spegne affatto, lasciando l’immensa eredità rivoluzionaria nelle mani del movimento romantico (in cui Shelley partorisce il suo capolavoro), socialista e poi comunista ottocentesco. Del Toro vuole invece un Frankenstein senza alcun residuo di innocenza, pienamente insensibile al tema dell’emancipazione umana, ciecamente ripiegato sulla propria ambizione personale, capace di dialogare soltanto col potere finanziario, espressione di un capitalismo bellicista che decide di mettere al suo servizio risorse illimitate. Il personaggio si trasforma così dal travagliato filosofo-scienziato dell’originale in un “imprenditore-di-sé-stesso”, in una specie di onnisciente Steve Jobs che sa tutto e non dubita di niente e che mostra il proprio teatrino tecnologico all’ottuso corpo accademico (teatrino che peraltro, proprio come è accaduto più di una volta al vero Steve Jobs, funziona in modo piuttosto precario e incerto…).
Il film è un coacervo di ammiccamenti, potenzialmente ricchi ma quasi sempre incompiuti, interrotti, o neutralizzati sul nascere.
Quello al femminismo, innanzitutto: se è possibile, e anzi ormai largamente accettata, una lettura radicalmente femminista dell’originale di Shelley, qui il tutto si risolve con Elizabeth (Mia Goth) che da sorella adottiva e promessa sposa del dr. Frankenstein nell’originale diviene promessa di suo fratello, indipendente nei giudizi e spregiudicata nelle maniere (un po’ pochino, potremmo dire). Questo timido tentativo scade nella scontata tenerezza “femminile” verso la creatura, che ricorda piuttosto (e un po’ incomprensibilmente) la bella e la bestia.
Le motivazioni di Victor Frankenstein, implicite e mai univoche nell’originale, vengono squadernate in questo adattamento, riducendole in ultima istanza al conflitto padre-figlio (di nuovo, un po’ pochino), con l’aggravante della redenzione e del perdono finale. Si potrebbe tentare una lettura un po’ più complessa del tema della paternità (ben presente anche nell’originale), concentrando lo sguardo sul tema dell’apprendimento e dell’intelligenza della creatura. Questa non è un essere artificiale né un androide (benché visivamente abbia proprio questo aspetto) ma apprende in modo autonomo, spontaneo, il ché apre a una riflessione potenzialmente interessante, per questo soggetto ottocentesco, in epoca di intelligenza artificiale. Ma anche su questo punto il film ha un po’ il fiato corto. Complice anche il colpevole abbandono dell’altra componente miracolosa della creatura, cioè quella corporea: in modo del tutto incomprensibile, questo corpo diventa indistruttibile perché dotato di misteriose virtù rigenerative e auto-guaritive, dunque immune da proiettili, fuoco, dinamite, affilati denti lupini: il cilindro da cui Del Toro estrae trucchi e soluzioni è davvero senza fondo…
Un’ultima nota sulle atmosfere, a cui Del Toro presta molta attenzione, ma per le quali le citazioni, eterogenee e confuse, diventano di nuovo predominanti: The Lord of the Rings incontra Zelda per gli esterni, la natura selvaggia e i suoi colori, mentre Hugo Cabret incontra Poor Things per gli interni, osando però meno di quest’ultimo sui grandangoli e la deformazione, tanto psicologica quanto fisica, degli spazi. Infine, nonostante la meritoria avversione del regista per il digitale, sbandierata ai quattro venti, neanche lui è riuscito a evitarla del tutto, con l’uso di alcune CGI che, come sempre, colpiscono come un pugno nell’occhio (lasciamo allo spettatore o alla spettatrice il compito, non troppo arduo, di individuarle). Il risultato finale complessivo è deludente, ma ha almeno il merito di rivelare, ancora una volta, l’inesauribile ricchezza del soggetto letterario.
La copertina è tratta dal trailer in fairuse
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