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CINEMA

“Ultras” di Francesco Lettieri: la curva, Napoli e il confronto fra generazioni

Su Netflix arriva il primo lungometraggio del regista napoletano, già autore di numerosi videoclip musicali fra Calcutta e Liberato. Un tentativo di raccontare l’ambiente della tifoserie calcistiche e i suoi valori.

«Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri». La nota e forse abusata diagnosi gramsciana torna comoda non solo per descrivere la crisi sistemica in cui siamo immersi ma anche per guardare a Ultras, opera prima di Francesco Lettieri, distribuita direttamente su Netflix (i pochi giorni previsti per la distribuzione in sala sono naturalmente saltati). Il vecchio mondo è quello del nucleo storico di un gruppo ultras del Napoli, gli Apache, e in particolare del loro leader, il Mohicano (un impeccabile Aniello Arena), tutti diffidati e perciò impossibilitati a frequentare lo stadio. Il loro spezzone della curva è quindi in mano al nuovo mondo, quello dei giovani, in particolare i leader Pechegno e Gabbiano, che scalpitano, tutti “bombe” (grossi petardi), coca, e confronto violento con le tifoserie avversarie. E poi c’è l’ultima generazione, un gruppetto di adolescenti vogliosi di farsi vedere, tra cui spicca Angelo, fratello di un ultras morto – aleggia naturalmente il ricordo di Ciro Esposito, ucciso da un neofascista romano fuori dallo stadio Olimpico nel 2014.

Un film sul passaggio di testimone tra vecchia e nuova guardia, che segue e ricalca una delle dinamiche strutturali del movimento ultras, la necessità del ricambio generazionale e le difficoltà della trasmissione dei ‘valori’ da una generazione più vecchia a una più giovane. Nato tra la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta, il movimento ultras in Italia ha dovuto affrontare più volte le tante problematicità legate al cambiamento generazionale. Una prima volta tra la seconda metà degli anni Ottanta e i primi anni Novanta quando i richiami all’«Essere ultras, esserlo nella mente» e al «Basta lame, basta infami» segnano dei momenti significativi di richiamo ai valori costitutivi dell’ultras durante il primo significativo cambiamento tra i gradoni delle curve italiane. Rappresentando insieme le ultime tre generazioni di ultras italiani Lettieri ci permette di ragionare su come, generazione dopo generazione, l’ultras sia andato sempre più identificandosi nel gruppo di appartenenza, perdendo in parte l’identificazione con la squadra tifata e totalizzando invece il rapporto del singolo con il gruppo. Un processo lungo che è andato di pari passo con l’affermarsi, all’interno del movimento, dell’idea che si debba “vivere ultras” e non soltanto esserlo la domenica (Lega calcio permettendo). Lettieri richiama le lotte che hanno caratterizzato gli ultimi due decenni del movimento ultras contro il calcio moderno e la sua commercializzazione attraverso le immagini degli Apache che, non potendo andare allo stadio, si rifiutano di accendere una tv e pagare un abbonamento per vedere la loro squadra e preferiscono sentire la partita alla radio.

Rimane però fuori dal film l’escalation di provvedimenti restrittivi che hanno di volta in volta vietato le trasferte, richiesto schedature per l’acquisto dei biglietti e obbligato le curve che volevano esporre gli striscioni a chiedere un’autorizzazione preventiva alla questura. Di questo il film non parla, se non con riferimenti indiretti e sentiti dire. Non si tratta di un elemento da poco se l’obiettivo è comprendere il meccanismo del passaggio generazionale nel movimento ultras.

Le condizioni nelle quali si trovano a essere ultras le nuove generazioni sono quasi completamente diverse da quelle in cui si trovavano le generazioni precedenti e le strategie utilizzate per ‘fare movimento’ non possono sempre essere comparate.

In questo senso il film non riesce a esprimere la complessità dell’ultimo passaggio generazionale; la necessità di fare la trasferta vietata di Roma per i No Name Naples non è tanto volontà di andare contro l’ordine costituito quanto necessità di esistere, da ultras. Questo Mohicano sembra capirlo quando in una scena in cui discute con l’amico di una vita Barabba e sembra allontanarsi per lasciare spazio al modo di essere ultras dei giovani. Ma è un momento soltanto. Come nella maggior parte dei film e dei documentari che analizzano il movimento ultras anche nel film di Lettieri la rappresentazione (parziale) degli ultras come violenti sembra dominare la lettura del fenomeno tagliando fuori dalla pellicola tutta una parte di vita ultras che, nelle diverse realtà locali, è connessa ad attività di aiuto e sostegno alle comunità nelle quali vivono. Siamo lontani da opere come Ultrà di Ricky Tognazzi, che nonostante sia del 1991 è ormai un piccolo cult, o anche E.A.M. – Estranei alla massa sui Fedayn del Napoli (Vincenzo Marra, 2001), sicuramente un’ispirazione per Lettieri.

Sicuramente il film rende molto bene il milieu culturale in cui sono immersi i protagonisti della storia, il bar di quartiere, gli appartamenti un po’ bui, il sottoproletariato, la palestra dove lavora Mohicano, pezzi di Napoli raccontati ma mai nominati. Netflix ha investito e lo inserito in un catalogo mondiale perché si tratta di tematiche che è ormai provato funzionano anche fuori dall’Italia (da ultimo La paranza dei bambini di Claudio Giovannesi è stato distribuito anche in sala negli Stati Uniti).

A differenza del film di Giovannesi, o anche di Gomorra (serie e film), Lettieri lavora su due livelli per quanto riguarda il rapporto con la città: le zone della città e i quartieri sono dati per scontati, identificabili quindi soltanto per un pubblico famigliare con Napoli, non nominati e non problematizzati.

Esistono semplicemente, così un pubblico esterno si trova immerso in una storia universale di tifo, violenza, avvicendamenti generazionali, mentre un osservatore interno può riconoscere la costa ovest di Napoli e le stufe di Nerone, «l’area flegrea, tra Baia, Bacoli e Pozzuoli, provando anche a connettere i luoghi dei miti greco-romani alla contemporaneità metropolitana», come ha dichiarato lo stesso regista. Un lavoro interessante e che permette a Lettieri e il suo sceneggiatore Peppe Fiore di parlare a pubblici diversi attraverso un prodotto mainstream, ma che ha inevitabilmente in questo modo lasciato molto insoddisfatto chi la curva la vive e si sente ultras. E poi naturalmente c’è l’estetica di Lettieri, costruita su più di sessanta videoclip, tra gli altri quelli di Calcutta ma soprattutto Liberato, autore delle musiche anche in questo film. Eccezionale il lavoro fatto con il cantante nella serie di videoclip Capri Rendez-Vous, praticamente un cortometraggio spalmato su cinque canzoni, i cui echi si sentono anche in Ultras. Un’estetica fatta di patchwork, di usi e riusi, con immagini che strizzano gli occhi agli anni ottanta e una macchina da presa che si muove educatamente, molto pulita e formale (eccezionali le riprese frontali del vecchio edificio fascista che ospita la questura), che si libera un po’ nelle scene dello stadio. Si sente la libertà e il peso dei videoclip, quando la musica parte (spesso) l’atmosfera è di nuovo quella di un video di Liberato.

Soltanto alla fine, quando il più vecchio viene ucciso salvando il più giovane, tutti si ricompattano, tutti gli Apache tornano a muoversi come un corpo solo: rimangono i martiri, rimangono i morti uccisi dalle forze dell’ordine mentre le bandiere e i cori, come già avvenuto per il matrimonio a inizio del film, escono ancora una volta dai gradoni e dai muretti della curva quasi a ricordare che non si può essere ultras un solo giorno alla settimana.