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Torino Film Festival 4/ Cinema Jazireh di Gözde Kural
Gözde Kural torna in Afghanistan per raccontare un paese dove il travestimento diventa l’unica forma possibile di esistenza sotto il regime talebano e dove la violenza si intreccia a spazi nascosti di resistenza, rivelando anche le contraddizioni della Turchia contemporanea
È piuttosto normale, e in parte comprensibile, che alcuni paesi, conflitti o situazioni geopolitiche siano cinematograficamente sovra-esposti in certi periodi, mentre in altri tendano a farsi meno presenti, quasi a svanire. L’Afghanistan è uno di questi paesi. Molto presente nel ventennio dell’operazione “Enduring Freedom”, quando le bombe più potenti del mondo, sganciate dall’esercito più forte del mondo, distruggevano il paese più povero del mondo, e poi un po’ scomparso dal grande schermo, con il ritorno dei Talebani al potere in seguito al ritiro dell’U.S. Army nel 2021.
È una regista turca, Gözde Kural, a filmare nuovamente, in modo magistrale, i colori, i silenzi e le atmosfere dell’Afghanistan sotto il tallone di ferro del regime talebano. Kural è già autrice di Dust (2016), un altro bellissimo lungometraggio su questo paese, per il quale dichiara di avere una vera e propria “ossessione”. Torna oggi con Cinema Jazireh, presentato prima in concorso a Karlovy Vary e poi al Torino Film Festival, con una storia in cui niente sembra quello che è, e dove la maschera appare per i meno forti come l’unico modo, provvisorio e precario, di non farsi calpestare.
Un film di animazione di grande successo, The Breadwinner di Nora Twomey (2017), aveva già esplorato il tema del travestimento come strategia di sopravvivenza di una ragazza afghana che si traveste da uomo per cavarsela nel quotidiano, sotto un regime in cui le donne non hanno neanche il diritto di uscire di casa da sole senza essere maltrattate, insultate, punite anche severamente, esposte all’arbitrio degli auto-proclamati difensori della virtù, naturalmente nel nome di dio onnipotente (e di chi altri…).
Esplorando la medesima idea, Kural segue qui il coraggioso tentativo di una giovane madre di ritrovare il proprio figlio, scomparso in seguito all’ennesima azione violenta degli “studenti” delle madrasse, in cui è rimasta coinvolta la sua famiglia. Leila (Fereshte Hosseini) è costretta così a farsi “uomo”, perché – come afferma nel film uno dei pochi personaggi che provano per lei empatia – in un paese così, più lunga e folta è la barba, segno di devozione, più la propria presenza è legittimata nello spazio pubblico.
È un suggerimento interessante, perché questa superficiale estetizzazione della virtù non è propria soltanto dell’“arretrato” Afghanistan, ma diffusa e palesata anche nelle nostre società: Kural pensa innanzittuto alla sua Turchia, ma l’osservazione vale anche per i paesi europei e occidentali, e non solo per l’Islam, come conferma l’ottusa battaglia dei simboli religiosi. A essi si oppone maldestramente il laicismo alla francese in chiave apertamente anti-mussulmana e, del pari, a essi si richiama il fascio-cristianesimo trumpiano (cfr. il Segretario di Stato Marc Rubio in TV con la croce di Cristo stampata in fronte per il mercoledì delle ceneri): in hoc signo vinces!
Il mascheramento, in Afghanistan, è tradizionalmente sinonimo di scomparsa, cancellazione, offuscamento della donna, sotto l’inconfondibile burqa azzurro che è ormai diventato così familiare, anche grazie al cinema, nell’immaginario occidentale. In questo film, ci si maschera invece per potersi mostrare, per passare inosservati e poter così, al tempo stesso, esistere senza essere aggrediti, muoversi per strada o chiedere informazioni, ma anche ballare o ascoltare musica.
Inaspettatamente, il film si immerge così in una realtà sotterranea, insospettata e sorprendente, in cui è ora l’uomo a divenire donna, per ritrovare un po’ di umanità. Tuttavia, poiché niente è come sembra, anche in questo mondo parallelo, che ha il titolo del film, gli oppressi divengono oppressori, in una catena che lega tra loro i più forti ai più deboli, scambiando continuamente i ruoli. È proprio qui che Leila spera di ritrovare il figlio e dove invece scoprirà chi, come lei, si maschera per vivere sognando di un mondo diverso, al riparo dalla violenza eppure riproducendola a sua volta. Cinema Jazireh è un ritratto intenso, dove la speranza non muore mai ma il terrore è sempre in agguato.
Ed è interessante che l’ossessione della turca Gözde Kural porti a riflettere non solo sull’Afghanistan, ma anche sul proprio paese dove, sotto una maschera di modernità, sopravvivono irrisolte molte delle questioni sollevate nel film, come il controllo sociale, la corruzione politica, l’assenza di libertà, la violenza del regime, il peso asfissiante della religione. Uno dei più significativi “riconoscimenti” che, paradossalmente, questo lavoro poteva ottenere viene proprio dalla Turchia: inizialmente sostenitore del progetto, il Ministero della Cultura turco, scandalizzato, ha ritirato il proprio sostegno alla pellicola dopo averla visionata: in fin dei conti, un film come questo fa cadere molte maschere.
Nell’immagine di copertina un fotogramma del film
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