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Torino Film Festival 2/ Magellan di Lav Diaz

Con “Magellan”, Lav Diaz smonta l’epica delle grandi scoperte e restituisce la voce ai popoli colonizzati, rivelando l’ossessione europea per dominio e conversione

Presentato in Italia a novembre, al Torino Film Festival, dopo una prima partecipazione alla Cannes Première Selection in maggio e un ancor più significativo debutto nelle Filippine in settembre, il film di Lav Diaz è la drammatica cronaca dell’ascesa e caduta dell’esploratore portoghese Ferdinando Magellano, che per primo ha aperto la via alla navigazione verso il Pacifico, doppiando il Cabo de Hornos, nei primi anni ‘20 del XVI secolo.

Regista e sceneggiatore filippino, Diaz ha lavorato per oltre due decenni sui temi della storia, della memoria e del loro intreccio con il sanguinoso presente del suo paese. Da tempo – dichiara – intendeva realizzare un racconto sulle grandi esplorazioni del passato e sulla presenza – e la resistenza – delle popolazioni filippine in questa storia. La figura di Magellano, vero e proprio incunabolo della sanguinosa storia del colonialismo europeo, si prestava perfettamente a questa impresa.

Ben interpretato dall’enigmatico Gael García Bernal, Magellano compie l’intera parabola che lo porta dall’iniziale idealismo e sete di avventura allo sfrenato delirio di conquista e di sottomissione dei nativi.

Il movente economico è praticamente assente nella vicenda. Non si parla né si sogna di inesauribili miniere d’oro o del mitico paese di Cuccagna. Tutto è molto circoscritto, limitato, quasi modesto. I conquistatori scoprono piccoli villaggi sulla costa, abitati da innocui e pacifici nativi, con cui la comunicazione è a malapena possibile. La religione ci mette lo zampino col tentativo monoteista di soppiantare i culti locali. Rappresentato in tutta la sua dimensione superstiziosa, il cristianesimo sembra avere la meglio per un attimo, prima che si scateni l’inevitabile rivolta, a causa della sua pretesa di unicità e la sua ossessione di superiorità, difficile da far digerire anche ai più pacifici “selvaggi” E tuttavia l’imposizione si farà: le Filippine sono oggi il paese più cattolico in tutta l’Asia e il culto del “Santo Niño”, alla cui introduzione proprio da parte di Magellano assistiamo nel film, è ancora ampiamente diffuso.

Il tono complessivo è sobrio, con colori e luce naturali che ricordano le atmosfere tropicali di Aguirre, furore di Dio, con una camera molto statica e riprese in stile documentaristico, per uno sguardo talvolta etnografico (penso alla Colchide nella Medea di Pasolini) e una felice ossessione per i dettagli, magistralmente curati sia nelle scene terrestri che in quelle di navigazione. La pioggia, il vento, la vegetazione “parlano” tanto quanto gli umani, che faticano a capirsi tra di loro e con se stessi: che cosa fa perdere a Manuel I, re del Portogallo, l’occasione di servirsi delle conoscenze e del coraggio di Magellano, che si farà finanziare dagli Spagnoli con l’appoggio dei lungimiranti banchieri Fugger? Che cosa impedisce a Magellano stesso, dopo l’epocale exploit nautico, di approfittare della benevolente accoglienza e del relativo successo inizialmente ottenuto con i capi locali? Non i nativi ma gli europei, nella loro sorda monomania, sembrano i veri selvaggi, Magellano incluso, per cui il film non mostra alcuna simpatia.

Insieme a Bernal nei panni del protagonista, il film lascia spazio ad attori non-professionisti che, spiega il regista, danno spesso luogo a qualcosa di inatteso, a una vitalità e spontaneità emotiva che arricchisce l’intero processo cinematografico.

Diaz spiega di prediligere l’”irripetibile” per come si mostra nella sua nudità, di fronte alla camera. Per questo afferma di realizzare, per principio, soltanto una singola ripresa per ogni scena, senza effettuare ripetizioni, senza una seconda chance: gli attori danno tutto, in uno sforzo unico e irripetibile. Da questa unica ripresa piena di tensione emotiva, spiega Diaz, esce quasi sempre qualcosa di buono.

Questa impostazione di metodo mi sembra una ricchissima metafora, particolarmente adatta proprio al film storico, perché della storia coglie appunto il ritmo unico, irripetibile, in un certo senso eracliteo: non c’è spazio per ripetizioni o pentimenti, tutto si fa una sola volta nel grande fiume degli eventi.

Nell’immagine di copertina un fotogramma del film

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