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Tor Marancia Blues

Quinto Gambi era un proletario della borgata romana di Tor Marancia.. Una volta al Piper incontrò Tomás Milian che gli disse: «uguali!». Diventò così l’ispiratore e la controfigura de Er Monnezza. Attraverso la sua storia, un viaggio tra una Roma che non c’è più e il cinema stracult.

A marzo se n’è andato Tomás Milian, a ottobre Umberto Lenzi, regista di tanti suoi film e ora, neppure dieci giorni fa, è toccata a Quinto la sorte d’aggiornare l’elenco dei coccodrilli d’un 2017 non certo avaro di perdite. Non era un nome notissimo il suo ma, forse, senza di lui una buona pagina del cinema popolare e stracult degli anni ‘70 non ci sarebbe stata.

 

Trailer

Quinto all’anagrafe faceva Gambi ma nel suo quartiere, dai tempi della “fanga smossa” della Shangai di Tor Marancia dove era nato nel ’39 e dove ha vissuto fino ai suoi ultimi giorni passati all’ombra della street art di via Annio Felice, era meglio conosciuto come er Patata. Un nome di battaglia, il suo, ereditato dal mestiere del nonno e dal padre Italo, partigiano di Bandiera Rossa.

Tutto il resto nella sua biografia di stuntman spericolato o di calciatore ruzzicoso pieno d’arte e veleno, comparsa a Cinecittà e controfigura der Monnezza o pesciarolo col banco ai Mercati Generali, comunque idolo riconosciuto di generazioni di pischelli della borgata, tutto il resto insomma se l’era costruito da solo.

E quasi senza muovere mai un passo dai lotti di casa sua: «Ogni tanto mi proponevano di andare a girare pure in Spagna» – diceva dalla sua postazione fissa al bar di Checchina – «ma io non partivo mai, non c’avevo il passaporto e per me dopo Frascati era già estero». Tor Marancia era il suo mondo e nelle storie di quel territorio, pezzo di città stretto tra un ex campo di calcio ormai ridotto a parcheggio e un vialone che dalla Colombo muore sul verde precario d’una resistente campagna romana, Quinto ha finito per interpretare un ruolo tutto suo e da protagonista.

Squadra Antiscippo, 1976 (Milian nella parte di Nico Giraldi e Quinto Gambi scippatore).

 

Nella buca di Shangai

Le prime case della borgata, di mattoni alcune, di carta e sputi tutte le altre, erano a guerra finita la degna “faccia abissina” della via dell’Impero come era, ancora allora, chiamata quell’autostrada urbana che dalle mura, svoltata la marrana dell’Acquataccia, mirava dritta sul Colosseo quadrato dell’E42. Il regime fascista quelle catapecchie “da sette lire” le aveva riservate nel ’32 agli sfollati del centro storico. Poi era toccata agli indesiderati e ai ribelli. Le baracche autarchiche dovevano durare solo pochi mesi. A guerra finita moltiplicate per cento stavano ancora lì, palafitte infangate agli allagamenti di stagione, dentro uno sprofondo che tutti, appunto, chiamavano Shangai.

Sibilla Aleramo si trovò ad incrociare i suoi passi su questo posto nei primi mesi del dopoguerra e lo trovò «nome amarognolo, aspro a ritenere, pieno di costruzioni rappezzate di latta, piccola conca al limite dell’Agro […] Tormarancio borgata di Roma. Piaghe e croste sui corpi di bimbi quasi nudi, sui volti di donne denutrite, giallastre, dallo sguardo accusatore. Solo qualche fanciulletta par che si salvi e perfino sorride e perfino è bella. Forse non è tra le molte che vanno a notte nel vicino accampamento ove le truppe negre dan loro soldi, soldi e sigarette e lue […] Qui gli uomini fan lega, ordiscono rapine, finanche in grande stile. Una banda detta dei ventisei s’è mesi or sono coperta di gloria ma per il momento è tutta in carcere…».

A Moravia, inviato nel 47 de “L’Europeo”, il posto ricordava Buchenwald: «d’istinto il visitatore, appena sceso dalla camionetta, cerca con gli occhi i recinti di filo spinato e le torri con le sentinelle armate… Tormarancio è un grosso aggregato di padiglioni estremamente bassi di colore rossiccio… Piuttosto che di strade bisognerebbe parlare di spazi terrosi, pieni di scondiscimenti e di buche, sparsi di detriti e di pozze… Non ci sono cloache e due scavi in cemento corrono lungo i padiglioni con acque sporche che emanano un fetore agro… Oltre la tubercolosi e i vari mali dell’umidità Tormarancio è anche afflitta dalla malaria. Tormarancio è una fossa di zanzare…».

Ugo Zatterin, ex partigiano dei Cristiano Sociali, formazione esterna al Cln e alleata dei comunisti eretici di Bandiera Rossa, così scriveva sull’Avanti: «vista dall’alto la borgata ha l’aspetto d’una fabbrica di munizioni… dal basso è altra cosa… tutto si colora di fango, tutto odora di fango, in un tono grigio che il sole non riesce ad arrossare… politicamente molto ci sarebbe da dire circa gli abitanti di Tor Marancia. Essi vengono definiti dalle élite liberali ‘la feccia’ cioè quelli che non posseggono freni inibitori e, una volta mossi, non si fermano che morti o trionfatori. Sono l’ala sinistra della sinistra proletaria…».

Di fascisti a Tor Marancia, durante il ventennio, non se ne videro molti e d’altra parte, Mussolini stesso non vi mise mai piede.

Al massimo gli capitò di vedere tutto da lontano quando, in visita ai cantieri dell’E 42, all’altezza dell’ex Fiera di Roma, si trovò sul tracciato dell’attuale Colombo e l’occhio fatalmente prese a sfarfallare verso il fondovalle. «Cosa sono quei baraccamenti?» –sembra chiedesse l’attento duce dell’impero. «Fornaci» fu la risposta del gerarca di turno esperto nell’arte piccolo borghese di gonfiare il petto e nascondere gli stracci.

Borgata confino durante il periodo bellico e soprattutto dopo l’8 settembre, Tor Marancia divenne così naturale rifugio di ogni forma di resistenza. Nonostante la fame, a sfida d’ogni bando delle autorità, nessun uomo di queste parti andò a lavorare volontario in Germania o prese la divisa della Rsi. Furono invece molti gli aderenti alla banda di Bandiera Rossa messa su da Filippo De Cupis detto er Marsaletta, «padiglione 53 camera 245 elettricista anarchico e schedato… sovversivo nel periodo rosso, ardito del popolo…».

Inchiesta di Alberto Moravia, su l’Europeo 1947

Pippo de Cupis, Italo Gambi, il Gobbo e tutti gli altri

Oltre settanta i partigiani di Bandiera Rossa di Tor Marancia e, nella leggenda del posto, trova spazio anche la figura di Giuseppe Albano, meglio noto come il Gobbo del Quarticciolo. «Il Gobbo» – racconta Giorgio intervistato in una tesi su Garbatella – «stava pe’ la fidanzata al Quarticciolo ma pure a Tormarancio… era un personaggio di rapine di mitra e fece la guerra ai tedeschi… nella buca di Shangai nun entrava nessuno e i carabinieri l’accerchiavano solo dal di fuori coi camion…».  L’accerchiamento qui citato è del dicembre del 1944.

Roma è stata liberata da oltre sei mesi e la guerra continua oltre la linea gotica. Nella capitale però c’è chi, per fame o per rabbia, per istinto randagio o ferma coscienza rivoluzionaria, le armi non le riconsegna.

Il Gobbo è uno di questi e i quartieri della periferia, da lui frequentati, sono polveriere. La cronaca di quei giorni è piena dei rastrellamenti operati con estrema brutalità dalle forze dell’ordine. «Come ai tempi dei nazisti» – commentano i giornali di sinistra e la stessa “Unità” riguardo le operazioni armate condotte a Pietralata, Gordiani, Quarticciolo.

Quello messo in atto contro la gente di Tor Marancia è ancora ricordato da chi si trovò a subirlo in una fredda alba della vigilia di Natale del ’44. «All’epoca c’avevo quattordici anni» –mi dice Margherita memoria sveglia e delicatamente ironica d’una famiglia tormarancina della prima ora- «e abitavamo in otto dentro una stanza al terzo padiglione. Stavamo larghi. Di Bandiera Rossa non so niente ma qui era pieno di comunisti. Il più sfegatato era Italo Gambi detto er Patata per via che c’aveva er carretto e vendeva le patate. I carabinieri comunque quella volta arrivarono che era ancora notte. Bussarono e ci fecero uscire tutti prima di perquisire la casa. Cercavano armi e pure da noi, benché non facevamo parte della malavita, qualcosa c’era. Mio fratello Lillo, che qualche tempo prima era finito al correzionale di Porta Portese per ave’ rubato uno sgommarello di riso al negozio de Maurizi, teneva nascoste una bomba a mano, una pistola e una baionetta. L’aveva trovate in mezzo ai campi ma mia madre un altro po’ sveniva. Comunque, come ho detto, ci fecero tutti uscire allo scoperto e ancora mi ricordo la gente ammassata mentre tutt’attorno ci circondavano i carabinieri. Noi sotto sembravamo gli indiani e quelli sopra i soldati dei film americani. Non lo so se cercavano il Gobbo o che. Io, il Gobbo, non l’ho mai visto ma di sicuro qui lui c’è stato. Era troppo portato dal giro dei banditi. Di sicuro si vedeva con Marcello Ciccio er Bavoso, con Carlo er Cachinara o con Sergiolone. Tutti questi, anche dopo la morte, ne parlavano benissimo. Che dire? Erano banditi ma qui si comportavano bene. E dentro il quartiere c’era rispetto. È un po’ una tradizione che è durata fino a Sergio Maccarelli, che è stato il mejo di tutti. Ammazzato lui è arrivata la droga ed è finita. Ma ai tempi del Gobbo, di Ciccio er Bavoso o di altri fino a Sergio er Pugile, c’era rispetto».

Articolo de L’Unità, sui rastrellamenti a Tor Marancia.

Guardie e duri, cinema e cazzotti

Nelle cronache del dopoguerra la Roma dura delle periferie, quella che nessuno – e per primi gli abitanti delle borgate – chiama Roma, è narrazione cruda, vita agra, nuda vita per “svoltare” la giornata, scontri con la celere e assalti alle caserme, fuochi improvvisi e rappresaglie armate. L’attesa per Baffone a Tor Marancia è una baraccopoli da cancellare, una casa da occupare, un’occasione di rivolta da non mandare sprecata. All’attentato a Togliatti un corteo plebeo e feroce svuota Shangai, attraversa Garbatella e a piedi o con altri mezzi, «su camion sgangherati» – scrive Francesco Jovine su “L’Unità” – «su camion da pozzolana e pietre, con i parafanghi tremanti e le gomme rosicchiate» muove a vendicare il segretario. Tempo dopo è un’incursione di guardie in una trattoria per arrestare un latitante a provocare una sommossa di donne al mercato e molte di loro finiranno alle Mantellate. Alle alluvioni, alle marane ingrossate dai fossi, agli smottamenti o ad altre disgrazie di natura che non mancano mai, è pure dato di risolverla con una bestemmia o, all’opposto, confidare in un miserere di devozione. Con le guardie invece tutto viene meglio a brutto muso.

L’intervento dei comunisti sul quartiere, in quegli anni e molti a venire, è comunque un misto di orgoglio e redenzione, missione pedagogica a placare il ribellismo sottoproletario e spinta fomentata da citare come minaccia nelle occasioni più diverse.

«Portatelo a Tor Marancia» –strilla in aula il deputato Palermo, interrompendo più volte il primo ministro Alcide De Gasperi che parla dell’arrivo del generale Eisenhower «presto ospite gradito dell’Urbe». E nei lotti, tirati su dal piano Fanfani ma inaugurati con le bandiere rosse da Sereni e D’Onofrio, quello era un comunismo più di strada che di sezione, più da ultrà romanista che da militante fedele alla linea.

«Insomma» – raccontava Quinto ­– «la situazione dove so’ cresciuto era quella. I lotti non c’avevano i numeri ma si chiamavano, e per me se chiamano ancora, pe’ nome: Tormarancio uno e due, San Quintino, Cinque de Coppe, Sottomassimo. E lì all’aria aperta, visto che dentro casa eravamo una pipinara, ce se passava un sacco de tempo e  se cresceva ‘n’attimo. A scuola no. Me so seduto al banco fino alla terza elementare, poi basta. Io ero er Patata ma pure tutti i miei amici avevano il nome loro: Piedone, Baconchio, er Barone, Maligno, Pantera, Fischio, Er Mentina per via dell’alito cattivo e Alicione secco allampanato. Altra storia era al campo con la squadra del quartiere. Finire un campionato senza risse e un’espulsione a vita, o senza che la società non fosse radiata da tutti i campionati era praticamente impossibile. Poi c’è da di’ che io già a tredici anni lavoravo al banco der pesce ai Mercati Generali. Ma la cosa che più m’ha salvato è stato er cinema».

Articolo del settimanale La Folla (1948)

Nascita, ascesa e fine der Monnezza

I film di Lenzi, con le storie del Trucido e del Gobbo, e quelli successivi di Nico Giraldi, a Quinto segneranno tutti gli anni ‘70. L’incontro decisivo per lui è però quello con Tomás Milian. «Sarà stato verso il ’66» – precisava a domanda – «e come succedeva spesso andavo al Piper. Con Barbozzone, Zuccone, insomma chi ce stava. Mica c’andavano solo i pariolini o i figli de papà! E insomma, niente, stavo lì tutto preso a cerca’ de rimorchia’ una quando me sento chiama’. È Tomás che, da lontano me guarda, me chiama e poi me fa’: uguali!». Di comparse o ruoli da cascatore Quinto, ne aveva messi insieme un po’. Soprattutto nei western di Cinecittà aveva ormai un suo nome. Ma è da allora che diventa pure l’ispiratore d’un personaggio che in qualche modo segna la storia d’un pezzo del cinema italiano di quegli anni.

Dardano Sacchetti, sceneggiatore di lungo corso, l’ha sempre confermato: «Beh nella invenzione del Monnezza uno come Quinto c’ha la sua parte.

Io vengo dal ’68, da quegli anni straordinari, e entro nel mio mestiere con Il gatto a nove code di Dario Argento. Poi con Argento è subito rottura e va come va. Anni dopo avremo modo di rivederci ma lì per lì il suo fu uno sgarbo per niente gradevole e ci finimmo pure sui giornali. A me però va comunque bene perché poi incontro Mario Bava e soprattutto in seguito Umberto Lenzi. In quel momento un genere che aveva preso piede era appunto il cosiddetto poliziottesco, tipo Roma violenta o Italia a mano armata, con Maurizio Merli a impersonare la figura del commissario duro e fascista, sbirro elegante ma un po’ stronzo, che alla fine sistema sempre i cattivi e ti ci appiccica sopra l’appello a leggi straordinarie con annessa rivendicazione del diritto a farsi giustizia da sé. Sta cosa mi stava sulle palle e così mi sale l’idea di farla saltare».

Quinto Gambi

All’epoca dei fatti quasi impossibile tenersi al riparo da quanto accadeva nelle fabbriche e nelle piazze. E pure nelle sale cinematografiche le guardie avevano i loro problemi. «La molla» –riprende lo scrittore– «mi scatta alla prima di Roma a mano armata. Lì c’è Merli, il commissario Tanzi, che all’ultima scena ammazza il Gobbo. Un classico. Solo che questa volta il pubblico non ci sta, rumoreggia, qualcuno s’incazza e dalle file in fondo partono tutte voci contro il poliziotto. Insomma s’inneggia al malavitoso. Questo fu l’inizio. Poi per il nome mi venne incontro un film come Trash messo assieme al ricordo d’un omone, personaggio del servizio d’ordine di Botteghe Oscure, che lavorava alla nettezza urbana. La faccia giusta c’era già ed era quella di Milian nella parte di un Cuchillo smagato e borgataro. Insomma risuscitai il Gobbo, senza togliergli nulla della sua sgradevolezza sottoproletaria, lo raddoppiai nella figura del fratello Sergio Marazzi detto appunto er Monnezza, e per Merli e quelli come lui fu la fine. E in tutto questo un merito a sé ce l’ha Quinto. Per me e soprattutto per Tomás è stato una fonte inesauribile di spunti, gag, modi di dire e di vestire, idee e mosse. Non l’ho mai scordato, tant’è che di lui c’ho avuto bisogno pure l’ultima volta quando ho messo mano a un film-tv sulla figura di Sergio Maccarelli, il pugile di Tor Marancia ucciso al bar sottocasa, nella Roma dei primi anni ‘70. Roma nuda il titolo della serie girata da Giuseppe Ferrara e interpretata, oltre che da Milian, da Anna Falchi ed Eva Henger, Califano e Francesco Venditti. Una parte l’ho riservata pure a Quinto, ma me sa che non l’ha vista nessuno. Sto film, chiuso e montato, è rimasto praticamente inedito».

Titoli di coda

Il giorno dei suoi funerali sul muro davanti al bar, lì dove stacca un murale che lo ritrae alto due metri, c’era uno striscione di saluto: Quinto a Tor Marancia, secondo a nessuno! E così nei racconti, fuori la chiesa del quartiere o davanti una scritta che parla ancora di Shangai, ognuno aveva da citare le sue battute e i suoi sprazzi da bordo ring: «A Tomás gl’ho insegnato tutto» – il suo pezzo preferito – «Lui non sapeva niente: esempio come si mangia un piatto di pasta aglio, ojo e peperoncino, cioè con gli occhi spalancati dalla fame vera. O come si sputa lontano ma senza la rincorsa. O come si fa a botte. Lui non sapeva niente. Nemmeno come ce se soffia il naso con le dita. Insomma c’è poco da discute. Tomás, a furia de dritte, piano piano era diventato me… Ma puro io ero diventato lui!».

 

La foto in copertina ritrae Quinto Gambi, alcuni mesi prima della scomparsa. È stata scattata dal fotografo Roberto Giancaterina.