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Tolo Tolo, Zalone sfida la pancia del paese

Tolo Tolo è innanzitutto un film politico che ha scelto di affrontare il tema del momento, su grande scala e puntando a polarizzare le reazioni. Usando linguaggio e stereotipi dell’«italiano medio», Zalone è andato a colpire nei luoghi in cui la pancia del paese coltiva bruciori e gastriti a forza di amari e odio

Di Tolo Tolo, l’ultimo film di Checco Zalone, hanno già detto e scritto molto. Hanno misurato le risate in sala e le polemiche fuori, calcolato gli incassi e fatto il confronto con quelli dei film precedenti, valutata la scenografia e misurato il ritmo narrativo. Alla fine gli aspetti estetici e i risvolti economici della produzione sono stati utilizzati soprattutto per sostenere le argomentazioni politiche pro o contro il messaggio del film. Non poteva essere altrimenti, perché Tolo Tolo è innanzitutto un film politico che ha scelto di affrontare il tema del momento, su grande scala e puntando a polarizzare le reazioni.

A testimoniarlo è anche il modo in cui il film è stato promosso: con la diffusione del trailer Immigrato, videoclip in cui Zalone canta atteggiandosi un po’ a Celentano e ribaltando testo e messaggio de L’italiano di Toto Cutugno. Immagini e parole mettono in fila una serie di luoghi comuni: l’immigrato che chiede l’elemosina, l’immigrato che si accolla, l’immigrato che ruba le donne. Già nel video c’erano delle note di ironia che un occhio attento avrebbe potuto cogliere. Soprattutto quando Zalone chiede perché l’uomo nero ha scelto proprio sua moglie invece di andare da quella del rumeno o del pakistano di fronte, cioè dagli altri migranti che sono già di fatto suoi vicini di casa. «Prima l’italiano», risponde il nero col sorriso. O quando Checco assume per un attimo l’attitudine ducesca, con mascella alta e sfondo bianco e nero. Sotto il balcone, però, non c’è la razza italica, ma una popolazione multicolour di origini diverse.

Dettagli su cui probabilmente sarebbe servito un livello di riflessione eccessivo per i pollici opponibili lanciati a inseguire la notizia del momento, quella che infiamma gli algoritmi dei social in incendi effimeri. Così Matteo Salvini ha chiesto di nominare Zalone senatore a vita e Giorgia Meloni gli ha fatto i complimenti contro le presunte velleità di censura di non si sa quale sinistra. Nessuno dei due aveva guardato il film, che non era ancora nelle sale. Forse, però, non avevano visto neanche i suoi film precedenti e di sicuro non avevano compreso il personaggio, altrimenti si sarebbero resi conto che un assist dal pugliese era per loro cosa improbabile.

Già nel primo film, Cado dalle nubi, l’attore aveva interagito esplicitamente con la Lega. Correva l’anno 2009, il segretario federale era ancora Bossi, le rivendicazioni di indipendenza erano già in parte sfumate e il razzismo verso gli extracomunitari se la giocava ancora con quello per i terroni. Nel film Zalone finisce a cantare, per un tranello subito, in un ritrovo di militanti del partito che crede essere una platea di calabresi che festeggiano il peperoncino verde. Prima di salire sul palco, non trovando il bagno, fa pipì nell’ampolla in cui è custodita l’acqua raccolta alla foce del sacro Po. Il capetto della sezione locale dovrà berla di lì a poco. Il bersaglio principale del film più che il razzismo è l’omofobia, la discriminazione degli «uomini sessuali». Alla fine contro entrambi i tipi di pregiudizi vince l’amore.

In Che bella giornata (2011) torna un tema caro ai seminatori d’odio nostrani: il terrorismo islamico che vuole distruggere la «nostra storia» e i simboli cristiani dell’Europa. Anche in questo caso, alla fine, vince l’amore. In Sole a catinelle (2103), invece, Zalone mette al centro del mirino le forme di vita prodotte dal neoliberalismo. «Voglio essere leadership di me stesso», dice Checco dopo essersi licenziato dal lavoro subordinato per diventare un libero imprenditore. Andrà a vendere aspirapolveri, rigorosamente con partita Iva (regime lavorativo tra i bersagli più gettonati attraverso tutta la sua produzione cinematografica). Zalone affronta un percorso di formazione che passa per l’acquisto smodato di oggetti e i conseguenti debiti, l’obbligo di mantenere le promesse fatte al figlio nonostante le difficoltà economiche, una crisi con la moglie scoppiata mentre lei lotta per difendere il suo lavoro da operaia tessile, avventure surreali tra ricchissimi imprenditori incontrati per caso. Alla fine, dopo diverse metamorfosi, riesce a ottenere ciò che desidera più ardentemente: l’amore della moglie.

E l’amore, per la compagna e per il figlio appena nato, trionfa anche in Quo Vado (2016), convincendo la tribù che lo ha preso in ostaggio a farlo ripartire e soprattutto sconfiggendo la strenua resistenza dello stesso protagonista ad abbandonare il valore che lui, la famiglia e i conoscenti considerano più importante: il posto fisso.

Nei film di Zalone, quindi, l’amore batte i pregiudizi, l’omofobia, il terrorismo, il neoliberismo, la precarietà, le differenze culturali. La stessa cosa accade in Tolo Tolo e anche questa volta l’amore ha forme diverse: di Checco per Igiaba, di Igiaba per l’amica caduta e quindi per suo figlio, del bambino per il padre che non ha mai visto. Stavolta il nemico dell’amore è esplicitamente il fascismo. La parola con la F che fino a poco tempo fa nessuno voleva pronunciare e che ancora oggi rimane troppo spesso in punta di penna o di lingua, è scandita da Zalone in modo forte e chiaro.

Il fascismo viene rappresentato metaforicamente come una serie di attacchi che colpiscono improvvisamente il protagonista e lo portano a momenti di delirio, mascella alzata verso nord e pugni sui fianchi con le braccia a triangolo. «È grave?», chiede Zalone a un medico, sul tetto di uno degli autobus strapieni di migranti che attraversano il deserto. «No, ce l’abbiamo sempre dentro di noi. Poi viene fuori con il sole, con lo stress», risponde quello. «Come la candida!», dice ancora Checco. «Sì, ma non si cura con una pomata», chiude il dottore.

Nel film la metafora si ferma qui. Tutto il resto è cronaca. Le principali tappe della rotta percorsa dai migranti subsahariani: l’attraversamento del deserto, i lager libici, la traversata in mare. Il riferimento a episodi specifici dei mesi appena trascorsi: la flat tax tanto voluta da Salvini («qui in Africa non c’è? Ah, meno male», dice Zalone), il blocco dei naufraghi sulle navi umanitarie a poche miglia dalle coste con tanto di episodi realmente accaduti e ironicamente trasfigurati (come il tuffo in mare delle persone a bordo).

Ovviamente tutte queste cose sono raccontate alla Zalone, cioè con quella forma di leggerezza e ironia politicamente scorretta che prende in giro tutti. Influencer francesi lautamente pagati per attraversare il deserto e sponsorizzare profumi di marca. Presidenti di regione Puglia che hanno fatto di story telling e linguaggio erudito un marchio di fabbrica. Festival delle contaminazioni meticce e afropizziche varie (anche la pizzica, salentina, è uno dei bersagli ricorrenti di Zalone, barese). Ma come in tutti i film, Checco prende in giro in primo luogo il personaggio che interpreta, quello che in Che bella giornata viene definito «l’italiano medio, senza qualità».

Nel farlo l’attore non si appiattisce mai alle meschinità del ruolo in cui si cala. Quelle meschinità che fuori dagli schermi sono spesso interpretate come un vanto dalla «pancia del paese» (ringraziata a voce alta in Cado dalle nubi dopo una filippica contro i diritti dei lavoratori e delle donne), sono portate da Zalone alle estreme conseguenze con l’obiettivo di desacralizzarle e metterle in ridicolo. In Tolo Tolo accade con diversi elementi cardine del fascioleghismo. In una scena esilarante la famiglia di Checco è ospite di Giletti. È in tv per fingersi dispiaciuta della sua scomparsa durante un attentato terroristico in Africa. In realtà spera che il parente si «estingua» per estinguere i suoi debiti e incassare il risarcimento. Mentre si parla di tutt’altro, l’anziana nonna si alza in piedi ed esclama dal nulla: «prima gli italiani», provocando l’ovazione senza senso del pubblico.

Quando all’inizio del XVI secolo Hernán Cortés arrivò in quella terra che, a prezzo di un genocidio, sarebbe diventata il Messico, ricevette in regalo una schiava di cui la leggenda confonde i nomi: Malineli Tenepatl, Malinche, Malintzin o Doña Marina. La donna aveva forse ascendenze nell’alta società azteca, ma per una serie di vicende era stata espulsa dalla famiglia e ridotta in schiavitù. Aveva imparato diverse lingue e per questo si affermò come traduttrice di Cortés, facendo anche da mediatrice nella celebre conversazione con Montezuma. «La traduttrice era traditrice da ogni punto di vista: tradiva il suo popolo facendo lega con gli invasori – scrive Franco Berardi Bifo – Ma al tempo stesso tradiva i conquistatori e il suo stesso amante. Dal punto di vista morale non doveva nulla al suo popolo che l’aveva resa schiava».

Zalone non è stato certo reso schiavo dal suo popolo, anzi ha ricevuto in cambio dei film incassi da decine di milioni di euro. Eppure la sua operazione in qualche modo assomiglia a quella di chi rigira la punta del fucile contro chi lo tiene in mano e prende la mira. Lo fa torcendogli contro il suo stesso linguaggio, i suoi stereotipi, gli schemi che usa per interpretare la realtà. Sta proprio qui il carattere esplosivo del film: ad attaccare il razzismo è un tamarro comune, come ce ne sono tanti in città e provincia, è l’uomo senza particolari qualità che alla fine preferisce semplicemente l’amore all’odio. Contro Zalone nessuno ha potuto utilizzare i soliti cliché della destra: l’accusa di essere dei centri sociali o un radical chic, le frasi fatte sull’«allora ospitali a casa tua» o sui 35 euro. Perché stavolta è proprio il figlio prediletto del populismo razzista, non Zalone ma il personaggio che interpreta, a rivoltarsi contro il padre.

È chiaro che se Zalone è una specie di Malinche lo è in maniera tutta interna alle diverse anime della nazione italica. Mai tra italiani e migranti. In Tolo Tolo gli africani, siano stanziali o migranti, hanno ben poca autonomia (a parte forse la scena di evasione armata dal lager libico). Per il resto rimangono una proiezione della visione del mondo del tamarro barese. Può anche non piacere, ma attendersi qualcosa di diverso significa non voler considerare che Zalone non è un creatore di immaginari liberati o decolonizzati, ma uno che gioca coscientemente con l’inconscio profondo della cultura del suo paese per renderlo visibile e ridicolo. Non è poco.

Se quel tamarro barese si muovesse in uno spazio altro dalla proiezione del suo mondo, che si ripete uguale a Spinazzola in Puglia come nel mezzo di un attacco dell’Isis in Africa, non sarebbe credibile, né potrebbe avere efficacia il messaggio politico che nasconde dietro battutine e canzoncine che parlano di gnocca e piselli neri più lunghi della media. E questo Zalone lo sa bene, perché il codice che utilizza, più che dagli spazi della sinistra o dai luoghi del sapere critico, viene dalle sale giochi e dai bar della provincia. Ed è proprio nelle migliaia di luoghi  di quel tipo, dove la pancia del paese coltiva bruciori e gastriti a forza di amari e odio, che Tolo Tolo va maggiormente a segno. Per questo bisogna riconoscere all’attore che forse per la prima volta nella sua produzione cinematografica si è assunto il rischio di scontrarsi col suo pubblico, affrontando con nettezza un tema nazional-popolare ma estremamente divisivo. Lo hanno capito bene i razzisti. Perciò si sono incazzati tanto.

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