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The Post: realtà e mito della stampa americana

Cosa sono verità e menzogna in politica? Come districarle e con quali mezzi e fino a qual punto? Fu il problema posto dalla divulgazione dei Pentagon Papers nel 1971, discusso allora da Hannah Arendt e oggi ripreso nel film dedicato da Steven Spielberg alla storia di “The Washington Post”, in pieno dibattito sulle fake news

Esci dalla sala e sai benissimo di aver visto una cosa contro Trump, in difesa dalla stampa libera e della forza delle donne, una vicenda aggiornata al presente e però ti restano negli occhi le immagini di un moderno-superato, l’ostentazione di una tecnologia ormai desueta, che enfatizza con epici piani sequenza gli ingranaggi di un cinema glorioso e di una stampa gloriosa: macchine da scrivere ticchettanti, fotocopie a gogo, riordino manuale di fogli non numerati, corse di redattori e galoppini per recapitare il materiale, composizione per caratteri tipografici, inchiostro, rotative, grovigli di tubi per la trasmissione pneumatica interna, furgoni che scaricano pacchi di giornali ai rivenditori per strada, copie cartacee che passano di mano in mano, telefonate criptate dagli apparecchi pubblici, i cattivi in controluce…

Tutto un modernariato fordista di quando si conducevano le grandi battaglie democratiche che tornano d’attualità per il perenne spirito libertario della Repubblica e della Costituzione Usa, la sentenza della Suprema Corte (come in Amistad), il Primo Emendamento come tutela dei governati e non dei governanti. Puro Spielberg, insomma, l’identica verità nelle istituzioni secolari e nella mente sgombra del common man.

The Post è infatti un prequel di tutta la filmografia americana degli anni ’70 sulle malefatte di Nixon e della Cia e sul ruolo della stampa, in particolare del “Washington Post”, nello smascheramento dell’affare Watergate. Ricordate Tutti gli uomini del Presidente di Alan Pakula (1976) o I tre giorni del Condor (1975) di Sidney Pollack? Con il primo, fra l’altro, questo film ha in comune i personaggi positivi (il direttore Ben Bradlee) e negativi (la corte di Nixon: gli Haldeman, Mitchell, ecc.). L’apertura sul Vietnam e la chiusura del film su interni ed esterni dell’edificio del Watergate lo ribadiscono per i distratti. La storia è quella della pubblicazione nel 1971, contro resistenze e minacce del governo Nixon, dei Pentagon Papers, materiali top secret sulla guerra del Vietnam, commissionati dal segretario alla Difesa McNamara e trafugati dall’analista resipiscente Daniel Ellsberg.

Qui l’eroe (segno dei tempi) non è più il fascinoso Robert Redford (in coppia con Dustin Hoffman, nei panni dei cronisti che scoprirono i retroscena del Watergate o da solo  in lotta con la Cia), ma una donna, l’editrice ereditaria del giornale,  Katharine Graham, ospite di salotti kennediani, che (fin troppo rapidamente nell’arco di un’unità d’azione aristotelica di 48 ore) si scopre donna d’affari e paladina della libertà di stampa e di genere, mette a rischio la vecchia amicizia con un nevrotico Bob McNamara chiedendogli «consiglio e non permesso», usa i propri poteri finanziari con piglio decisionistico trasformando un foglio provinciale in un potentato mediatico e politico.

Per un verso, mette in scena (con qualche accettabile anacronismo) la futura eroina di #MeToo, per l’altro svela la contraddizione di fondo dell’ideologia spielberghiana: non «That’s the pressbaby!» (Humphrey Bogart in Deadline di Richard Brooks, 1952) o la gravità di Jason Robards, direttore del “Post” nel film di Pakula, quando autorizzava i cronisti d’assalto, ma «È la proprietà, ragazzi, si stampi!». In subordine alla proprietaria, un molto inquartato Tom Hanks impersona il direttore Bradlee, nobile e pugnace ma riaggiustato a una proposta di Women’s Power 2017. Tuttavia dal punto di vista cinematografico proprio la psicologia incerta della Graham e la sua proiezione nell’attualità del rapporto genere-potere è uno degli elementi piè interessanti, grazie anche alla sottile interpretazione di Meryl Streep.

In realtà la Costituzione e i suoi emendamenti non sono sacrali ma registrano rapporti di forza e come tali sono interpretabili: dalle lotte e dalle variabili maggioranze della Corte Suprema. Quanto mostra esemplarmente XIII Amendment, sul significato carcerario di massa per i neri assunto dalla formulazione in apparenza neutra per cui la schiavitù è abolita se non come punizione giudiziaria, vale anche per il Primo Emendamento, che garantisce la libertà di stampa per chi ne ha i mezzi adeguati e per illustrare in genere argomenti con vaste convergenze di classe. Noam Chomsky l’aveva dimostrato a proposito proprio dei Watergate, che fece scandalo solo perché colpiva una delle grandi partizioni della politica e degli affari americani, ricevendo quindi molta più attenzione che non i bombardamenti in Cambogia (il vero crimine).

Questo vale anche per il Vietnam – che infatti fu liquidato quando divenne insostenibile e fu proprio Nixon a chiuderlo –, per una guerra che certo fu resa vieppiù impopolare dalla crescita delle proteste alimentate anche dai Pentagon Papers (e questo Spielberg lo accenna in alcuni passaggi di manifestazioni), ma il cui punto di svolta, quando cioè apparve insostenibile, fu l’offensiva del Têt a inizio 1968. Non l’indignazione democratica, non la protesta studentesca, non il liberalismo della stampa e della Corte, ma in primo luogo la resistenza armata Vietcong fu decisiva per demoralizzare e dividere l’establishment Usa, che in quel 1971 si avviò nell’èra neoliberale con l’inconvertibilità del dollaro in oro. E su questo Spielberg non potrebbe mai starci, perché laterale, seppure non contraddittorio, rispetto al suo impianto civico. Lo sguardo ingenuo alla Frank Capra e la sua etica protestante non glielo consentirebbero; caso mai ci va più vicino il reduce giustiziere di Taxi Driver, del cattolico Scorsese. La giungla dei rapporti di forza non è poi troppo diversa a New York e a Hué, sul mercato e sui campi di battaglia.

Insomma, l’opposizione fra stampa libera portavoce del pubblico e privatizzazione dello stato nella cerchia magica presidenziale funziona solo in parte, salta il conflitto di classe e quello geopolitico, schiaccia Spielberg su una retorica kennediano-clintoniana appena ritoccata a misura del pericolo Trump e della protesta femminista del #MeToo. E oggi il “Washington Post” è nelle mani di Jeff Bezos, il padrone di Amazon. Braccialetti elettronici, altro che frastuono delle rotative e filibustieri della carta stampata.