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The Card Counter

In Concorso al Lido e già nelle sale italiane con Lucky Red, The Card Counter è un film che poggia i suoi meccanismi narrativi sui temi classici al cinema di Paul Schrader e contemporaneamente eccede gli steccati autoriali per riflettere sullo svelamento e sulla visibilità

La scritta retrò The Card Counter campeggia bianca a tutto schermo. La grafica la dispone sulla trama del tessuto verde di un tavolo da gioco su cui, vediamo un attimo dopo, è in corso una partita di blackjack. La voce fuori campo del protagonista spiega che contare le carte in questo gioco è fondamentale per determinare se la mano successiva darà un vantaggio al giocatore o al banco.


Schrader pone, dunque, immediatamente il tema dello svelamento, della strategia, della visibilità e della sua assenza, per costruire un personaggio che scopriremo essere intrappolato in quell’archivio fotografico che fece il giro del mondo nell’aprile del 2004: la fuga di immagini delle torture dei militari americani ai prigionieri di Abu Ghraib.

Oscar Isaac è William “Tell” Tillich, un fuori classe del gioco d’azzardo che finge un basso profilo per non dare nell’occhio. Scopriamo gradualmente che è anche stato uno dei torturatori dell’esercito degli Stati Uniti immortalati dalle immagini fuoriuscite dalla prigione irachena e ora nuovamente in libertà dopo otto anni di carcere.

Si sente un reduce, divorato dalle atrocità commesse e schiacciato sotto il peso di uno scandalo che non coinvolse nessun vertice militare, nessun agente della Cia o dell’intelligence.

Le immagini degli abusi nella prigione irachena sono un videoclip senza montaggio girato con il grandangolo estremo del fisheye a ritmo punk rock che come un flusso onirico irrompono nelle notti di William. Sono immagini di una routine che ora, da uomo libero, decide di trascorrere all’interno delle grandi sale dove il gioco scandisce il tempo e la statistica impegna il giocatore. Un altro luogo dove ciascuno ha i propri rituali e la propria divisa. Anche William ne indossa una, con lo stesso rigore di quella da carceriere e da carcerato.

I casinò disseminati nel territorio americano sono il suo purgatorio. Viaggia in macchina, dorme in squallidi motel che di volta in volta ritappezza con lenzuola bianche, gioca e abbandona il tavolo prima di portarsi a casa vincite troppo alte.

Fin quando la sua routine non viene interrotta da un triplice incontro in cui passato, presente e futuro collimano lungo un unico asse.

La regia è scarna, impoverita dalla piattezza di un digitale che non vuole dare profondità all’immagine. I totali delle immense sale dei casinò ricordano addirittura le immagini di sorveglianza di cui quei luoghi sono costellati, così come la vita di William. La bellezza trova un posto risicato, si fa largo attraverso deboli passioni tra i bulbi luminosi di un giardino botanico del Missouri. Anche il linguaggio cede allora, per pochi stanti, alla seduzione del barocco.

Certo, il tema della colpa senza espiazione possibile guida le sorti di quest’uomo solitario così come il cinema di Paul Schrader eppure, forse, non dovremmo limitarci alla sua parabola autoriale per farci strada nella visione di questo film.

La domanda che serpeggia difronte alla ripetizione del gioco, della dipendenza, della violenza, eccede i territori dell’arte ed entra nel vivo del più impervio rapporto tra la nostra cultura visuale e lo scenario mediale in cui questa, oggi, prende forma.


Schrader sceglie di maneggiare proprio quelle immagini ributtanti e insieme iconiche della cosiddetta Guerra al Terrore iniziata all’alba del nuovo millennio e naufragata nel peggiore dei modi possibili con la vicenda afghana di queste settimane. Viene dunque da chiedersi, di fronte a questo film ma anche e soprattutto oltre la sua disposizione artistica, cosa farsene di questo materiale e dei suoi continui rimontaggi, cosa rappresenta e, anche, a chi appartiene.

Domanda, come suggerisce Didi-Huberman, «stupida e crudele», che percuote tanto William Tillich quanto la funzione comunicativa di qualsiasi immagine contemporanea.

Immagine di copertina da commons.wikimedia.org