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MONDO
Sumud: vivere e raccontare la Palestina
Intervista a Mohamad Zwahra, giornalista e regista palestinese, membro dello Young Journalists Committee e del Palestinian Journalists Syndicate. Nato e cresciuto ad Al-Ma’sara, uno dei villaggi simbolo della resistenza popolare nonviolenta a sud di Betlemme, ha trasformato le sue radici contadine in un’azione di testimonianza attraverso il cinema e il giornalismo
Nella luce obliqua del mattino, il villaggio di Al-Ma’sara appare silenzioso, con ulivi e terrazze che digradano verso la valle. È uno dei tanti luoghi in Palestina dove la vita contadina si intreccia con una storia di occupazione e resistenza nonviolenta. È qui che Mohamad Zwahra ha mosso i primi passi, non ancora da giornalista ma come figlio della terra, con le mani immerse nel suolo e le veglie collettive per difenderlo.
«Sono cresciuto in una famiglia di agricoltori. Mio nonno era contadino e pastore, e fin dall’età di sei anni ho imparato da lui cosa significa stare saldi sulla terra. Coltivavamo, proteggevamo il terreno, e la nostra vita quotidiana era legata a quella terra e agli animali che allevavamo».
Fu durante le marce popolari nonviolente a Al-Ma’sara che Mohamad riconobbe il nesso tra testimonianza e impegno civile: «Ho capito che la resistenza è anche nel restare radicati alla nostra terra. Queste prime esperienze hanno plasmato la mia convinzione che avessi la responsabilità di documentare, di condividere la nostra storia con il mondo attraverso il giornalismo e il cinema».
È una trasformazione: da testimone a narratore. Da “essere” nel villaggio a “raccontare” il villaggio, non in maniera neutra, ma con la consapevolezza che il potere visivo, del film, dell’immagine, della parola, può spingere il confine dell’attenzione globale.
La telecamera, scudo dall’oblio
Se la terra è stata la prima scuola, la telecamera è diventata per Mohamad Zwahra l’arma più preziosa. «Quello di reporter non è mai stato solo un lavoro: era, ed è ancora, una forma di resistenza. Farsi testimone significa essere presenti per documentare il momento prima che venga cancellato».
Un atto non neutrale. Non si tratta di “osservare” ma di impedire la sparizione: delle persone, delle storie, dei luoghi. Ogni immagine scattata diventa un frammento di verità che resiste al tentativo di rendere invisibile la vita palestinese. «L’immagine diventa sia uno scudo sia una testimonianza. Ogni foto e ogni ripresa è una prova della nostra esistenza, un messaggio alle prossime generazioni che noi non siamo rimasti in silenzio».
C’è, in questo sguardo, la consapevolezza che l’occupazione non opera soltanto nello spazio fisico – la terra confiscata, le case demolite, i check-point – ma anche nello spazio simbolico della memoria. La fotografia, il video, diventano allora atti di archiviazione viva, contro l’oblio programmato operato da Israele.
Così la telecamera, in mano a Mohamad, non è strumento “esterno” alla lotta, ma parte di essa. È da questa convinzione che nasce anche uno dei suoi lavori più significativi, On My Land, un film che intreccia memoria personale e testimonianza collettiva.
Attraverso immagini dirette della Cisgiordania, On My Land rompe il filtro delle narrazioni mediate e restituisce al pubblico la crudezza e la delicatezza del vivere sotto occupazione. «In On My Land ho cercato di mostrare immagini reali di ciò che accade in Cisgiordania, perché mi sono accorto che molte persone in Europa ne sanno poco. Quando il pubblico ha visto il film, ha reagito con forti emozioni ed empatia. Questo mi ha confermato che il cinema e la fotografia possono essere un ponte di comprensione e un modo per correggere immagini distorte».

Al-Ma’sara: una storia palestinese
Dal 2006 il piccolo villaggio di Al-Ma’sara, a sud di Betlemme, è entrato nelle cronache come uno dei simboli della resistenza popolare nonviolenta. Ogni settimana, le e gli abitanti si univano ad attivisti internazionali e israeliani per marciare contro il muro e gli insediamenti. Nonostante la repressione, gli arresti, i gas lacrimogeni, le manifestazioni continuarono per anni, fino a diventare parte dell’identità stessa del villaggio. «Le marce oggi sono meno frequenti, ma lo spirito della resistenza vive nella nostra vita quotidiana – coltivando la terra, insegnando ai nostri figli, costruendo progetti comunitari che rafforzano la nostra fermezza».
Dopo l’ultima aggressione israeliana contro Gaza, anche in Cisgiordania lo scenario si è fatto più cupo: la pressione è aumentata e la violenza dei coloni ha trovato nuovo spazio e legittimazione. «Oggi, la situazione in Cisgiordania è ancora più pericolosa. I coloni hanno praticamente preso il controllo: equipaggiati con armi fornite dal governo, sono incoraggiati a impossessarsi di quanta più terra palestinese possibile. L’occupazione non si basa solo sulla presenza militare diretta; sostiene i coloni per espandere gli insediamenti, confiscare terreni agricoli e imporre nuove strade che frammentano il nostro territorio. I checkpoint e i cancelli hanno definito la nostra vita. Rendono quasi impossibile spostarsi da una casa all’altra. I villaggi e le città sono tagliati fuori l’uno dall’altro, mentre i varchi chiudono i nostri ingressi e stabiliscono quando possiamo entrare o uscire dalle nostre terre. Oggi un palestinese lascia casa senza sapere se tornerà. Ore di attesa, umiliazioni, attacchi quotidiani dei coloni: anche il viaggio più semplice diventa un rischio».
Il termine che Mohamad non teme di usare è netto: apartheid. «Quello che viviamo è un sistema di apartheid: confische di terre, coloni ovunque, strade che si espandono per servire solo gli insediamenti, e una violenza sistematica – pastori cacciati, greggi rubate, case e auto incendiate, famiglie attaccate. Tutto questo spesso avviene nel silenzio, senza che il mondo se ne accorga».
Il cuore della resistenza, in Palestina, spesso batte nel ritmo antico degli ulivi. Ma anche la raccolta delle olive, momento che tradizionalmente unisce le famiglie, oggi si trasforma in campo di battaglia. «Quest’anno la stagione della raccolta delle olive potrebbe essere una delle più difficili. I contadini temono per i raccolti, le famiglie temono per la propria sicurezza anche solo camminando verso i campi. È per questo che ci stiamo preparando a lanciare la campagna Faz3a per sostenere i contadini».
“Faz3a”, che in arabo evoca il gesto di accorrere in aiuto, è un modo per rinsaldare i legami di comunità, per colmare il vuoto tra paura e speranza. «Nonostante la violenza e la disperazione, il nostro sostegno reciproco diventa una forma di resistenza. Ci permette di dire al mondo che qui c’è un popolo che rifiuta di morire in silenzio».

La resistenza come quotidianità
Per chi osserva da lontano, non c’è nulla di eroico, in apparenza, in un seme piantato nella terra, o in una casa che resta in piedi malgrado le minacce di demolizione. Eppure, in questo contesto, sono dichiarazioni di continuità, messaggi di presenza. «Qui la resistenza non è un’opzione aggiuntiva: è uno stile di vita. Viviamo sotto pressione costante, ma resistere significa piantare un albero, raccontare una storia, alzare la bandiera palestinese, restare nella propria casa e proteggere la propria terra».
In questo orizzonte nasce Almasra Press, una piccola iniziativa giovanile trasformata in piattaforma di narrazione collettiva. «Abbiamo iniziato documentando ciò che accadeva nel nostro villaggio e nelle comunità vicine, per condividerlo direttamente con il mondo. L’obiettivo era creare un media locale, fatto dalla gente e per la gente, per contrastare la distorsione e il silenzio. Ci siamo concentrati sul dare voce ai contadini e alle famiglie comuni, che sono i più colpiti dall’occupazione».
Fare giornalismo in Palestina, però, significa esporsi a rischi concreti e quotidiani. L’elenco che Mohamad snocciola è tanto crudo quanto immediato: «Le sfide sono enormi: arresti, attacchi diretti con proiettili e gas lacrimogeni, restrizioni ai movimenti, mancanza di risorse. Molte volte, anche i media globali marginalizzano le nostre voci o le censurano per ragioni politiche. Nonostante tutto questo, la nuova generazione di giornalisti palestinesi resta determinata a dire la verità».
Il mestiere di giornalista in Palestina è anche un atto collettivo: non si fa mai da soli. Per questo Mohamad sottolinea l’importanza di reti di sostegno che vadano oltre i confini. «La solidarietà internazionale è vitale. Quando i giornalisti di tutto il mondo si schierano con noi, ci offrono protezione morale e politica e fanno pressione sui governi perché smettano di prenderci di mira. La solidarietà significa che non siamo lasciati soli di fronte all’occupazione: facciamo parte di una famiglia professionale globale che difende la verità». Un richiamo a un fronte comune, in cui il giornalismo palestinese è parte integrante di un movimento mondiale per la libertà d’informazione.

Sumud: una voce transnazionale
C’è una parola che ritorna spesso nel discorso di Mohamad Zwahra: sumud. Non è mai stato un concetto astratto. «Per me, Sumud significa restare saldi nella propria terra nonostante tutto. Significa continuare a vivere una vita normale in condizioni anormali: piantare, ridere, sognare, anche sotto assedio. Trovo speranza nei bambini che ridono nonostante le difficoltà, nei contadini che tornano ogni stagione alla loro terra, nelle donne che tengono forti le famiglie anche nelle condizioni più dure. Cerco di portare questa speranza nei miei film e nelle mie fotografie, per mostrare al mondo che non siamo solo vittime: siamo un popolo di dignità e di speranza».
È un messaggio che ribalta la narrazione dominante: il popolo palestinese non è soltanto definito dal dolore che subisce, ma dalla dignità con cui lo affronta, dalla capacità di trasformarlo in energia vitale e creativa. «Voglio continuare a realizzare film che documentino la vita delle persone nei villaggi e nelle aree marginalizzate e sviluppare la Sumud Platform – un’iniziativa che unisce giornalismo comunitario e produzione culturale per dare voce ai giovani palestinesi – in un progetto più ampio, guidato dai giovani stessi. Il mio sogno è usare il cinema come ponte per connettermi con il mondo e costruire una memoria visiva che preservi la nostra storia per le generazioni future».
Ed è da questo legame con il mondo che il sumud incontra la solidarietà internazionale. «Per noi che viviamo in Cisgiordania, una parte fondamentale della speranza e della forza che ci permette di andare avanti nasce dalla solidarietà che percepiamo e sentiamo arrivare da ogni angolo della terra. Non sono soltanto le grandi manifestazioni o le campagne internazionali a darci coraggio: persino i gesti più semplici, come qualcuno che espone una bandiera palestinese sulla propria auto o la appende a una finestra, hanno per noi un valore immenso. Possono sembrare piccoli segni a chi li compie, ma per noi che viviamo sotto occupazione sono una conferma preziosa che non siamo soli. Personalmente, ogni volta che mi capita di visitare l’Europa e passeggiare per le sue strade, vedere una bandiera palestinese sventolare da una casa o dipinta su un muro mi riempie di gioia profonda e mi dona nuova forza per continuare».
Con la nuova ondata di distruzione a Gaza, il sumud palestinese ha iniziato a risuonare anche oltre confine. «La Global Sumud Flotilla è un esempio potente di questa connessione. Ha offerto una risposta concreta a chi, nel mondo, si chiede: “Che cosa possiamo fare per aiutare?”. Mostra chiaramente che è possibile agire, stare al nostro fianco, amplificare la nostra voce. Ogni gesto di solidarietà, grande o piccolo, diventa parte della nostra resistenza. Alimenta la nostra speranza, rafforza il nostro sumud e ci ricorda che la Palestina non vive soltanto nei nostri cuori, ma anche in quelli di persone ovunque nel mondo».
Tutte le immagini sono state concesse da Mohamad Zwahra
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