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Sulla liturgia laica del calcio

Bonvissuto ha scritto un romanzo filosofico sul calcio e sulla AS Roma. “La gioia fa parecchio rumore” è la storia di un bambino e della scoperta della sua fede calcistica (Einaudi, pp. 220, euro 18,50)

Che cos’è l’amore? È adesione. È partecipazione, è vita. A un certo punto non è che lo si incontra, lo si prova e basta. Sulla propria pelle, nelle proprie viscere. La scoperta dell’amore è il momento che cambia la vita di un ragazzino cresciuto negli anni Settanta nel quartiere romano del Quadraro, il Nido di Vespe tanto temuto dagli occupanti nazisti, come ha cambiato quella di tutti noi calciofili più o meno incurabili. È l’adesione a una squadra di calcio.

 Non una squadra qualsiasi, proprio quella: quella della tua famiglia, dei tuoi amici, della tua città. O del tuo destino. È un’adesione che ti marchierà a fuoco per sempre, nel bene e nel male. 

 Parte proprio da una lunga digressione sull’amore Sandro Bonvissuto nel suo La gioia fa parecchio rumore (Einaudi, pp. 220, euro 18,50) prima di svelarne l’oggetto, che è poi il soggetto di una tenera storia di formazione vissuta all’interno di una famiglia allargata: dall’appartamento, al quartiere, allo stadio, all’intera comunità nomade dei tifosi. La maglia della squadra di calcio, non una qualsiasi, ma quella che abbiamo scelto di amare per la vita, qualunque essa sia. 

 «Forse il calcio è l’unica cosa al mondo che è più bella quando la fanno gli altri, quelli con quella maglia però. Che comunque ce l’hanno solo in prestito, perché la maglia della Roma è la mia. Potrebbero anche averla rubata. E l’amore forse è questo: correre appresso a un ladro che ci ha rubato qualcosa».

 Un lungo inseguimento che parte dal rischio della Serie B e si conclude con lo scudetto, attraverso un racconto corale di personaggi che non hanno mai nomi propri ma solo metonimie – il padre, la madre, lo zio, il nonno, ma anche Barabba e il Mister, o i calciatori che diventano Kawasaki, il brasiliano, il centravanti –,  di luoghi che nel loro iperparticolarismo si fanno universali – la casa, il pianerottolo, il negozio, la macchina, la strada, lo stadio – e di oggetti cui è donata la vita – la radio, la televisione, la bandiera, la maglia. È quasi assente il pallone, se non per un brevissimo intermezzo verso la fine.

 Persone, luoghi e oggetti che esistono in quanto legate da sentimenti. Persone, luoghi e oggetti fantastici, che lungo il racconto si fanno via via più reali per ricordarci che, al contrario, l’amore non può essere vero. Perché non possiamo osservarlo, né tantomeno spiegarlo. L’adesione è, non si fa né si dice.

 L’amore per la As Roma e per la vita, cui il protagonista bambino aderisce attraverso pagine a volte allegre e a volte tristi, dove gioia e malinconia sono scandite settimanalmente dai risultati della squadra del cuore. Tra un panino con la frittata e una sera a letto senza cena, gite fuori porta sui colli romani o al mare di Fiumicino, trasferte in aeroporto per accogliere un giocatore o in città lontane per sostenere la squadra. Domeniche pomeriggio passate ad ascoltare la radio, la sera a guardare i riflessi filmati e a compulsare classifiche.

 La liturgia laica del pallone, uguale a tutte le latitudini. Universale come i sentimenti, che non si possono spiegare ma solo partecipare. 

 E così, mano a mano che il bambino cresce, tra gioie e delusioni della durata infinita di sette giorni e capisce sempre più di calcio, di amore e della vita perché, come diceva Albert Camus,  «tutto quel che so della vita l’ho imparato dal calcio», ecco che rimane folgorato dall’epifania di questo straniero arrivato da lontano. Un brasiliano atipico, con la maglia numero cinque. Un giocatore diverso dagli altri, i cui movimenti sul campo, una volta che riescono a essere interpretati, svelano l’ultimo degli arcani. 

 «La posizione dove uno sta prima dello svolgimento dell’azione agisce sul destino dell’azione stessa: è questo il punto. Er Mister (un tifoso vicino di posto allo stadio, ndr) mi ha insegnato molto sul calcio, anzi mi ha insegnato tutto, mi ha messo come degli occhiali grazie ai quali potevo finalmente vedere, perché non era il fenomeno che doveva rivelarsi a tutti, spiegandosi, ma eri tu che dovevi rivelarlo, spiegandotelo».

 Ecco che cosa è l’amore. È qualcosa che non  possiamo spiegare, ma solo provare. È l’adesione, per la maglia della nostra squadra del cuore. Non possiamo raccontarla, possiamo solo viverla, come l’azione di quel brasiliano atipico, di cui non è nemmeno possibile fare il nome. Perché quel nome è come l’amore, o lo sai o non lo sai, è inutile stare qui a dirlo.