cult

CULT

Sull’agio di stare al mondo proprio ora

A proposito di Teoria della classe disagiata

Una riflessione critica sul nuovo libro di Raffaele Alberto Ventura, ambigua indagine tra il generazionale e il sociale del declassamento post-crisi. Uscito in rete nel 2015 e ora ripubblicato da Minimum Fax.

Tous les garçons et les filles de mon âge

Savent bien ce que c’est qu’être heureux

Françoise Hardy


Questa
è la luce: le cose che ora posso
vedere.

Gabriel del Sarto

Teoria della classe disagiata, di Raffaele Alberto Ventura, consegna, sotto forma di impasse, una lezione di metodo: per descrivere le forme di vita contemporanee il concetto di “classe” e quello di “generazione” devono essere rigorosamente separati. L’assunto secondo il quale “le nostre ambizioni non sono a misura dei nostri portafogli” ne è la più adamantina delle verifiche. Le ambizioni e i portafogli di chi? Se quella “disagiata” fosse una “classe”, non ci sarebbe ragione di scrivere duecentocinquanta lambiccate pagine senza riuscire a capire se questo apparente disastro in cui ci è toccato di vivere sia l’esito fatale della “crisi” oppure la meritata punizione per aver voluto troppo. Il continuo rovesciarsi di spiegazioni economiciste in diagnosi psico-sociali attesta dell’ineseguibilità del compito e finisce per trasformare la “teoria” promessa dal titolo in un faticoso esempio di omiletica rancorosa e assai lugubre. Tutto è strutturalmente determinato oppure trascritto nella opacissima grammatica della “riuscita” e dell’ambizione (che poi altro non sarebbe se non la versione mistificata e ideologica della struttura). Smodatezza delle ambizioni individuali e implacabili logiche sistemiche funzionano come ascissa e ordinata non di una teoria, ma di un lamento senza oggetto né forma.

I Millennials attendono ancora la loro antropologia. Una scienza del tempo che accade capace di tenere assieme, impudicamente, due assunti diversi e necessari: che per capire il mondo in cui viviamo il concetto di classe serve ancora e molto; e che per capire la generazione che noi siamo, per capirla cioè in quanto generazione, il concetto di classe è inservibile. Se da un lato, infatti, la classe non tramonta, è perché essa è tanto più in sé quanto meno è per sé; dall’altro lato, insieme e allo stesso tempo, esiste una generazione che non solo non appartiene a una classe data ma che neppure ne costituisce una nuova o diversa, giacché essa non si definisce altrimenti che per il semplice fatto di essere-una-generazione.

I Millennials sono la prima generazione che coincide, esponendolo, con il puro generazionale. Se questo, e questo soltanto, è il suo carattere, è perché non c’è altro che ne renda altrimenti ragione. Il che evidentemente non vuol dire che essa non sia attraversata e complicata da differenze di ogni grado. Salvo il fatto che queste differenze non si ordinano secondo il criterio della distinzione. Se la “classe disagiata” non è né borghese né proletaria, essa non è forse una “classe”. E ancora: se questa generazione coincide con la capacità di fare certe cose pur non potendosele permettere, ciò suggerisce allo stesso modo che probabilmente non di una classe si tratta. Diremo allora che c’è una generazione che non è una classe e che non è neppure disagiata. Ma sta cercando, per prova ed errore, a capire di che cosa “agio” possa essere il nome nelle rovine del capitalismo. Così l’esperienza (non) politica, (non) sessuale, (non) economica della generazione non potrà essere descritta altrimenti che per il fatto di essere quella di questa generazione e non di un’altra. Fenomeno cui altre generazioni – la cui “coscienza generazionale” fu senz’altro più sofisticata – sono andate immuni. È perché i Millennials non sono una classe ma una generazione di cui il concetto di classe spiega poco o nulla che in essi la capacità di provare il più profondo senso di ingiustizia e quello di desiderare il lusso della vita – di arredarla cioè con ciò che ci fa contenti (e quindi non necessariamente felici) – non sono contraddittorie. Lusso non è infatti altro che il nome dell’operazione che rende una forma di vita sensata. È ciò che il paradigma della critica – quello che governa maldestramente anche le pagine di libri come Teoria della classe disagiata – non riesce ad accettare: che si beva o si desideri bere champagne solo e soltanto perché è oscenamente buono. Non perché il fatto di berlo (di dire di berlo, di farsi vedere mentre lo si beve) sia segno, simbolo o sintomo di qualcosa d’altro. Il cielo stellato sopra di noi, spesso, ci basta e ci avanza.

È proprio all’esperienza del piacere che la Teoria è cieca. Tutto il suo insistito e periclitante economicismo appare un’incomprensibile forma di spiritualizzazione della vita di una generazione. Come se potesse esistere un materialismo senza corpi e affetti. Il pendant di questa condanna del piacere sta nell’indimostrabile e tuttavia forsennata convinzione che la Cultura sia quel Graal a cui tutti attendono di abbeverarsi. Soltanto in virtù dello schiacciamento di un’intera generazione su un piccolo campione socio-culturale, le ambizioni forse smodate di qualcuno diventano l’inferno di tutti. Con esiti paradossali e genuinamente reazionari, come nel caso di una singolare ortopedia onirico-sociale giusta la quale se si è poveri sarebbe opportuno – per sé e il “sistema” – continuare a sognare da poveri. L’idea è insomma quella della continenza e della pedagogia di classe – coltivare ambizioni che abbiano la forma e l’estensione del proprio conto in banca – proprio nell’ora in cui a parità di poco reddito è soltanto il modo di consumarlo ciò che distingue.

L’insistenza nell’indicare il ’68 come annus horribilis in cui legioni di professori avrebbero impartito a legioni di studenti l’ordine di godere senza freno (perché tutto ciò che conta al mondo, è noto, ha luogo nelle Università) custodisce l’immagine parodica di questa confusione tra classe e generazione e insieme la spiegazione di questo disprezzo del piacere. Se è vero che fu Madonna a cantare nel modo più efficace e sfacciato l’equivoco materialismo di una generazione, pur non appartenendole, è il più grande poeta materialista dopo Lucrezio, Edoardo Sanguineti, a suggerire l’antidoto al risentimento travestito da sociologia: “parliamo, per piacere, dei piaceri della vita”. Così e soltanto così sarà possibile distillare le proposizioni di un’etica millennial: “ho concluso che il paradiso è chiavare nel sole, forse, pieni di Saint-Émilion”. Tutto ciò che è singolarmente assente dalla Teoria: i corpi sessuati, il sesso fatto e detto e veduto, le pratiche, le identità, l’amore e il disamore, l’entusiasmo. Non soltanto nel disagio di una classe che non esiste si legge l’eclissi politica di una generazione (cioè la cecità deliberata al suo “quanto” di politica), ma ci si urta anche al vuoto cavo dei suoi corpi. Quegli stessi corpi che, proprio mentre (non) lavorano, (non) amano, (non) parlano, hanno annesso in forza la dermatologia e la gastroenterologia al dominio della psicopatologia.

Questa assenza dei corpi – delle loro infinite capacità di sentire e patire, cioè di comporre mondi secondo una metrica non ancora repertoriata – è doppiata da un’assenza ancora più rumorosa: quella del rapporto sociale di capitale. La Teoria spinge, fino a far grattare le marce, sul pedale della retorica secondo cui baloccarsi a discutere di ciò che ci capita per come ci capita è un modo come un altro per non prendere mai “sul serio” i “veri” problemi, ma ignora sovranamente la novità storica che ha reimpaginato da cima a fondo il rapporto che lega modo di produzione e forma di vita. Le smodate ambizioni di una generazione sono infatti, per chi ha occhi per vedere, niente altro che l’eredità di una classe che ha distrutto l’etica del lavoro consumandolo nella sua integrale socializzazione. Allora generazione e classe dovrebbero riprendere solidamente a conversare. Chi ha istituito il risentimento e la falsa coscienza come specola da cui guardare a un mondo grande come le passioni tristi che coltiva non sa né può conoscere la gioia e la fatica dei corpi pensanti che ogni giorno fanno discretamente avvenire un altro mondo in questo. Solo chi ignora che alla base di ogni produzione c’è sempre la cooperazione di molte e molti (general intellect, unica mens – che vuol dire cervello e braccia, sinapsi e sudore, sempre assieme) può distillare una formula tanto fasulla come “prosumer culturale”. Chi esiste è il prosumer: una figura soggettiva nuova come tutte quelle che emergono dall’urto e dal conflitto tra innovazione e sussunzione. I beni posizionali non sono altra cosa da quelli economici, non già secondo la logica della mistificazione, ma secondo quella, materiale e astratta, della valorizzazione. Soltanto un’inspiegabile, liceale troppo liceale, considerazione del “culturale” come ciò che tutti non possono non desiderare può fare l’economia del più banale dei desideri: quello di voler costruire una vita che non ci dispiaccia troppo nel bel mezzo di quel che ci capita e che ci facciamo capitare. Il tramonto della distinzione e la crucialità del ceto medio per nominare – non certo spiegare – la singolarità di traiettorie che congedano il Novecento con infinita e forse feroce tenerezza resta tutta da raccontare. L’elaborazione del lutto tutta da perfezionare. Ma è proprio in questa segregazione del possibile da un doveroso impartito da un inconscio genitoriale e ancora miserevolmente edipico e sovrano e tanto fallico che sta la novità di una generazione che non potendosi identificare esclusivamente in virtù di quello che guadagna, della famiglia da cui proviene, di coloro cui si accompagna, secondo i modi in cui fa all’amore, in grazia di cosa spera o in forza di cosa ricorda, può soltanto rivelarsi nel suo stile.

Una refutazione della Teoria non può darsi more sociologico (ceto medio, classe aspirazionale, precariato, new normal, slashers: sarebbero i capitoli di rubriche ancora da scrivere con l’ausilio di intere biblioteche). Essa deve intonare una contro-geremiade. Impudica, clamorosa e insindacabile come la capacità d’essere della generazione. I cui desideri, piaceri, ubbie, nevrosi e tic fanno perciò parte a pieno titolo delle sue ragioni per agire. Coltivare il desiderio secondo condizione non ha infatti niente a che fare con una “guerra fratricida” (l’espressione preferita nella Teoria per descrivere l’esperienza in cui saremmo impegnati); essere laici sul bene proprio e altrui non fa rima né con suicidio né guerra né con denatalità (sic!). Solo chi rifiuta la consistenza materiale e storica, oggi generazionale, di queste posture, penserà che l’apocalisse è più vera e reale dell’amicizia, della complicità, dell’alleanza, dell’esodo e della congiura. Il sugo della storia è un recalcatismo di riporto e coincide con la ricerca di surrogati di castrazione. Quel che è più incredibile è che questa soluzione si affacci senza che facciano mai capolino due personaggi concettuali a tutti gli effetti cruciali per farsi un’idea della forma di vita della generazione: mamma e papà.

Non ci sono loro perché non ci sono l’ironia, la tenerezza, la pietà di sé e degli altri, la ferocia dei sentimenti, la manutenzione della miseria e altre innumerevoli attività morali che ci impegnano e ci esaltano e deprimono con uguale intensità. Non c’è in sostanza, e alla lettera, salvezza. Fascista il sistema, e disperati, martiri, gli ambiziosi che ne sono vittime e incoscienti alimentatori. A questi inciprigniti personaggi cechoviani incapaci di ogni ironia verrebbe voglia di rispondere con le parole di Anna Marchesini, quando rendeva iperbolica e sublime Valentina Cortese: “Fatevi una canna, Leonìd, vi farà bene!”.

La generazione è laica sul bene che ciascuno cerca perché sa che quel bene è un compromesso; non è cioè né il bene né bene in sé: è il bene che risulta dall’urto tra quello che ci circonda e ciò che sopportiamo. Essa non può perciò accettare di tranciare un inesistente e ricattatorio nodo di Gordio tra “è tutta colpa del neoliberalismo” e queste famose ambizioni smodate (che son poi ciascuna diversa e contestuale e tutte governate da una misura della commozione e della semplicità che, fortunatamente, fa spesso e volentieri a meno di quella “cultura” che la Teoria ha deciso ingiustificatamente di issare a vessillo dei desideri di tutte e ciascuno). Il problema non è la “colpa”, vivaddio, ma come sia possibile accordare la crisi e le ambizioni, il contesto ai desideri, le rovine all’agio: che cosa è e che cosa sarà intrattenere, coltivare un’ambizione (cioè lavorare, amare, conversare, volersi e non volersi bene) in un contesto rovinosamente critico. L’ambiente è rovinoso, catastrofico ma è nondimeno un ambiente e cioè un’infrastruttura di risorse e di vincoli che per quanto sgangherata è ancora e sempre capace di animare e produrre mondi; si tratta di pratiche e arrangiamenti che hanno perso la leggibilità del progetto come registro futurologico, che hanno perso cioè le caratteristiche progressive e distintive che permettono a una morale tanto obsoleta di bacchettare forme di vita tanto inaudite e intrattabili. La precarietà è adesso una proprietà degli esseri. Quella proprietà che li esonera da ogni pradroneggiamento. Non c’è quindi né da ridere né da piangere.

Una contro-geremiade dovrà perciò domandarsi cosa può voler dire produrre un discorso “energetico” sulla generazione che non sia tuttavia “enfatico”; cosa vuol dire capire il proprio-ora facendosene qualcosa, rendendolo sensato? Cos’è un piacere senza grado morale ma unicamente e soltanto dotato di intensità? Il contrario di luttuoso non è festivo. La spensieratezza o l’idiozia sarebbero, sì, il premio spirituale più alto. Qui si tratta più modestamente di apparecchiare la festa che non ci faccia troppo imbarazzati. Sostenere miserie, meschinità, imbarazzi, impacci e slanci, entusiasmi, incanti e metamorfosi, tenendoli, sopportandoli, traducendoli cioè in un ingrediente di vita sensibilmente praticabile. Una vita non speciale è una vita incolpevole, illuminata di immanenza e salva; ma proprio perciò impossibile da assolvere. È più che mai tempo di new normal. È più che mai tempo di queer ora che mai come prima è queer il tempo stesso. È tempo di agio. Solo chi continua a sentire il conformismo come il più sicuro dei ricoveri può veramente disprezzarlo. Il disagio non è l’assenza di confort o l’ennesima forma del senso di colpa: è l’imbarazzo struggente di stare al mondo. Lo si sostiene praticando una spregiudicata infedeltà a sé stessi. A quello “stesso” che mai saremo. La nostra spina, la nostra delizia. La vita non si testimonia altrimenti che vivendola.