approfondimenti

MOVIMENTO

Spazzolare contropelo. I compagni, non i gatti

Come è difficile il rapporto fra generazioni di militanti e come è sbagliato disprezzare l’incomprensibile nuovo in nome di un passato più o meno glorioso

Ci sono constatazioni sgradevoli e controverse, che però fanno riflettere. Pronunciate per essere subito virgolettate e ritrattate. L’esempio più stridulo è quell’ «every woman adores a fascist» nell’anti-nazista Daddy di Sylvia Plath. Potremmo aggiungerne un’altra, meno iconica: «Ogni generazione di militanti disprezza e segretamente vuole annientare quella successiva». In entrambi i casi l’individuazione di una pulsione autodistruttiva serve a mettere in guardia contro il padrone, la minaccia invita all’autonomia e alla ribellione.

Tutto cominciò con i giacobini. Non solo inventarono la nazione e la militanza rivoluzionaria, ma sperimentarono per primi le lacerazioni fra militanti, così che molte teste furono tagliate ancor prima che una coalizione di moderati e terroristi pentiti chiudesse, con il Termidoro, la fase rivoluzionaria, con altri tagli di teste e lo scatenamento del Terrore bianco nelle province. Quello che restò, per la serietà con cui regolarono i conti, fu un popolo e e una memoria divisi – giacobini di varie fazioni, termidoriani, neo-giacobini, accomunati solo dalla resistenza a Napoleone e al ritorno dei Borboni. Trasmisero un’eredità, ma considerarono piuttosto male la generazione liberale susseguente, che si contentava di un regime costituzionale.

Filippo Buonarroti, scampato alla repressione della congiura degli Eguali di Babeuf e Darthé, inventò il meccanismo delle società segrete e delle congiure, istruì i carbonari ma non apprezzò il nazionalismo di Mazzini e tanto meno il moderatismo dei rivoluzionari del 1830. Diventò oggetto di culto per i repubblicani radicali e il nascente socialismo degli anni successivi, ma non venne mai a sapere che nella sua torre sul Neckar un poeta comunista impazzito firmava “Buonarroti” le sue ultime sublimi liriche.

Buonarroti aveva le sue buone ragioni: lui apparteneva a una generazione che aveva demolito la Bastiglia, decapitato Luigi XVI, costruito il mondo moderno, mentre questi cazzo di giovani si battevano per l’indipendenza nazionale o per sostituire un Orléans a un Borbone. Giusto perché era un isolato di buona volontà cercò di trasmettere un primitivo comunismo egualitario a nuove leve che chissà se lo capivano, immerse nel loro patriottico romanticismo. Però lo fece. E a loro volta i protagonisti del luglio 1830, delusi dal carattere borghese delle Trois Glorieuses, cercheranno di spingersi oltre. Victor Hugo, per esempio, fa morire Gavroche in una delle prime rivolte operaie, sulle barricate di rue de la Chanvrerie, il 5 giugno 1832; saluta quindi con entusiasmo la rivoluzione del febbraio 1848, è eletto deputato alla Costituente ma valuta illegittima la seconda fase, quella operaia e socialista del giugno, e considera con timore le nuove barricate, dove sente la cupa collera dei diseredati.  Solo il colpo di stato bonapartista lo rigetterà all’opposizione repubblicana, all’esilio e al molto cauto patrocinio della Commune del 1871. Le rivoluzioni corrono più veloci dei loro cantori.

La Commune, come del resto la I Internazionale, aveva raccolto insieme per l’ultima volta tutti gli eredi e i militanti delle rivoluzioni precedenti e in corso: neo-giacobini, blanquisti, anarchici, socialisti utopisti, proudhoniani, marxisti. In reazione a quella sconfitta la II Internazionale fece della militanza un affare di partito e perfino anarchici e populisti russi, che non vi aderirono, finirono per organizzarsi in strutture parallele, perfino più militarizzate. Partito vuol dire educazione e disciplina dei militanti, sacrificio del presente al futuro e anche il rapporto fra le generazioni cambia. “Nondimanco”, avrebbe detto Machiavelli, Marx fu il primo a dissociarsi dallo stile troppo statalista della socialdemocrazia tedesca ed Engels stesso ne fu mito fondativo più che leader ascoltato.

 

 

La forma-partito consentiva però una dialettica diversa: la generazione precedente continuava a sconfessare quella successiva, ma anche quest’ultima poteva rivoltarsi, magari in nome del ritorno ai maestri, a Marx per esempio. All’inizio dei XX secolo Karl Liebknecht, Rosa Luxemburg, Lenin ruppero con i dirigenti più anziani e instaurarono un nuovo stile di lavoro e una strategia più aggressiva – ciò che coincise con una svolta rivoluzionaria favorita dalle circostanze. Non sempre, peraltro, i nuovi arrivati furono avanguardia. La “leva leninista” del 1925 distrusse i protagonisti della rivoluzione, “vecchi bolscevichi” e trotskisti, e supportò il consolidamento del potere di Stalin e poi l’eliminazione fisica di tre leve di militanti (compresi i primi quadri staliniani).

A partire dagli anni ’60 del “secolo breve” in Europa la figura del militante di partito declina e scompare, sostituita (come d‘altronde era stato sempre negli Usa) dalla figura dell’attivista. Il rapporto fra generazioni, non più mediato dalla pedagogia e dall’organizzazione, si fa più convulso e bruciante. Facciamola breve e concentriamoci sull’Italia, con particolare attenzione ai centri sociali e trascurando le residue, del resto infelici, figure residuali di partito.

Distinguiamo quattro classi d’età: 1977, Genova, Onda e post-Onda – gli ultimi arrivati, i millennials, compresa la classe degli anni ’90 che ha fatto in tempo a vedere la risacca dell’Onda. Questa stratificazione minuziosa, che tiene insieme vari livelli decrescenti di ideologizzazione e di coerenza, potrebbe essere esemplificata per fase anche in termini di sostanze chimiche dominanti o di preferenze musicali, un po’ meno secondo riferimenti filosofici e politici – che ci sono ma non sono appariscenti come gli altri indicatori elencati. Non è soltanto un portato anagrafico, perché vi sono attivisti che si retrodatano in un tempo immaginario, a volte ai tardi anni ’70, più frequentemente a quello immediatamente precedente, dei fratelli/sorelle maggiori o dei partner. Per via dei movimenti femministi e di genere, la stratificazione è complicata dall’appartenenza di genere e alle varie fasi del femminismo nostrano, dagli esordi a NonUnaDiMeno.

Un grande fenomeno di fusione di esperienze di movimento e di autonomia, ma dentro cui, deragliata dai binari destinali della militanza di partito, l’invidiosa ostilità dei più “maturi” verso gli “immaturi” replica il solito schema. Magari meno giustificato da una storia gloriosa, ma sempre seguendo un copione standard: «ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione», ecc. E volete sbattermi in faccia il trap, io che ho cacciato Lama dalla Sapienza o ho partecipato al primo rave? Paternalismo da dislivello d’età, dove una memoria sovradimensionata combatte con gli acciacchi incipienti e dove chi non può dare più cattivi esempi offre buoni consigli, per citare un Faber ancora condiviso.

Poi ci sono le sopraffazioni politicamente pericolose che, per criticare le presunte deviazioni del presente, sporcano retroattivamente il passato.  Per esempio l’irrisione dell’umanitario del soccorso ai migranti, mediante complicate operazioni di decostruzione dell’antirazzismo bianco oppure rozze contrapposizioni fra ultimi e penultimi in stile sovranista di sinistra, condite con l’imbecille supposizione che chi si oppone a Salvini sui migranti “fa il gioco di Salvini”. O, nella versione, più moderata da “senso comune”, non fa il gioco di ma neppure scalfisce il suddetto…

E giù a cercare la “chiave di volta” delle lotte, che sono sempre “ben altre” da quelle in corso – si tratti di Mediterranea o dei Gilets jaunes o dei Gay pride o dei Fridays ecologisti. In questi casi l’appello ai valori forti non è soltanto autoconsolazione senile ma diseducazione controrivoluzionaria dei giovanissimi, una falsificazione del passato – come se il “rifiuto del lavoro” o gli aumenti eguali per tutti o la contestazione del G8 non avessero implicato momenti immateriali e simbolici, non avessero chiamato in causa diritti umani e civili. Come se un tempo non fossero stati in gioco i corpi degli attivisti e i corpi per i quali gli attivisti si battevano.

Le buffe o vergognose incomprensioni dipendono da costanti universali umane (la dissipazione neuronale, le abitudini) e da una congiuntura storica sfavorevole, in cui le sconfitte (male) incassate e i cambiamenti della comunicazione riversano in rete e nel dibattito fra compagni i cattivi umori che altrimenti si sfogavano contro i nemici di classe. Allo stesso tempo segnalano che la composizione di classe è cambiata e con essa la mentalità degli attivisti, le loro forme di vita e di azione.

La centralità assunta dalla questione dei migranti e dal diritto di fuga è l’aspetto, spesso ridotto a questione umanitaria (discorso giusto, però limitativo) di un fenomeno di mobilità che vede ormai emigrare dall’Italia molte più forze valide di quante immigrano o anzi spesso transitano soltanto per il nostro paese venendo dal Sud del mondo. Sempre più persone “disertano” le lotte a casa loro e vanno a farsi sfruttare e a combattere lo sfruttamento in casa d’altri: forse che è strano? Ma che mai furono le grandi ondate economiche e politiche dall’Europa agli Usa e la conseguente nascita dell’IWW? O l’esodo dal Sud al Nord e le grandi stagioni rivendicative degli anni ’60 e ‘70?

La forma di vita del migrante e del precario non può essere trattata con le categorie e lo spirito di altre fasi politiche. Non era così bella e a tutto tondo come ci siamo rappresentati, sul filo insidioso della corrente, quella dell’operaio di fabbrica o del guerrigliero, ma il cattivo nuovo è sempre meglio del buon antico. È quanto sta su piazza nel presente e probabilmente abita pure un pezzo di futuro.  E la politica si fa in quelle dimensioni e con quei corpi.

Dopo di che mi sento libero di proclamare che Janis Joplin è incomparabilmente meglio di Achille Lauro e di pensare (in privato, per non litigare con troppi compagni tutti insieme) che l’ascolto dei quartetti di Beethoven sia più salubre della techno. Ma la politica è altra cosa: incorpora il tempo e la contingenza dove ci si riscontra con le occasioni effettuali, piacciano o meno. Non tutto va assecondato in nome del presente, beninteso, ma cominciamo a non assecondare le nostre delusioni abbellite dalla memoria. La battaglia è su due fronti: risalire alla radice di classe dei fenomeni e cogliere i punti di scontro sulla superficie, vedere in prospettiva e gestire l’indignazione di massa.