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«Socialmente pericolosa». Storia di Eddi

In uscita “Rabbia proteggimi” di Maria Edgarda Marcucci (detta Eddi), dalla lotta contro Daesh all’assurda misura di sorveglianza speciale che subisce in Italia («A quanto pare, basta guardare come mi muovo per capire che sono pericolosa») e che dovrebbe finire tra pochi giorni. Tra personale e politico, una storia militante

Due anni fa, in questi giorni, io e Maria Edgarda Marcucci ci chiedevamo se mantenere un evento che si sarebbe dovuta tenere il 5 marzo, a Napoli: avremmo dovuto presentare il numero della rivista “Zapruder” sulla violenza agita dalle donne, di cui ero curatrice. Il Covid già c’era, ma sembrava riguardare solo un paio di regioni di Italia. Decidemmo comunque di rinviare quella presentazione: non ci sembrava giusto attraversare l’Italia, nonostante – e forse proprio perché – la politica istituzionale invitasse a “non fermarsi”. La recuperammo, ad aprile, online, approfittando dell’attenzione che ancora veniva riservata agli eventi virtuali durante il primo lockdown.

Da allora, io ed Eddi – come tutti, o quasi, chiamano Maria Edgarda Marcucci – siamo passate da essere conoscenti le cui strade si erano incrociate qualche volta a essere amiche. Ci siamo viste – complice anche il fatto che nel frattempo lei sia, come dice, «de-migrata» a Roma da Torino – decine di volte. Ma mai ci siamo potute vedere, dopo le 21 di sera, fuori di casa sua: perché il 17 marzo 2020, tra la presentazione che ci sarebbe dovuta essere e quella che poi c’è stata, a Eddi è stata applicata – per due anni, a meno di rinnovi – la misura di sorveglianza speciale, su richiesta del Tribunale di Torino.

«Sorvegliata speciale», «socialmente pericolosa» (per quanto incensurata), perché “colpevole” di essersi unita, nel 2017, alla resistenza curda contro l’avanzata dello Stato Islamico nella Siria del nord, combattendo in particolare nelle fila dell’Ypj, l’Unità di protezione delle donne in Rojava.

Dal 17 marzo 2020, dunque, Eddi Marcucci deve notificare in commissariato i propri spostamenti fuori del comune di residenza, non può trovarsi fuori casa fra le 21 di sera e le 7 di mattina, né frequentare locali pubblici dopo le 18 o partecipare a pubbliche riunioni. Non può guidare né andare all’estero, né frequentare persone condannate. Deve portare con sé un “libretto rosso”, sul quale la polizia annota i suoi movimenti. Le viene chiesto, con un’espressione quantomeno vintage, di «vivere onestamente».

Potrebbe sembrare una beffa: lo Stato islamico contro il quale Eddi ha scelto di combattere è un nemico anche dello Stato italiano, che invece ha scelto di punirla limitando la sua libertà. Il discorso, tuttavia, è ben più complesso. La sorveglianza speciale che le è stata assegnata – una misura preventiva e non penale (perché non segue alcuna condanna) elaborata nei primi anni dello stato unitario liberale e poi sviluppata durante il regime fascista – rappresenta, infatti, una forma di criminalizzazione del dissenso.

In una sorta di ritorno a un’applicazione della giustizia preilluminista, infatti, Eddi non è stata sanzionata per qualcosa che ha fatto, ma per quello che è, cioè una militante politica attiva – come gli altri quattro per i quali era stata richiesta la stessa misura – nei principali conflitti sociali in atto in Italia, dalla lotta No Tav a Non un di meno, dagli appuntamenti antifascisti all’organizzazione delle lavoratrici e dei lavoratori contro uno sfruttamento sempre più smaccato, ad esempio nel settore della ristorazione. Del resto, se fosse davvero un problema che lei sappia usare le armi, lo sarebbe anche per tutti i milioni di uomini che, in Italia, fino alla sua sospensione nel 2005 hanno fatto il servizio militare obbligatorio.

Marcucci ha scelto di raccontare la sua storia – tanto la scelta di prendere parte a un esperimento di rivoluzione sociale che ha incontrato la necessità di autodifendersi dall’Isis, quanto l’incredibile (inspiegabile dice giustamente nel sottotitolo del libro) vicenda giudiziaria che l’ha coinvolta – nel volume Rabbia proteggimi, in uscita il 1° marzo per i tipi di Rizzoli Lizard.

L’indice segue esattamente questa alternanza: una vita scandita, negli ultimi anni, dal ritmo delle udienze e dagli effetti dei processi. Scandita, certo, ma non piegata perché, come Eddi scrive, nel corso di questi due anni ormai quasi giunti al termine, ho sempre fatto le «dovute» comunicazioni di spostamento e sono rincasata alle 21.00.

Credo di aver vissuto onestamente, ma non ho rispettato le nuove leggi imposte alla mia vita, perché ho partecipato a un sacco di «pubbliche riunioni». Ho continuato a svolgere attività di divulgazione sul Kurdistan e l’Aanes, sul movimento rivoluzionario, non mi sono privata di alcuna occasione di confronto e dibattito.

Sono andata in piazza il giorno dello sciopero dell’8 marzo, il 25 aprile, in occasione delle marce No Tav, in solidarietà alle donne e alle persone che resistono in Afghanistan. Sono andata a commemorare il genocidio di Shingal con la comunità curda, alle presentazioni del libro di Orso, a tifare ai match della Palestra popolare di Quarticciolo… insomma, credo che il concetto sia chiaro. Certo non ho davvero potuto fare tutto quel che avrei voluto.

Ogni volta che ho deciso di prendere parte a un evento pubblico mi sono dovuta chiedere: e se questa mia rottura del decreto avesse delle conseguenze? Per esempio, un processo con condanne da tre a dodici mesi? Penserò che ne sarà valsa la pena? Se ci sono andata, è perché mi sono risposta di sì. Sì, perché questa è una lotta che ritengo importante, quindi vado in piazza, ma anche solo sì, perché questa cosa mi dà nutrimento, potrebbe farmi crescere. (p. 243)

Le parole che Eddi snocciola nel volume sono, pagina dopo pagina, efficaci e fortissime, e al contempo umili e ben radicate nelle contraddizioni del mondo contemporaneo:

La mia non è stata una resistenza epica, non ho dovuto affrontare nessuna incredibile battaglia: ho solo continuato a riempire il mio tempo con tutto quello che ritengo importante, cose senza le quali non vedo un futuro possibile per questo mondo: berxwedan jiyane, la resistenza è vita.

Perché, anche se in tanti fanno di tutto per ignorarlo, è in corso un enorme sforzo collettivo, un conflitto aperto, che attraversa tutto il mondo. In Siria si lotta contro Daesh non solo per una questione territoriale, ma per proteggere l’umanità intera. (p. 244)

Eddi spiega, illustra la quotidianità come heval Shilan (come la chiamano le persone con le quali ha combattuto) e della vita nelle Ypj, dalla costruzione dei vialetti dell’accademia delle Ypj international («Quando sono entrata nelle Ypj, i miei primi compiti avevano poco a che fare col kalashnikov e molto con cemento e badili», p. 19) alla preparazione di una «bella pasta all’italiana» per festeggiare il ritorno delle altre combattenti dal fronte.

Ma Eddi ha anche l’incredibile capacità di fornire alla lettrice e al lettore gli strumenti per capire la portata storica di quello che sta leggendo: un intero capitolo è ad esempio dedicato alla ricostruzione della biografia e della detenzione di Abdullah Öcalan, il presidente del Pkk. La vicenda personale di Marcucci – dalla guerra in Siria alla condanna in Italia – non sarebbe comprensibile, infatti, se non inserendola in un contesto più ampio, se non attraverso le lenti cui ogni giorno dovremmo leggere ciò che ci sta intorno.

La stessa condanna di Eddi – unica a essere condannata alla sorveglianza speciale tra coloro per i quali era stata chiesta dal Tribunale di Torino: non a caso, unica donna – non sfugge a una delle chiavi di lettura universali per comprendere il mondo, quella del patriarcato.

Marcucci ricorda le parole pronunciate su di lei dalla pm Emanuela Pedrotta:

«… e poi l’avete vista Marcucci, col suo passo marziale, quell’andatura aggressiva…». Questa frase mi rimarrà impressa. Il tono con cui l’ha pronunciata, la sua postura, la scelta delle parole… No, quella frase non la dimentico e non me la voglio dimenticare mai, perché per me è il momento in cui la procura mi ha accusato di aver infranto una norma che va al di là del codice penale. Quella che alcune vite infrangono anche solo respirando, con la loro semplice esistenza; la norma dei generi, la regola del sesso, la garanzia che ci sarà sempre chi sta sotto e chi sopra: la legge patriarcale.

La cosa che mi ha impressionata in questa frase non è lo psicologismo di bassa lega, che ha scandito un po’ tutto il processo, ma il fatto che è l’unico momento in cui è stato menzionato il corpo di una persona, il mio corpo. […] L’unico corpo che è entrato in quel processo è il mio.

L’unica persona che è stata proposta come sorvegliata speciale non solo per quello che pensa, ma anche per come cammina, sono io. A quanto pare, basta guardare come mi muovo per capire che sono pericolosa: dove vuoi che vada con quella camminata aggressiva se non a mettere in pericolo la società? Perché va bene la guerra contro l’Isis e tutto quello che volete, passino l’anticapitalismo e le idee di rivoluzione… ma una donna che si muove così proprio no, di grazia. È socialmente pericolosa, suvvia, si vede.

Sentendo quella frase mi è sembrato di vedere in filigrana il dettame patriarcale che si applica ogni giorno anche in aule come questa, da molto prima che io e tutti gli altri presenti in questo enorme palazzo nascessimo. Impara chi sei, donna, e insieme al tuo nome impara la paura. E se smetti di averne, te la faremo tornare finché saprai comportarti. Finché la lezione non ti entra bene in testa, al massimo te la apriamo a martellate (pp. 230-231).

Tutto, nel libro, ruota intorno a questo scambio e questo rimbalzo continuo tra personale e politico, tra l’«autocronaca giudiziaria» che Eddi esplicitamente rifiuta e la descrizione di una rivoluzione sociale che si erge a difesa dell’umanità tutta. Perché se è vero che il personale è politico, non è meno vero che il politico è personale. Non so quanto consciamente, Eddi espone – con una capacità stilistica che coinvolge e commuove – una serie di limiti, di difficoltà, di paure che sono i suoi ma che sono quelli di tutte e tutti: vedere la propria finitezza e cercare di superarla è un atto politico.

Come quando non riesce a scrivere il discorso per il funerale, a Rifredi, di Lorenzo Orsetti e non riesce neanche a confessare agli altri compagni la sua difficoltà:

Ho mancato alla parola data ai miei compagni, non sono riuscita ad assolvere alla mia responsabilità né sono riuscita a chiedere aiuto per farlo. Quest’ultima forse è la cosa di cui mi vergogno di più. Mi odio anche per non essere riuscita a comporre delle frasi di senso compiuto, ma il fatto di non essere riuscita a chiedere una mano mi fa proprio schifo. Ho creato un problema enorme e nel farlo ho anche tradito tutto quello in cui credo.

A chiunque capita di inciampare e a tutti fa paura anche solo l’idea che capiti, io non faccio eccezione, anzi. Proprio per questo credo che non esista libertà senza comunità. Perché in una società in cui le persone si prendono cura le une delle altre questa cosa fa meno paura, o almeno si affronta insieme e si vive meglio. «Se cado io, ci sei tu»

Quella che si può percorrere insieme, in più persone possibili, è l’unica strada che vedo davanti a me, per imparare a essere più libera. Perché non voglio pensare tutto il tempo a non cadere, voglio vivere, fare pace con la mia fallibilità. Si cade, capita. Ma questo può avvenire solo creando dei rapporti di fiducia, in cui ci si appoggia reciprocamente senza sentirsi il peso del mondo addosso (pp. 174-175).

Anche in questo caso, è la fiducia dei compagni a tirarla fuori dall’impasse: siamo forti e riusciamo quando facciamo parte di una comunità in cui tutti e tutte si sostengono a vicenda.

Ma fare parte di una comunità – e in particolare di una comunità rivoluzionaria che si autodifende contro Daesh – significa anche fare i conti con la morte: con il rischio della propria e, soprattutto, con quella dei propri compagni.

Se la «prima vita» di Eddi si è già conclusa nel 2010, quando è morta Giulia Gomez – colei che è stata niente meno di una sorella (anche se non biologica) e che, nelle parti del volume illustrate dai disegni di Sara Pavan, rappresenta la referente del dialogo attraverso il quale Eddi cerca di riordinare i suoi pensieri – il rapporto con il lutto e su come affrontarlo emergono in più parti.

Non è un caso che il volume si apra con l’immagine di Hêlîn, la combattente inglese Anna Campbell, rimasta uccisa nel marzo 2018 ad Afrin.

Hêlîn ed Eddi erano amiche, così amiche che, quando pur essendo nello stesso battaglione le mettono in due team diversi, non chiedono di stare insieme perché «così ci sono più probabilità che almeno una delle due sopravviva» (p. 7). Undici parole che dicono della guerra più di quanto possano fare mille articoli di giornali.

E poi, ovviamente, c’è la morte di Lorenzo Orsetti, Orso, il partigiano di Rifredi che Eddi definisce «curioso e beffardo, ma senza risultare arrogante» (p. 76): un’impressione che il suo sguardo trasmette in ogni foto e colpisce il cuore e la mente anche di chi non l’ha mai conosciuto.

Anni fa, ho sentito una persona che ha fatto la scelta delle armi in tutt’altro periodo storico e contesto geografico dire, a proposito del rapporto con la morte, che «il cuore dei rivoluzionari è più ricco di croci che di alberi fioriti». Il cuore di Eddi, forse, sembrerebbe non fare eccezione a questa regola, ma leggendo le sue parole viene il dubbio che sia vero anche – e forse soprattutto – il contrario:

Non so come continuerà questa storia. So solo che se il 17 marzo 2022 la mia condizione di “sorvegliata speciale” finirà, il 18 pomeriggio sarò a Roma, al doposcuola a Quarticciolo, a raccontare la storia di Shehîd Tekosher Piling, Orso, partigiano rivoluzionario di Rifredi, caduto in battaglia a Baghouz.

E se invece non finisse? Penso che sarò comunque a Quarticciolo a parlare di Orso. Non farlo sarebbe l’ennesima rinuncia dovuta a un’imposizione assurda, sarebbe inaccettabile. Questa parola, inaccettabile, la uso con la dovuta cautela, perché per me comporta una responsabilità: non basta dirlo, bisogna comportarsi di conseguenza. Ed è quello che ho intenzione di continuare a fare (p. 249).

Finché sappiamo trovare, nelle nostre vite e nel mondo intorno a noi, qualcosa di “inaccettabile” al quale opporci, gli alberi fioriranno: siano questi fiori la resistenza contro Daesh o il doposcuola di un quartiere popolare alla periferia di Roma.

Immagine di copertina di archivio