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CULT

Si scrive “privati”, si legge “comune”

Il libro “Il diritto dei privati” di Widar Cesarini Sforza del 1929 è stato ripubblicato con la curatela e un saggio di Michele Spanò per i tipi di Quodlibet. Il libro s’inscrive nella tradizione giuridica istituzionalista e sostiene che il diritto si produce in modo immanente alla società. Un punto di partenza indispensabile per ripensare la questione del comune

le battaglie finiscono, si vincono, si perdono,

ma i collettivi restano, si stringono, proteggono, rispettano

e pure se finiscono, cambiano le cose nel momento in cui si formano.

(99 Posse, Soggetti attivi)

 

Il 29 novembre 2001 al Roseland Ballroom di Manhattan sono in cartellone nove incontri di boxe professionistico: un evento di beneficenza – Fighting for America: A Night of Thanksgiving– con tutti gli incassi devoluti al Twin Towers Fund per la ricostruzione di New York nel post-11 settembre. L’incontro principale, l’ultimo, vede uno di fronte all’altro James Butler Jr., il “martello di Harlem”, e Richard “the Alien” Grant, di Kingston, Jamaica. Al termine di un match combattuto, Grant vince ai punti, con decisione unanime dei giudici. Butler si dirige verso l’avversario: sembrerebbe volersi congratulare. E invece – eccolo, l’inatteso – lo colpisce alla mascella con un gancio destro che lo manda, sanguinante, al tappeto. Poi, con sovrana noncuranza, torna nel suo angolo, dove una decina di agenti – una volta ripresisi dallo stupore – si precipitano ad ammanettarlo. Butler viene condannato per aggressione aggravata: sconterà quattro mesi nel carcere di Riker’s Island.

In questo episodio c’è qualcosa che sfugge. L’attenzione, inevitabilmente, è attirata dall’éclat del colpo in primo piano: l’esplosione irrazionale di violenza, la brutalità dello schianto. Con la coda dell’occhio si percepisce però, sullo sfondo, un elemento che è forse più razionale, più anonimo, ma non per questo – almeno immediatamente – di più facile lettura. Nel corso di dieci riprese, Butler e Grant se le sono date di santa ragione; hanno sanguinato; sono andati a terra, e si sono rialzati. L’uppercut sferrato a fine gara non è certo stato l’unico della serata. Eppure, prima di quell’ultimo istante, a nessuno sarebbe venuto in mente di arrestare i contendenti per rissa o, poniamo, per lesioni personali. Poi però l’arbitro fischia, e l’atto magicamente si trasforma. Quel fischio segna allora un discrimine, un punto di passaggio: il pugno che, al di qua di quella soglia, è gesto sportivo tecnicamente (e persino esteticamente) apprezzabile, diventa reato penale. Come ha scritto Tim Smith del “Daily News”, a ridosso degli eventi: ciò che Butler aveva commesso non era più semplicemente «una grave violazione delle regole del pugilato, era un crimine».

Possono esserci vari modi di rileggere la scena dall’angolo visuale del diritto. Si può ad esempio dire: la materia del fatto – il gancio destro– è la stessa in entrambi i casi, ma le forme giuridiche che la qualificano sono diverse e il sinolo che ne risulta produce effetti di realtà differenti – una vittoria per K.O. o una condanna fino a sette anni di reclusione. Sin qui nulla di strano: non è raro che una medesima fattispecie possa essere sussunta sotto norme distinte. Tuttavia, la peculiarità dell’esempio in oggetto è che il concorso di norme non avviene in un orizzonte sincronico ma diacronico: non una l’altra, ma prima una e poi l’altra. Il che implica che tra di esse – o meglio, tra gli ordinamenti in cui esse si iscrivono – si dia un rapporto di coordinazione orizzontale (et-et) e non di subordinazione gerarchica (aut-aut). Accorciamo il ragionamento di qualche passaggio e arriviamo alla conclusione: il mondo sociale si compone di sistemi normativi molteplici e reciprocamente indipendenti, senza che sia mai possibile tra di essi alcuna definitiva reductio ad unum. In estrema sintesi, è questa la tesi caratterizzante di uno di quei «tre tipi di pensiero giuridico» che con Schmitt abbiamo imparato a chiamare «istituzionalismo». Tre opere figurano come altrettante pietre miliari nella genealogia di questa, peraltro variegata, famiglia teorica: L’ordinamento giuridico di Santi Romano (1918), La théorie de l’institution et de la fondation di Maurice Hauriou (1925) e Il diritto dei privati di Widar Cesarini Sforza (1929). Grazie all’intelligente politica editoriale di Quodlibet, il primo e il terzo, da tempo introvabili sugli scaffali, sono ora tornati disponibili al vasto pubblico.

Data però la maggiore notorietà di Romano, è forse il volume cesariniano che ha più il sapore di un’autentica riscoperta. Non è, si badi, un’operazione di pura archeologia erudita: e il saggio conclusivo del curatore Michele Spanò (il cui titolo, Zona Cesarini, merita di per sé una menzione a parte) si incarica di dimostrarlo, riattivando attorno al testo il circolo ermeneutico che lo proietta fuori dalla congiuntura nel quale pure era nato – il giro di anni in cui il fascismo va elaborando quella dottrina corporativistica che proprio in Cesarini Sforza vede uno dei suoi principali artefici – e lo reimmette con forza nel presente. L’effetto è quello, potente, dell’après-coup: tanto che l’appendice a firma Spanò arriva a trascendere la sua natura solo apparentemente paratestuale fino a farsi parte integrante di questa seconda vita de Il diritto dei privati. Del resto, è sufficiente chiarire il significato del sintagma per coglierne immediatamente la carica di attualità latente. Il diritto deiprivati – o dei collettivi, come Cesarini lo ribattezza in un articolo del 1936 poi aggiunto alla seconda edizione del volume nel 1963, e che accompagna anche questa sua versione più recente – non va confuso né col diritto privato né, a fortiori, col diritto pubblico, trattandosi invece di quel diritto «che i privati medesimi creano per regolare determinati rapporti di interesse collettivo in mancanza, o nell’insufficienza, della legge statuale» (p. 13). Cesarini condivide con gli altri istituzionalisti la premessa maggiore del ragionamento: l’idea cioè che i concetti di diritto e Stato siano, non solo in linea di principio ma anche in punta di fatto, dissociabili. L’ordinamento statuale esercita evidentemente – benché quest’evidenza sia forse oggi più attenuata che allora – un primato: ma questo ha meno a che fare col potere di creare le norme che con quello di decidere a quali di esse prestare la sua violenza legittima, garantendone la realizzazione; e l’errore dei giuristi sta nel trasformare «la preminenza (pratica) dello Stato nell’applicazione del diritto […] nel monopolio (teorico) della sua creazione» (p. 26). Come anche per Romano e Hauriou, la riduzione di tutta la giuridicità all’unica fonte trascendente dell’Uno sovrano è il frutto di un’illusione prospettica; al contrario, la realtà sociale è attraversata in lungo e in largo da una serie di processi giusgenerativi immanenti che ne fanno un bricolage di sfere normative autonome e variamente componibili.

In Cesarini, tuttavia, la tesi del pluralismo ordinamentale prende una piegatura originale. Intanto, particolarissima è la relazione che egli disegna tra la materia sociale e la forma giuridica. Nella sistemazione romaniana, questa relazione restava essenzialmente estrinseca: da un lato le norme, dall’altro le attività e le «situazioni pratiche» che le norme mirano a in-formare, e su cui perciò finiscono per imporsi. Ne Il diritto dei privati, invece, il prius logico non sono le regole ma i soggetti; o meglio, i rapporti di diritto/obbligo che i soggetti stringono tra loro e che, mediati da regole, si dicono rapporti giuridici. Il diritto non è la forma che cala dall’alto per plasmare la vita, ma il nome di quell’indistinzione tra forma e vita che costituisce «la trama sociale, sulla quale si stende poi la complicatissima orditura dei rapporti etici, politici, economici, e via dicendo» (p. 22). Come scrive benissimo Spanò, «Cesarini Sforza oppone quindi a Romano un altro circuito della normatività, liquidando così ogni surrettizio economicismo: il diritto non è la forma di una materia sociale. È, piuttosto, la materia formale – o la forma materiale – del sociale» (p. 132).

Questa configurazione così peculiare fa saltare non solo il paradigma materia-forma che era – e resta – alla base di molta dottrina giuridica, ma anche il dualismo apparente di pubblico e privato, legge e contratto. Apparente perché, come noto, tra i due poli della «topologia moderna» si dà in realtà non vera opposizione ma sostanziale omologia: «individualismo giuridico e sovranità statale», ricorda Cesarini, «non sono concetti contraddittori né politicamente né giuridicamente» (p. 110). Tra le due ganasce della medesima tenaglia, il Contr’uno cesariniano inserisce allora il cuneo di un tertium datur, che è appunto lo spazio dell’autonomia dei privati (da non confondere, di nuovo, con l’autonomia privata), dei rapporti e degli ordinamenti giuridici cui essi danno vita nel tentativo di perseguire uno scopo comune. È, ancora, lo spazio della cooperazione e della produttività sociale, di quei singolari collettivi in cui si concreta la tocquevilliana «arte di associarsi» e che Cesarini dice in vari modi: organizzazioni, associazioni, istituzioni, corpi sociali. È, infine, lo spazio dell’interesse collettivo, «più che privato e meno che pubblico» (p. 104), che si apre tra – e quindi oltre– il pubblico e il privato. Esplicitiamolo meglio: quello che nel 1929 il giurista di Forlì chiamava «diritto dei privati», oggi per noi suona come «diritto del comune». E se ha senso tornare a leggere quelle pagine, è precisamente perché esse ci aiutano a pensare, scrive Spanò, «un collettivo che non si risolve nel generale e nel pubblico e neppure si riduce all’individuale» (p. 146), o anche perché esse attestano «della possibilità di un pubblico non statuale e di un privato non patrimoniale» (p. 144): che è poi ciò di cui oggi si va in cerca ogni giorno nei movimenti dei commons, nei posti occupati, nelle varie e disperse sedi in cui si organizza l’intelligenza sociale. Il fatto che le parole per nominarlo ci vengano dalla penna di un fascista non è forse il più piccolo paradosso di questi tempi paradossali.