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“Shoplifters”: che cos’è una famiglia

Il film, Palmarès a Cannes 2018, fa venire molti dubbi sui confini fra biologico e affettivo, fra legalità e illegalismi, fra ordine e disordine. Un racconto che tiene insieme, senza giudizi espliciti,  apparenza e verità, o meglio vari regimi di verità e normalità

Il titolo internazionale Shoplifters (dall’originale giapponese Manbiki kazokuFamiglia di taccheggiatori, che meglio descrive la complessità del soggetto e le tematiche abituali del regista) è diventato in italiano Un affare di famiglia, replica asettica e ortofamilistica dei bei tempi in cui Domicile conjugal di Truffaut diventava Non drammatizziamo… è solo questione di corna. Del resto, il ministro del settore da noi è Lorenzo Fontana, mica Robin Hood.

Il film di Hirokazu Kore’eda sabota però subito la traduzione perbenista e parte, come Il giovane Marx di Raoul Peck, con una scena di riappropriazione del comune, taccheggio coordinato di padre e figlia nel supermarket di periferia, ovviamente, non furto di legna per esercizio di uso civico. E per fortuna senza intervento di gendarmi.

Seguono le vicende di un bizzarro quintetto (marito, moglie, cognata, nonna e figlio) che vive di espedienti ai margini di Tokyo e addirittura si fa carico di una bambina maltrattata e in pratica abbandonata dai genitori – Yuri, rinominata Rin. In apparenza una famiglia “naturale” di ladruncoli che si allarga per cooptazione (ma legalmente è un “rapimento”), in realtà una combinazione di non consanguinei, tenuti insieme da una complicata rete di interessi ma alla fine anche di abitudini, cooperazione produttiva delinquenziale, oggetti di recupero e affetti. Una scelta dettata dal bisogno, che però “scalda” pure i cuori, come scaldano i corpi le zuppe bollenti, le crocchette fritte, i fuochi precari che ritornano insistentemente in tutto il racconto. «La famiglia è meglio scegliersela» – è la battuta chiave del film.

A volte si esce dalla stipata baracca abusiva per respirare il fiume o il mare, a volte invece la realtà esterna (i licenziamenti, la legge) vi irrompono facendo saltare la protettiva “cospirazione” familiare e costringendoli a separazioni che denotano tanto la fragilità dei loro rapporti quanto la crudeltà della società “normale”. Alla fine Rin sarà costretta a tornare, assai controvoglia, ai genitori “naturali”, dove sarà infelice, mentre i “falsi” padre e figlio, al momento del distacco coatto, si scoprono vincolati da un affetto più forte del Dna. La società è stata foucaultianamente difesa e neppure in modo efferato, solo sacrificando (forse non definitivamente) la vita.

La società legale – case-rifugio, assistenti sociali, poliziotti – è premurosa e anaffettiva, la società illegale è calda, sfuggente, fallimentare ma anche con un filo di speranza. Il film si chiude con queste bellissime immagini di ambiguità, così come è percorsa dall’incessante interrogativo sulla liceità del furto (di necessità) e sull’insegnarlo ai minori. Una domanda che nella rigida società giapponese è molto più radicale che da noi. Shota esita e poi di fatto abbandona la pratica della microcriminalità (ma non chi gliel’ha insegnata, cui rivolge uno sguardo affettuoso mentre il bus si allontana), Rin replica il gesto apotropaico delle dita, che è il rito pre-taccheggio, e guarda triste fuori dalla finestra di casa.

In effetti il film gioca sull’indecidibilità fra verità legale e apparenza, fa trionfare la superiore realtà dei gesti e dei sentimenti quotidiani sulla trama giudiziaria e sulle parentele ufficiali. Genitorialità e fratellanza-sorellanza ne escono stravolti e gli spettatori pure. Sono gli effetti di un film quando riesce e scuote il senso comune.