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“Sepolta insieme a te ancora viva”. Su Legati i maiali di Teodora Mastrototaro

Con la silloge poetica “Legati i maiali”, Teodora Mastrototaro ci porta dentro l’orrore del mattatoio. Un orrore che, se interpretato da una prospettiva anticapitalista, ci si mostra per quello che è: la quotidiana trasformazione in profitto della carne-del-mondo. Il mattatoio come questione politica con la quale, oggi più che mai, è necessario confrontarsi

La creatura, qualsiano gli occhi suoi, vede / l’aperto.
Rainer Maria Rilke, Elegie duinesi, Ottava elegia

Lo stordimento è […] l’esser-assorbito dalla pratica, nella quale l’animale è aperto in relazione ad altro.
Martin Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica

 

1. Raro, estremamente raro, il confronto non mediato e senza sconti con l’osceno Reale del mattatoio. E, in questa contrada della rarità, mosca bianca per pudore o indifferenza, più assidua la prosa della poesia, con Tolstoj a guidare il susseguirsi, da allora ininterrotto, della presa d’atto dell’orrore con la sua visita inaugurale al macello di Tula nel 1891. È vero, talvolta qualche verso accenna fugacemente al mattatoio ma, solitamente, con funzione metaforica, con la testa girata verso l’umano, quasi a voler lasciare l’impensabile al di là della vista e lontano dall’olfatto. Di questo volgersi altrove è esempio il girovagare notturno di Charles Simic che, fermatosi per caso davanti alla vetrina di una «macelleria chiusa» – non alla ferita aperta e sanguinaria del macello –, vede «un grembiule» appeso a un «uncino» e vi scopre «grandi continenti di sangue / i grandi fiumi, gli oceani di sangue». Fiumi, continenti, oceani rappresi però in una mappa fissa, lontani, a miglia e miglia di distanza, dalla concretezza inquieta, disperante e violenta del territorio, da una incarnata geografia della carne.

 

2. In questo territorio dove vivi si è già morti, in questa zona tra-le-due-morti dove il vivo si fa morto, dove, a sentire Marx, il «lavoro morto […] si rianima, a guisa di vampiro, […] assorbendo lavoro vivo», dove la vita e la morte sono più che mai lavitalamorte, in questo nonluogo infestato e spettrale, dove le mappe non servono più, due volte è entrato Ivano Ferrari. Una prima volta per lavorarci, una seconda per lavarsi, con il dire poetico, da tutto quel dolore, dal dolore di quel mondo, dal dolore del mondo. È Ivano Ferrari, con la sua silloge intitolata Macello, a infrangere, nel 2004, l’interdetto che regola il mattatoio per esprimere, strofa dopo strofa, l’abominevole su cui la società si regge ma che vieta di fare e farne parola, per poter mostrare meraviglia stupita quando qualche frammento dell’inimmaginabile oltrepassa il confine pattugliato, con giurisdizione militare, dall’ordine simbolico, dal nomos-del-padre e dagli algo/ritmi del capitale, dalla sua matematica del dolore. Ferrari, con inusitato coraggio, passa dalla mappa al territorio e si avvicina allo spazio eterotopico del mattatoio, alle sue sale mortifere. Spazio eterotopico, il macello, se ha ragione Foucault quando afferma che le eterotopie sono spazi che, nelle reti di un sistema sociale, «sono legati a tutti gli altri» e al contempo «contraddicono tutti gli altri luoghi»: quale nonluogo più del mattatoio è in grado di sciogliere la patina scintillante della vernice democratica e bio/degradabile che l’Umano stende con efferata precisione sui muri delle sue istituzioni magnifiche e progressive?

 

3. V’è forse dubbio che Ferrari, con i suoi versi scarnificati, ridotti all’osso, mostri il mattatoio in piena luce, aprendo squarci tra gli strati sedimentati di tradizione, ipocrisia, insensibilità e malafede che lo ricoprono? Che sveli il macello per quello che è e non per quello che, sterile e sterilizzato, vorremmo che fosse e significasse? Che vomiti l’irrappresentabile, l’inaccettabile, l’esecrabile che, inosservato, si tentava di far scorrere via lungo un qualche canale di scolo? Che lasci irrompere la Cosa che lì si alimenta e si moltiplica sterminio dopo sterminio dopo sterminio? No, non v’è dubbio. Ma altrettanto indubbio è che Ferrari dica il mattatoio per liberarsene, per venirne fuori, per ritornare in vita. Anche se è arrivato fin sul vestibolo della «casa dell’Ade», Ferrari, come Odisseo, mantiene la giusta distanza, la distanza di sicurezza, che consente l’elaborazione del lutto, la distanza che non denuncia e non è corrosa dalle nebbie della melanconia. «Ma prima una schiera infinita si raccolse di morti, / con grida raccapriccianti: e verde orrore mi prese». E, allora, «presto alla nave fuggendo» – così canta Omero –, si allontana veloce «sul flutto scorrente», sospinto da «un bellissimo vento».

 

4. Oltre la soglia che protegge si inoltra, invece, con passo fermo, Teodora Mastrototaro con Legati i maiali. E oltrepassa la soglia del mattatoio con impeto tale da farlo esplodere e aprirlo sul suo prima e sul suo dopo – allevamento, viaggi, alienazione e hegeliani banchi di macellai –, «nell’attesa della morte» che altro non è che «il tempo che ci vuole / per far puzzare il cielo». Per Mastrototaro, insomma, «il macello non è un personaggio di finzione». E lei lo attraversa, di nuovo due volte – come studentessa di veterinaria prima, come attivista poi –, per non uscirne più, però, per continuare, spettro tra gli spettri, ad aggirarsi con i suoi versi, al contempo laceranti come bisturi e delicati come pianto sommesso, tra i versi che detta, impietoso, l’ininterrotto strazio smembrante della distruzione per moltiplicazione. L’inferno non smette più di bruciare la carne della poetessa, perché «quando l’inferno non ti brucia più ne fai parte / o non esisti». E lei è dentro l’inferno come piega del fuori che, in quanto necessaria, non cessa di scriversi. E «si scrive sempre per gli animali», afferma Deleuze. «Questo non vuol dire scrivere del proprio cane, o gatto, o cavallo, o del proprio animale preferito. […] Vuol dire scrivere nel modo con cui un topo traccia una linea, o torce la propria coda, o come un uccello emette un fischio, come un felino si muove oppure dorme pesantemente». Completa la lista Mastrototaro, che scrive come le madri che partoriscono in scatole, come un pulcino macinato che pigola al di là di qualsiasi gemito, come un’oca strozzata dal fegato enorme, come i sepolti vivi che trasudano disperazione, come il lamento inconsolabile che s’alza dalle vulve violate, come le strida delle ossa disarticolate dalle seghe, come la merda che cola nell’infinita sospensione di un decreto di morte già eseguito… Dante: «Questi non hanno speranza di morte, / e la lor cieca vita è tanto bassa, / che ’nvidiosi sono d’ogne altra sorte». Il marchio dell’inferno è ciò che resta dell’universale.

 

5. L’osceno occupa senza soluzione di continuità i versi di Mastrototaro passando, sorta di deturpato messia del «rovescio della carne», da una piccola porta, dalla lacerazione che i «pezzi di pelle» lasciati dai «maiali […] congelati» sulle «pareti del carro bestiame» mostrano in negativo. Quei maiali per i quali «il cielo si fa strada» «di un rosso sventrato» e che, «stipati», «spingono il muso che penetra il culo / di un compagno»; e «il culo appesta l’aria per la paura». È questo calco vuoto inscritto e scavato nella pelle che, legato indissolubilmente ai maiali offesi, ci lega al loro essere legati nelle percosse, nello sfinimento, nella più cupa insensatezza che precede la fine. In quel lasso di tempo disarticolato in cui chi sta per spirare «riconosce l’odore di chi lo aveva stuprato». È questo frammento dell’esistere che, pur venendo cronologicamente prima, Mastrototaro sa che poeticamente sta alla fine. Infinito impossibile che non cessa di non scriversi e che piccolo oggetto del desiderio forcluso, lettera “a” del vocabolario della violenza più efferata, circola senza fine tra le sue pagine, prova indiziaria dell’assenza di qualsiasi fine che non sia la perpetuazione interminabile della fine. Frustolo di tessuto smagliato che, «piaga malata», «estratto del corpo», «macchia sul culo», «mammella asportata», «buchi bianchi di midollo» in cui «le larve […] continuano il loro ciclo vitale», si fa storia dell’occhio, di un occhio bucato, perforato, enucleato che, trasformato in cosa non più distinguibile dalla «consistenza dell’asfalto», vortica da un sesso all’altro e da una morte alla successiva, fino a invadere l’intero permanere del mondo. «Quattro braccia robuste lo sollevarono e, a cosce spalancate il corpo dritto e strillando, come un maiale che sta per essere sgozzato, sputò la sua sborra», narra Bataille. Non a caso la storia dell’occhio, in Mastrototaro, è subito, in inversione reversibile, occhio della storia: «L’occhio che schizza dalla cavità orbitale / lascia una scia luminosa di plasma»; plasma che sventra la biopolitica per rendere «visibile» anche «solo per pochi secondi»,  il brulichio necropolitico che si riproduce «dentro dentro» – per continuare a inseguire Lacan – le sue viscere, nel fondo delle cose, nel rovescio della faccia, negli spurghi della carne, nella sofferenza informe che dunque siamo.

 

6. Urlo silenzioso, emesso «in una specie di trance», quello di un giovane Canetti che, studente in visita al mattatoio, mormora «Assassinio» di fronte al «minuscolo agnellino» che, «trasparente», «nuotava» «nella placenta» di «una pecora appena macellata, che giaceva squartata davanti a noi». Terribile forza della ri/produzione prelevata dai corpi – altro frammento smembrato e smembrante – per essere messa a lavoro e profitto, ri/produzione che, dai tempi di Canetti, si è massificata all’ennesimo potere come naturale neutralità naturalizzante che ruota, forsennata, nelle cavità orbitarie vuote, facendo correre brividi e terrore lungo schiene dalle vertebre sfinite. «La vacca sarà fecondata / per tornare a essere madre / di un figlio che sarà padre / di una figlia che sarà fecondata / per essere madre di un figlio il cui seme lo renderà padre / di una vacca che sarà fecondata / per tornare a essere Matrioska / fino alla fine del seme». E ancora: ascoltiamo «la madre» di Lucrezio che, alla ricerca del «figlio perduto», «trafitta dalla mancanza del suo giovenco», «riempie dei suoi lamenti / il bosco pieno di fronde». Alla quale, oggi, dal «sexy bordello», rispondono schiere innumerabili di altr* figl*, «siamo orfani / da quando siamo stati partoriti», di altre madri, dai più difformi genomi, il cui «orifizio vaginale» è stato percorso, fino alla cervice, da dita disinibite e strumenti lubrichi forieri di spregevoli fecondazioni. Parti del mondo. «Non c’è stagione da salvare», né specie né razza, o variante che sia, si salva dalla banale malvagità della norma eteropatriarcale.

 

7. Zero testimoni, infiniti archivi. Nessun* torna dal macello, ma chilometrici e labirintici sono i suoi archivi fatti di codici, partite doppie, conti, conteggi, contratti, marchiature, incisioni… Archivi che vanno decifrati per quello che sono, come solo una poetica scrittura del disastro può fare. Da una metrica che disfi il metro, che dia un altro senso alle parole per restituirle alla materialità dei sensi graffiando via l’edulcorata velatura ipocrita e accecante. L’animale vede il compagno aperto, è pervaso fin nei suoi più intimi recessi dalle onde dello stordimento… E questo è ciò che fa la stregona Mastrototaro: poesia della crudeltà pronta a distruggere pur di aprire nuovi vettori di senso, crudeltà che mescola memoria e desiderio, che rammemora per desiderare, che desidera per ri/membrare, che ri/muove il rimosso per poter scrivere davanti all’agonia. Pharmakon, insomma, veleno che prova a curare, a prendersi cura. Non per parlare a nome d’altri, ma per divenire altr*. Di fronte all’agonia non c’è scelta, dicono Deleuze e Guattari: «Smettere di scrivere o scrivere come un topo». E Mastrototaro diviene scrofa, diviene gallina, diviene oca… La poesia – lo diceva già Adorno – non può darsi dopo il disastro. La poesia si dà con il disastro: «antiparola», nelle parole di Celan, «svolta del respiro», in cui «le cose stanno sempre […] nella loro cosalità estrema» e in un movimento verso «quell’Altro» che «immagina» «come suscettibile di essere liberato». Per usare espressioni di Hugo von Hofmannsthal, il poeta dei gridi di morte, degli spasimi dell’agonia, dei moti di disperazione è il testimone che sfonda l’archivio. Ecco perché il passo di Mastrototaro è ritmato dal non. Farmacologia dell’assenza scandita dalla metrica dalle «seghe» che rullano indefesse «nella sala di macellazione».

 

8. Impossibile pensare una polis senza cloache per poter far scorrere altrove gli escrementi degli umani lì ammassati, isolati insieme. Ma nei continenti di sangue che la poetessa percorre, la merda satura l’atmosfera: «la merda / diventa una rosa», «ho cacato immobile», «mangio mangime dove ho defecato». O, se preferite, «il cielo è una bugia».

 

9. “O” è la lettera di questa poesia. Vuoto del significante, beanza del Reale, orbita devastata, bocca che grida, occhio senza palpebra, «stomaco a terra», orifizio, buco del culo, lume di vaso che sanguina, piaga, cella frigorifera, gabbia di svezzamento, vasca, uncino, gola impalata, abisso, «aria chiusa del mio ventre», «ventre vuoto», pelle lacerata, «zona buia del carro / dove il sangue è indigerito», cavità, «falena che vola impazzita intorno alla luce della lampadina», ombra che «già non esisti», foro (del proiettile e della Legge). «Mammelle svuotate», bare di corpi che altro non sono che sepolcri di se stessi, per aumentarne la duplice resa (profitto e capitolazione).

 

10. Numeri: «“Io qui faccio lo schiavo!” / grida l’operaio numero 6 / con la pistola in mano / mentre aspetta la carne viva / del bovino numero 6849». «Ogni martedì giochiamo al Lotto / i numeri identificativi della marca auricolare». L’animale aperto e stordito è dappertutto. Pandemiche metastasi virali, oggi lo sappiamo bene, o dovremmo saperlo, se non fossimo già vaccinati col primo latte nero dell’alba. «La pausa tra la carne e il mondo si è ridotta».

 

11. Eppure… Eppure, non detto perché impregnato di melanconia di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato, che è stato per non essere più, che sarà per scomparire nello sterminato vuoto dei senza nome e delle vite infami, il dolore di Mastrototaro è affermativo. La sua polvere dell’esistenza non smette di alzarsi da terra. Se l’intera storia dell’insignificante pianeta fragile che abitiamo fosse una pellicola e potessimo farla scorrere di nuovo, la storia cambierebbe ancora e ancora e ancora. Non è questo il senso della rivoluzione? O, meglio, del divenire rivoluzionario che, esplicitando il lutto, apre linee di fuga sciogliendo con il pianto le mura millenarie – e le cantine, e le cattedrali – fatte di sudore e sangue della città del perenne massacro? È questo impercettibile ronzio di pellicola che si riavvolge, di pelle che ritorna a posto, la vena profonda che pulsa tra le pieghe di questa silloge struggente. Georgi Gospodinov: «I blocchi di carne tagliati si trasformano in una mucca […]. Le budella rientrano nuovamente nella pancia […]. E i coltelli degli addetti al mattatoio è come se diventassero spessi aghi da cucire e loro stessi dei sarti, che rivestono di nuovo la pelle, tolta poco prima». Quella pelle che ci ha legati ai maiali, quella pelle che non smette di sussurrare con tenera determinazione: «Ci sono poi storie / di liberazione degli animali».

 

 

 

Cinque poesie da Legati i maiali di Teodora Mastrototaro (Marco Saya Edizioni, Milano 2020)

 

***

 

Recluso in fondo allo scheletro il presente si fa carne

e si condanna. Amo la notte più di ogni falso sole e

al di là di questa gabbia è già estate.

Nella somma delle date mi consumo.

Il mio destino è avere fame e ad ogni battito di dita

sullo sterno chiudo i dotti. Non c’è stagione da salvare.

La distesa è la preda, rimango spiovente a scrollarmi

dal cuore il momento più crudele per restare.

L’acqua rossa mi sciacqua le piume e con l’ultimo

battito d’ali resisto. In questa fabbrica di molle e di

fango il tempo è lo scarto del volo.

 

Il macello non è un personaggio di finzione.

 

Clavicole magre deformano le bianche camicie,

mani guantate mozzano il fiato a noi detenuti.

Sul lato delle mura, al di sotto del diaframma,

non proteggi le mie facce. Il tubo è di metallo,

ficcato nella gola mi ingozzi. Sollevo le radici

e ricomincio a respirare. L’esofago a piombo si scalda

su entrambe le mani dove fermenta il fegato grosso.

Il marcio finisce nei grappoli, il becco si schianta di colpo,

il tronco scompone la testa, prolunghi l’oggetto nel corpo,

mi impali la gola.

Dentro dentro in un mare di sale fai cadere le piume dove

ho cacato per riflesso di dolore. Non ti disperi del sangue

gocciolante dalle bocche, della compressione sullo sterno,

dei giacigli dove uccelli arrugginiti sono vasi a fiori morti.

 

***

 

Stretto in una morsa mi buchi l’occhio bello

quando ancora non è notte.

Accanto al marciapiede mi attendo, marcisco,

mi imbocco di rame, sarò morto.

Col mio viso a sospiro di lutto.

Ho la consistenza dell’asfalto appena asciugato,

non sento più il suo odore.

 

***

 

Lo storditore punta la pistola

all’altezza della macchia a forma di stella

sulla fronte del cavallo in fila.

L’occhio che schizza dalla cavità orbitale

lascia una scia luminosa di plasma

visibile per pochi secondi.

La stella è diventata una cometa.

Lo storditore esprime un desiderio

ammirando quel corpo celeste morente

che attraversa un pezzo di cielo.

 

***

 

Capezzoli mammelle uteri

il sesso a poco prezzo

sfila appeso nella corsia centrale del mattatoio.

La luna entra nel vetro del lampione

bruciandosi esplode in un’attrazione fatale,

una cupola di luce rossa si riflette

nella stanza: sexy bordello

senza alcuna immaginazione.

Da un po’ di tempo le razze nostrane

hanno ceduto il passo alle straniere:

Wagyu, Aberdeen, Fjall Svedese.

 

***

 

Alcuni maiali arrivano congelati

per aver viaggiato vicino alle pareti del carro bestiame.

La realtà dell’inverno è nella durezza dei pezzi di pelle

Rimasti attaccati alle pareti di metallo quando

legati i maiali vengono strappati con forza e portati fuori.

Gli operai li gettano sulla pila dei morti, tanto moriranno

prima o poi, con la stagione del freddo.

 

 

Le poesie tratte da “Legati i maiali” sono per gentile concessione dell’autrice e dell’editore

L’immagine di copertina è tratta da Killer of Sheep di Charles Burnett