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OPINIONI

Per una scuola costituzionalmente solidale

Interesse personale e interesse collettivo, nello spirito della Costituzione, vanno considerati interdipendenti. Sia le proposte neoliberali per la scuola pubblica che le sue alternative private minano il valore dell’istituzione scolastica e la sua precisa funzione sociale di garantire istruzione e formazione a tutte-tutti. Serve una chiara e condivisa direzione di senso per la costruzione di una scuola costituzionalmente solidale

Il Movimento di Cooperazione Educativa è nato nel 1951 come percorso relazionale, politico e professionale e ha rappresentato un elemento fortemente trasformativo della cultura pedagogica e della storia della scuola italiana. Nato all’indomani della guerra, con una Costituzione tutta da realizzare, nel contesto di una scuola fortemente trasmissiva, selettiva, confessionale, i pionieri e le pioniere della pedagogia popolare italiana si sono fatti costruttori di democrazia attraverso pratiche didattiche per un’educazione laica e inclusiva.

Il Movimento è stato al centro di importanti battaglie nella scuola pubblica e ha promosso alcuni dei più importanti avanzamenti come l’introduzione del tempo pieno, lotta alla selezione sociale, alternativa al libro di testo, la pratica del laboratorio, la relazione con il territorio, con l’obiettivo di costruire le condizioni per una scuola di tutte e tutti, improntata a un’idea di cittadinanza fondata sul valore delle differenze individuali, sul diritto alla parola e alla libera espressione, sul valore del collettivo e della cooperazione come pratica di lavoro e motore di cambiamento. Anna D’Auria è segretaria nazionale del Mce.

 

 

La Costituzione all’art. 34 ha stabilito otto anni di obbligo scolastico, poi diventati dieci. Un obbligo che risponde alla necessità e all’impegno della Repubblica di garantire non solo che la scuola sia aperta a tutte e tutti, ma che riesca effettivamente ad assicurare a ognuna e ognuno la rimozione degli ostacoli e il successo formativo. La funzione sociale della scuola sta in questo: riuscire a tradurre l’eguaglianza formale dell’art. 3 della Costituzione in eguaglianza sostanziale.

A decenni di distanza dall’istituzione della scuola di massa, ancora crescono le periferie dei bambini. «Una quota sempre maggiore di bambini e di giovani in Italia sono stati sospinti negli ultimi tempi ai margini della ricchezza, nelle periferie sociali, occupazionali, educative, emotive, della vulnerabilità materiale e del rischio di esclusione sociale».

E permane l’insuccesso scolastico tra le stratificazioni sociali più svantaggiate e i territori più depressi. «Il sistema scolastico nell’Italia meridionale e insulare non solo continua ad essere meno efficace in termini di risultati conseguiti rispetto all’Italia centrale e soprattutto settentrionale, ma appare anche meno equo…».

 

Il diritto all’apprendimento continua a non essere lo stesso per tutti e le disuguaglianze a scuola, più che negli altri Paesi Europei, restano strettamente correlate alle condizioni socioculturali della famiglia di provenienza.

 

Da più parti, un’espressione ormai diventata un mantra è: la scuola non ce la fa, e i dati non ci consentono di contraddire questa affermazione. Tuttavia, il problema nasce quando, a partire da questo dato di fatto, si passa ad analizzarne le cause e soprattutto si declinano le possibili soluzioni.

Le due posizioni dominanti, e solo apparentemente diverse, sono: – quella che attribuisce alle pedagogie attive e al movimento riformista degli anni ‘70/’80 la crisi della scuola e rivendica il ritorno alla predella, al merito, alla disciplina e, da pochi giorni, il ripristino dei voti nella scuola primaria (Galli della Loggia); – quella di coloro che denunciano lo stato in cui versa la scuola italiana: aziendalizzazione, scarsi investimenti, mancata innovazione, inadeguatezza delle strutture, burocratizzazione, cultura securitaria, didattiche tradizionali e l’emarginazione di aree fondamentali dello sviluppo (il corpo, l’autonomia), impreparazione degli insegnanti…

 

 

Rispetto alla prima a essere attaccato è il modello inclusivo della scuola, di fatto mai pienamente realizzato, così come mai pienamente realizzate sono state le didattiche attive. L’idea di una scuola classista, selettiva accompagna dalle origini l’istituzione della scuola di massa, ma dagli anni ’90 è stata implicitamente giustificata da una diversa e più seduttiva narrazione: l’ideologia del merito e il falso mito delle pari opportunità.

Fare parti uguali tra disuguali a scuola (come nei territori, nella società) senza lavorare sulle differenze di partenza significa di fatto riprodurre quelle differenze anche nei traguardi. Di diverso c’è che “chi non ce la fa” si convince che la responsabilità sia sua perché non ha meriti e virtù e l’azione di contrasto a una scuola classista perde la sua dimensione di rivendicazione collettiva.

All’assunzione del modello neoliberista e delle logiche di mercato come principale regolatore sociale ha poi corrisposto per la scuola una lunga fase di pesante riduzione degli investimenti, di riforme in successione, di burocratizzazione, standardizzazione, caos normativo. Aspetti che hanno compromesso ulteriormente la capacità della scuola di farsi presidio di democrazia e di diritti.

La seconda posizione è quella che alimenta le variegate proposte: asilo nel bosco, scuole parentali, scuole private, scuole di tendenza che si pongono come alternative alla rete delle scuole pubbliche ritenute incapaci di garantire lo sviluppo dei talenti personali di ciascuno, in rapporto con le proprie libertà, con la natura, con l’esigenza di cooperazione e socialità, con la città (attingendo in maniera variegata alle proposte e alle esperienze pedagogiche del 900).

“Soluzioni” che aprono fortemente la strada all’idea che l’esperienza formativa è di sola responsabilità dei genitori, che può rispondere a domande specifiche di appartenenza (a confessioni religiose, gruppi di pensiero, no vax, no gender, no stranieri, no disabilità, …), che la risposta al bisogno formativo vada trovata individualmente.

 

 

Due prospettive, la stessa conseguenza

In entrambe le prospettive (scuola pubblica ma del merito e scuole alternative fuori dal sistema pubblico) si ottiene lo stesso risultato: minare il valore della scuola come «… organo “costituzionale” (…) organo vitale della democrazia quale noi la concepiamo» (Piero Calamandrei, in un discorso pronunciato nel 1950 al Congresso dell’Associazione per la difesa della scuola nazionale, nda)  in quanto garante dell’esercizio del diritto-dovere di solidarietà e con la precisa funzione sociale di garantire istruzione e formazione a tutte-tutti.

In entrambi i casi a prevalere è, infatti, la logica che vede in contrapposizione interesse personale e interesse collettivo che, nello spirito della Costituzione, vanno invece considerati interdipendenti, poiché è in questo rapporto di interdipendenza che si colloca il fondamento stesso della nostra democrazia. Una chiara rappresentazione di questo ci è venuta dall’emergenza sanitaria, dove è stato evidente che non è possibile separare la salute del singolo da quella collettiva e viceversa.

 

Il diritto allo studio, di cui la scuola deve farsi garante (con il sostegno dei Comuni), se da un lato è un diritto soggettivo, dall’altro ha un’evidente dimensione sociale perché contribuisce a costruire la cultura complessiva del paese, impatta sulle politiche del lavoro, sulla salute, sulla coesione sociale.

 

La scuola della Costituzione non può lasciare nessuno indietro e l’emancipazione di ognuno-a, intesa come liberazione dagli ostacoli che ne impediscono lo sviluppo, è un interesse sociale prima ancora che un interesse personale. Nessuno può allora essere soddisfatto se la scuola pubblica produce successo formativo solo per una parte degli studenti (scuola pubblica selettiva), oppure che solo una parte degli studenti possa arrivare al successo formativo fuori dalla scuola pubblica (scuole alternative). In tutte e due casi scompare l’esigenza di cura, di giustizia, di equità come valori fondanti per la collettività e la democrazia.

La scuola “incarna”, nella sua funzione pubblico-sociale, l’interdipendenza individuo-società e a questo valore in termini di solidarietà tutti devono essere educati e formati. Per questo non può essere accettabile che la scuola sia intesa come un servizio alla persona, affidando i 700 euro di spesa pubblica pro capite ai genitori che scelgono dove assolvere all’obbligo scolastico, così come si dovrebbe smettere di considerarla al servizio dei governi di turno o peggio ancora destinarla al servizio delle politiche regionali, come vorrebbero alcuni governatori di regione e politici.

Va riaffermato il suo valore costituzionale, come presidio democratico unitario per Paese dove:
– la mescolanza è il presupposto e la condizione per la costruzione di cittadinanza tra soggetti con storie diverse per stratificazione sociale, lingua, cultura, religione, etnia;
– la conoscenza è vissuta e praticata come un bene comune ed elaborata come strumento per permettere a ognuno/a il concreto esercizio dei diritti, perché la sola enunciazione non basta;
– tutte/i vengono formati a un’etica pubblica e a un’idea del mondo e della qualità della vita come valore societario comune, in un’idea di appartenenza e di responsabilità verso la comunità più vasta.
Elementi questi senza i quali non ci può essere unità, convivenza pacifica, coesione sociale, ma nemmeno sviluppo economico e culturale.

 

 

Promuovere la cultura della solidarietà e l’etica della responsabilità

Durante il primo e il secondo lockdown il MCE, insieme ad altre associazioni, ha elaborato diversi documenti con alla base la stessa idea: le proposte per la riapertura dovevano servire non solo a dare risposte all’ emergenza, ma a produrre un rilancio forte della scuola, della sua funzione e del suo compito costituzionale.

A quanti sarebbe bastato tornare al prima Covid-19 e trovare solo soluzioni tecniche all’esigenza di distanziamento è sicuramente sembrato un fare della retorica della riapertura. Ma i firmatari dei documenti invece sono partiti da altri e comuni presupposti: non tornare al prima perché il prima era il problema e creare quelle condizioni utili al superamento dei limiti del nostro sistema scolastico, che la pandemia ha ulteriormente evidenziato.

 

 

Tra queste, la proposta dei PATTI TERRITORIALI: un’alleanza tra Scuole, Comuni, associazioni, famiglie, studenti per porre al centro delle politiche scolastiche di territorio e dell’autonomia scolastica il valore di solidarietà e l’etica della responsabilità. Con i patti territoriali più soggetti si confrontano per individuare e ragionare sui bisogni educativi dei minori, su quelli della scuola, del territorio e, a partire dall’individuare e valorizzare tutte le risorse in campo, progettare azioni capaci di sostenere i progetti di vita, il compito della scuola e la qualificazione dei territori.

I Patti sollecitano tutto il mondo adulto a sentirsi responsabile e a collaborare nel creare le condizioni per estendere e qualificare il tempo dell’educazione per tutte-i; liberare dal vuoto educativo, dall’isolamento relazionale o peggio dalla violenza di certe culture, ambienti familiari, le bambine e i bambini, le ragazze e i ragazzi delle diverse e molteplici povertà (non solo economiche).

Gli insegnanti fanno quotidianamente i conti con contesti territoriali che annullano di fatto quanto si è fatto dentro la scuola. Allora, aprirsi al dialogo con il territorio, condividere con esso il compito educativo, anche se con competenze diverse, significa superare l’isolamento della scuola, mettere in risonanza virtuosa educazione formale e non formale, insegnanti ed educatori con amministratori e famiglie per realizzare meglio la cura di ognuna/ognuno.

 

È dimostrato che in tantissime realtà territoriali il lavoro del volontariato e del terzo settore è fondamentale per favorire i processi di inclusione scolastica.

 

Si pensi ai progetti per contrastare la dispersione e l’abbandono e che permettono a tanti minori di restare a scuola oltre il tempo scolastico, sottraendoli così all’azione corrotta della strada e del mondo adulto che la abita.

Riuscire a mettere la scuola in dialogo con il “fuori” produce un effetto moltiplicatore di stimoli, conoscenze, relazionalità, opportunità di cura e formazione, sollecita il potenziale educativo dei territori e mette in risonanza esperienze che il più delle volte restano separate e non contribuiscono a costruire apprendimenti stabili nei soggetti sottoposti a culture, linguaggi, saperi, esperienze tra loro troppe volte lontane, non dialoganti e vissute come estranee l’una all’altra.

 

 

Centralità alla scuola

Per costruire Patti territoriali serve un fare intenzionale e di lungo respiro, lontano da logiche di mercato dove il dialogo tra scuola ed extra scuola è funzionale alle domande delle famiglie, delle associazioni, degli amministratori e alle debolezze identitarie di scuole che delegano ad altri attività previste dal curricolo di scuola o si “aprono” al dialogo in modo estemporaneo e provvisorio.

Il dialogo tra scuola e territorio presuppone invece un lavoro lungo, riflessivo, di ricerca, di reciproca conoscenza ed esplorazione, di condivisione e co-progettazione di tutti i soggetti coinvolti a partire dal riconoscere che la centralità della scuola è nell’interesse di tutti. Il primo e importante obiettivo dei patti territoriali dovrebbe infatti essere rafforzarne il mandato costituzionale, la sua funzione sociale: la formazione dei cittadini, attraverso l’istruzione e il perseguimento dei traguardi di competenza espressi dalle Indicazioni nazionali e dai documenti europei.

Fuori da logiche sostitutive o di delega, e da relazioni gerarchiche, la co-progettazione tra scuola e territorio dovrebbe partire dal riconoscimento delle reciproche e diverse competenze, dei differenti ruoli e responsabilità per porre da un lato la scuola al centro della vita di una comunità territoriale e farne un centro vivo di conservazione e innovazione dei saperi, di pungolo alle istituzioni locali, di raccordo con le esperienze educative non formali, di cooperazione tra adulti responsabili, dall’altro per far crescere in quantità e qualità nel quartiere, nel paese, nella città i luoghi di socialità ed educazione.

«Lavorare alla ricerca della qualità di vita urbana, moltiplicando le occasioni per i ragazzi di socialità e di incontro negli spazi pubblici, intessere reti di relazioni sociali, richiede di pensare in termini di costruzione di luoghi di democrazia, di istituzione di un ‘patto sociale’, fare dei processi relazionali tra individui e tra questi e le istituzioni una base per le trasformazioni sociali».

 

 

La leva dell’autonomia scolastica

È l’autonomia scolastica e la progettazione in capo a ogni singola scuola e ai suoi organi collegiali, lo strumento per la costruzione di un collettivo solidale e di uno spazio-tempo integrato di educazione-formazione.

Il senso dell’autonomia è nelle finalità indicate nel DPR 275: rendere possibile il successo di tutti e di ciascuno attraverso misure organizzative e didattiche improntate alla flessibilità, alla ricerca didattica come condizione indispensabile di una progettazione competente del piano dell’offerta formativa della scuola.

 

Aprirsi al fuori e valorizzare il patrimonio di esperienza: culturale, artistica, urbanistica, antropologica, economica e le storie collettive che ogni territorio possiede, permette alla scuola di superare l’isolamento, scoprire nuove opportunità formative, avvicinare l’esperienza della scuola all’esperienza di vita di bambini e ragazzi e delle loro famiglie.

 

Costruire nel tempo una comunità allargata che si sperimenta in un clima di fiducia nella costruzione di un curricolo integrato interpretato come spazio inedito di dialogo e cooperazione tra parti in genere tenute separate: le discipline, il corpo e la mente, il sapere ed il fare, l’educazione formale e non formale, il dentro e il fuori della scuola.

E nello sperimentarsi in questo, nel promuovere la trasformazione di ogni microterritorio in un ecosistema formativo che la scuola definisce e rafforza la sua identità, responsabilità e capacità di rispondere al suo mandato costituzionale.

 

 

Condizioni per il dialogo con il territorio

Vi sono state esperienze di eccellenza di apertura al territorio là dove a partire dalle scuole si è riusciti a coinvolgere un’intera trama di responsabilità e di soggetti. Ma restano poche le scuole che riescono a farlo e a progettare in questa direzione, perché è povera nel Paese la cultura del dialogo e della cooperazione, e nella scuola è scarsamente sviluppata sul piano culturale-professionale l’integrazione dell’azione formativa con il territorio.

 

A peggiorare le cose alcune condizioni di governo della scuola che inibiscono il cambiamento e rendono difficile attivare e presidiare la complessità di progettazione, valutazione, formazione e organizzazione che il dialogo con il territorio richiederebbe.

 

Tra le altre azioni, servirebbe allo scopo:
– Dimensionare gli istituti scolastici – Meno alunni per istituto e meno alunni per classe– come si fa a presidiare i processi su citati in istituto con più di 1500 alunni?
– Introdurre nuovi profili di docenza a sostegno dei processi dell’autonomia per presidiare i nodi centrali del fare scuola: progettazione e valutazione, inclusione, formazione…
– Dare certezza, stabilità, continuità alle figure di sistema della scuola, (sottraendole all’indeterminatezza dei fondi d’istituto), strategiche per l’autonomia di ricerca, sperimentazione e la flessibilità organizzativa delle scuole.
– Eliminare il sistema delle reggenze dei dirigenti scolastici ancora molto diffuso e fortemente lesivo della valorizzazione dell’autonomia scolastica delle scuole.
– Prevedere anche per Scuola dell’infanzia e secondaria ore di incontro dei team docenti per progettare e valutare insieme.
– Incrementare gli organici e garantire la copertura stabile dei posti vacanti.
– Ripristinare gli OO.CC. territoriali per un approccio democratico e trasversale alle politiche scolastiche, rispetto alle quali è necessario puntare sul coinvolgimento, la cooperazione, la responsabilità diffusa di amministrazioni e soggetti diversi.

 

 

Serve un cambio di passo

Ora i fondi per investire sulla scuola ci sono, ma serve una chiara e condivisa direzione di senso per orientarne l’uso verso la costruzione di una scuola costituzionalmente solidale.
In primis i soldi spesi per la scuola dovrebbero essere considerati come una spesa di investimento e non una spesa corrente.

 

I finanziamenti innanzitutto dovrebbero servire per ridurre le disuguaglianze.

 

A tal fine, un punto di partenza per orientare i fondi dovrebbe essere la definizione dei livelli di prestazione essenziali per la garanzia del diritto all’educazione e allo studio. Partire da questo dato per ripartire i fondi necessari a prevedere il riconoscimento del diritto a luoghi e tempi educativi fin dalla nascita a tutte le bambine/bambini al di là della necessaria conciliazione con il lavoro dei genitori. Per estendere il tempo scuola su tutto il territorio nazionale, così come l’obbligo scolastico dai 3 ai 18 anni.

 

 

Vanno poi intraprese azioni di contrasto all’analfabetismo funzionale, curando la formazione degli adulti, per non disperdere non solo i potenziali di cittadinanza attiva, ma anche quelli educativi del mondo adulto. Occorre investire finalmente nelle strutture scolastiche, qualificandole e mettendole in sicurezza. Un ulteriore investimento, senza il quale nessun altro investimento ha senso e consistenza, è quello nella conoscenza: vanno rivisti i curricoli, capacitati gli insegnanti a lavorare sui saperi essenziali e sul superamento dei confini disciplinari, sulle didattiche attive e sulla pedagogia differenziata.

Per questo serve rivedere la formazione iniziale (soprattutto quella degli insegnanti della scuola secondaria), prevedere la formazione obbligatoria in servizio degli insegnanti, così come mettere mano a opportuni e qualificati meccanismi di reclutamento.

Serve, infine, accanto a una visione complessiva, un lavoro di squadra che assuma il dialogo come principale prassi politica e pedagogica: tra Ministeri, tra Ministeri e amministrazioni periferiche, tra scuola e territori, società civile, università per rilanciare e rafforzare il sistema educativo di istruzione e formazione della Repubblica.

Serve un nuovo e forte impegno verso la scuola, assunto da tutta la comunità nazionale. Oggi stiamo facendo i conti con l’emergenza Covid-19, ma sullo sfondo restano i gravi e impellenti temi del rapporto uomo natura e della sostenibilità ambientale e sociale, delle discriminazioni, dell’aumento delle povertà educative, del pensiero unico e dei populismi, dell’irresponsabilità sociale (presente persino nell’emergenza sanitaria).

Temi che richiamano noi adulti a superare chiusure, separatismi e corporativismi. Per questo occorre riflettere su cosa comporti un modello di scuola selettiva e meritocratica (molte volte implicito), che determina le stesse resistenze alla valutazione formativa ora possibile nella scuola primaria e che andrebbe invece estesa almeno a tutta la scuola dell’obbligo. Così come occorre riflettere su cosa significhi, per il Paese e la sua democrazia, sostenere come alternative le soluzioni “à la carte”, fuori dal sistema pubblico di istruzione e formazione.

Tutti, ma soprattutto i decisori politici, dovremmo invece interrogarci su cosa si può fare affinché il sistema scolastico pubblico italiano possa garantire pienamente, e in tutta la geografia del Paese, eguaglianza effettiva ed equità scolastica, senza le quali continueranno ad essere deboli sviluppo culturale, economico e la coesione sociale.

Il bisogno di cambiamento ora è forte in tutti, i fondi non mancano, gli spazi di intervento ci sono. Ma serve un cambio di passo. Per il Movimento di cooperazione educativa la direzione è quella verso una scuola costituzionalmente solidale in un territorio capace di farsi comunità educante.

 

 

Articolo apparso originariamente su Movimento di Cooperazione Educativa.

Foto di copertina e nel testo dall’archivio DINAMOpress.