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“Rifugiati: o reagiamo, o saremo consumati!”

Intervista a Emmanuel Mbolela, attivista e rifugiato congolese, che con il suo libro “Rifugiato, un’odissea africana”, ci mostra e ci ricorda l’importanza della presa di parola dei protagonisti delle migrazioni contemporanee nel circuito migratorio internazionale

Emmanuel è un attivista congolese, perseguitato per ragioni politiche e costretto a lasciare il suo paese d’origine. Dopo due anni di viaggio attraverso l’Africa, Emmanuel arriva in Marocco dove rimarrà bloccato per 4 anni a causa dei dispositivi securitari messi in atto dai paesi dell’accordo Schengen. È proprio in Marocco che Emmanuel, senza possibilità di accesso al lavoro e privato dei diritti basilari, decide di ricominciare la lotta politica che l’aveva costretto a fuggire dal Congo. Da così vita ad un progetto inedito per il Marocco: fonda, insieme ad i suoi compagni esiliati, l’Arcom (Associacion des réfugiés et demandeurs d’asile congolais au Maroc), un’organizzazione per la rivendicazione dei diritti dei rifugiati e dei richiedenti asilo congolesi. Dopo anni di attivismo, l’UNHCR (l’Alto commissariato delle Nazioni Unite) gli concede la possibilità di chiedere asilo politico in Olanda.

Il trasferimento in Olanda non indebolisce il desiderio di Emmanuel di raccontare al mondo non solo la sua, ma le innumerevoli storie delle persone conosciute durante gli anni dell’esilio, dalla fuga dal Congo, all’attraversamento dei mille confini lungo la rotta migratoria. Da queste memorie nasce l’idea del libro Rifugiato, pubblicato per la prima volta in lingua tedesca nel giugno del 2014. Segue la pubblicazione francese nel gennaio del 2016 e quella italiana nel 2018 per Agenzia X.

 

Emmanuel racconta la sua storia, cominciata nel 2002 con la partenza dalla sua città natale, Mbuji Mayi, in quanto perseguitato politico. Le vicende che si susseguono sembrano mostrare un quadro comune a tante persone che scelgono di salvarsi e di intraprendere il lungo cammino verso l’Europa.

 

Quel che emerge dal racconto di Emmanuel ci mostra quanto sia importante narrare una storia complessa e poliedrica, una storia d’esilio e di migrazione, ma anche una Storia, con la S maiuscola, di una regione dell’Africa, che diviene paradigma di un’epoca: da una parte quella delle frontiere e dei “nuovi guardiani d’Europa”; dall’altra quella degli esuli e dei rifugiati alla continua ricerca di una via di fuga. Ma l’importanza di una presa di parola da parte dei migranti stessi contribuisce a mostrare il vero volto delle migrazioni, per sottrarne i protagonisti da quella categorizzazione univoca di “vittima” bisognosa di qualcun altro che parli per lei. Emmanuel invece parla, prende parola, rivendica la propria soggettività, la propria dignità, attraverso un racconto polifonico che diventa il racconto di molti uomini e donne che con Emmanuel condividono un percorso, uno status e “un’odissea africana”.

 

Il libro di Emmanuel sembra una risposta articolata a quell’idea parziale di un continente africano omogeneo, senza storia, se non come riflesso della Storia di coloro che quel continente hanno dominato, sfruttato e umiliato nel nome della superiorità razziale, dello sviluppo e della civilizzazione. A quest’immagine Emmanuel contrappone la sua narrazione, che si fa storicamente profonda, senza far passare in secondo piano il ruolo del colonialismo e dei suoi strali. Attraverso la narrazione dei nuovi movimenti politici africani, grandi e piccoli, delle organizzazioni solidali e delle azioni conflittuali di coloro che hanno ottenuto un permesso di soggiorno o sono ancora incastrati nel circuito dell’irregolarità, si può riaffermare il legame con una Storia comune e quindi il possesso di una soggettività.

 

«Spesso si tende ad avere dei migranti un’immagine di vittima» – ci dice Emmanuel – «ma quest’immagine non corrisponde alla realtà. Ad esempio, una volta rimasto bloccato in Marocco e fondata l’organizzazione Arcom con i miei connazionali, molte altre comunità di rifugiati hanno seguito l’esempio e hanno cominciato a organizzarsi. Possiamo dire che oggi in Marocco ci sia una profonda sensibilità politica tra i migranti, i quali stanno prendendo parola e che stanno lottando per denunciare le loro condizioni e per rivendicare i loro diritti, ma anche per porsi la questione fondamentale, alla base di tutto questo, vale a dire del perché ci siamo trovati in questa condizione».

 

La storia che Emmanuel ci racconta comincia infatti molto tempo prima dell’inizio del suo viaggio nel 2002. Era il 1885, quando alla Conferenza di Berlino (il cosiddetto “scramble for Africa”) venne decisa la spartizione dell’Africa e il Congo divenne un possedimento di Leopoldo II del Belgio che ne fece la sua azienda privata, dichiarando al contempo di portarvi civilizzazione e sviluppo. Tramite un sistema di sfruttamento delle materie prime, la popolazione locale fu di fatto utilizzata come forza lavoro, martoriata e sfruttata nelle piantagioni di caucciù. Nel 1908 una legge parlamentare dichiarò il Congo una colonia belga. «Doveva essere un modo per porre fine alle violenze perpetuate da Leopoldo II» – prosegue Emmanuel – «ma in realtà quando i colonizzatori arrivarono in Congo, le violenze e lo sfruttamento si intensificarono, a causa della scoperta di numerose materie prime. In quegli anni, le lotte dei lavoratori non sono mai cessate, nonostante le azioni di conflitto e le rivendicazioni venissero messe a tacere con la forza».

Arriviamo agli anni ’50 del Novecento, vale a dire gli anni in cui in diversi paesi dell’Africa cominciarono ad agire i movimenti di liberazione. In Congo questa lotta venne capeggiata da Patrice Emery Lumumba. «I colonizzatori belgi scelsero di destabilizzare il paese mettendo in conflitto le diverse etnie presenti e attribuendo la responsabilità di questo disordine a Lumumba, il quale venne accusato di tendenze comuniste, xenofobe e contrarie alla Chiesa cristiana. Tutto questo aveva lo scopo di screditare l’immagine di Lumumba al fine di eliminarlo politicamente». Fu così che, nel 1961, Lumumba venne arrestato e assassinato con un’azione congiunta dei belgi e della CIA. Alla morte del leader congolese, prese il potere, grazie allo stesso appoggio occidentale, Mobutu, che governò per oltre trent’anni, passando alla storia come lo spietato dittatore del Congo.  «Mobutu è stato messo al potere solo affinché il Belgio e gli americani potessero continuare a sfruttare le materie prime per le proprie industrie. Il Congo è ricco d’oro, di diamanti, di rame, di uranio, quello stesso uranio che è stato utilizzato per costruire la bomba atomica sganciata su Hiroshima e Nagasaki. Oggi la nuova materia strategica presente in Congo è il Coltan, che serve per produrre i cellulari. A causa di queste pratiche di sfruttamento della popolazione, si è diffusa una profonda sofferenza che ha condotto a una ribellione e a una guerra che ha causato la morte di 6 milioni di persone, un milione e mezzo di sfollati, e centinaia di migliaia di donne violentate: lo stupro è diventato un’arma di governo».

All’epoca Emmanuel era uno studente universitario. L’indignazione e la rabbia di fronte alle contraddizioni di un paese così ricco di risorse naturali e la povertà estrema in cui viveva la sua popolazione lo spronarono ad impegnarsi politicamente. Cominciò la sua militanza nel partito d’opposizione, l’Unione per la Democrazia e lo Sviluppo in Congo (UPDS). Sarà questo impegno politico che lo costringerà a scegliere la via dell’esilio. Nel 2002 Emmanuel e i compagni dell’UPDS organizzarono una manifestazione pacifica contro lo sfruttamento della popolazione congolese, alla quale Mobutu rispose con la forza, inviando polizia ed esercito.

 

«Ci hanno torturato, arrestato e sparato addosso. Ogni volta che parlo di questa manifestazione non posso fare a meno di pensare a due miei amici morti in quell’occasione. Io e altri compagni siamo stati arrestati e portati in carcere. Sapete che le carceri in Congo non sono come quelle in Europa. Non c’è acqua potabile, non ci sono bagni e non ti danno da mangiare. L’unica cosa che ti è riservata è la tortura, giorno e notte. La mia unica fortuna è stata la presenza dei miei genitori che mi hanno aiutato a evadere di prigione. A quel punto ho dovuto lasciare il mio paese».

 

Comincia così il secondo capitolo del libro, con la descrizione del viaggio, prima nel Congo Brazzaville, per poi passare in Camerun, Nigeria, Benin, Burkina Faso, Mali, Algeria e infine Marocco. Nel descrivere questo viaggio Emmanuel riporta con grande lucidità e dovizia di particolari i volti e le storie delle persone incontrate che come lui si trovavano ad affrontare le stesse difficoltà. Un segno indelebile nella memoria di Emmanuel è legato al destino delle donne incontrate nel tragitto: «spesso le donne subiscono delle violenze atroci e a volte vengono utilizzate come merci di scambio per poter passare le frontiere».

Una volta arrivato in Marocco l’attivismo di Emmanuel si rivolge alle vicende dei rifugiati e dei richiedenti asilo. Egli stesso ottiene protezione a Rabat attraverso l’UNHCR, ma si rende subito conto che quella protezione ha poco valore:

 

«[l’asilo politico] non dava molti diritti e non avevamo accesso alle cure sanitarie, non avevamo il diritto di accedere al mercato del lavoro e persino i figli dei rifugiati non avevano accesso alle scuole pubbliche».

 

Da quel momento il racconto di Emmanuel si fa intenso e dettagliato rispetto alle vicende della migrazione, delle sue difficoltà esistenziali che si intrecciano costantemente con questioni politiche di più ampio raggio.

«Argon è stata creata come una risposta alle violenze di cui eravamo testimoni» –prosegue l’intervista. «Abbiamo pensato che, se non avessimo reagito, saremmo stati consumati. La maggior parte di noi era costretta a vivere nei ghetti, dai quali non potevamo uscire per la mancanza di documenti, così che la nostra prima azione è stata quella di provare a uscire da questi ghetti per denunciare le autorità marocchine e le violenze che ci stavano facendo in osservanza degli accordi con l’Europa. Per questo la nostra organizzazione ha sempre condotto una denuncia delle politiche europee, dell’esternalizzazione delle frontiere, degli accordi che l’Europa ha fatto con il Marocco, con la Tunisia, con l’Algeria, con la Libia. Rivolgere e indirizzare lo sguardo verso i veri artefici delle politiche inique sui migranti e che, allo stesso tempo, criminalizzano i rifugiati ha sempre fatto parte del nostro impegno politico. Nelle nostre conferenze e nelle nostre manifestazioni abbiamo sempre denunciato il ruolo e l’ipocrisia dell’Unione Europea, che al posto di costruire frontiere farebbe bene a porsi delle domande di fondo sul perché le persone prendano il cammino dell’esilio e qual è la responsabilità degli stati europei per le condizioni economiche e di sfruttamento dei paesi di partenza dei migranti. Oggi l’Europa costruisce muri e frontiere che le persone non possono oltrepassare, ma attraverso cui merci e capitali continuano a circolare liberamente».