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Riflessioni di una femminista sulla guerra. Incontro con Maria Luisa Boccia

Oggi, data di ricorrenza della nascita della Repubblica italiana, pubblichiamo le riflessioni di Maria Luisa Boccia in “Tempi di guerra. Riflessioni di una femminista”. L’articolo 11 della Costituzione dice che l’Italia ripudia la guerra e Boccia lo argomenta, dichiarando necessario abbandonare l’idea politica della guerra come risoluzione di un conflitto e decostruire anche l’Uomo come naturalmente incline a questa

Il 2 giugno 1946 gli italiani, e per la prima volta a livello nazionale anche le italiane, sono invitati a mettere una croce su un volto adornato da un ramo di ulivo e uno di quercia per la Repubblica o su uno scudo crociato con una corona per la Monarchia. Il 13% della popolazione è analfabeta e l’esercizio di un diritto e di un dovere, nel pratico, si risolve nell’espressione di una preferenza: l* italian* decidono per la Repubblica. In quello stesso giorno si vota per eleggere l’Assemblea costituente, da cui emergeranno nomi della DC, del PSI e del PCI. La partigiana Marisa Rodano, oggi 102enne, in occasione della celebrazione del sessantesimo anno dalla nascita della Costituzione, raccontava di quell’esperimento politico come di un luogo «dove si confrontavano tutte le posizioni politiche ideali, le esperienze, le sensibilità del Paese, dove si incontravano generazioni diverse, quella degli anziani dirigenti antifascisti e le giovani generazioni emerse dalla guerra di liberazione»: i resistenti sopravvissuti.

La guerra è la causa della terra bruciata sopra la quale bisogna costruire un nuovo Stato. «L’eredità preziosa che ci ha lasciato la resistenza non è la vittoria armata contro i fascisti e i nazisti, ma è il “mai più delle guerra” come della ricerca di un’uscita e di un dopo del fascismo e del nazismo», sono le parole di Luisa Boccia alla presentazione di Tempi di guerra. Riflessioni di una femminista (Manifestolibri, 2023) all’Università Sapienza, la settimana scorsa.

«È una posizione comunitaria che ha acquisito legittimità nei Paesi che poi hanno fatto la prima carta dell’ONU (..) dove c’era quel “mai più” di cui stiamo facendo carta straccia. Io vorrei ripartire da lì».

Ripartire da quel momento in cui i 75 membri eletti hanno deciso di inserire nella Costituzione l’Art. 11 per cui l’Italia !Ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Oggi questo articolo non viene rispettato. Rappresenta però precisamente il posizionamento che Boccia si propone di discutere all’interno del suo breve ma denso saggio: l’opposizione alla guerra come strumento legittimo per la risoluzione di un conflitto. L’opposizione, una guerra per volta, alla guerra in quanto tale. L’antropologia e la storia della filosofia hanno tematizzato molto di più la questione della guerra che quella della pace: in Machiavelli, Hobbes, Kant, Rousseau, tra i classici, ma anche in Hegel secondo cui le controversie tra gli stati sono insanabili ed è quindi necessario il ricorso alla guerra, hanno costruito, mattone dopo mattone, il «recinto dell’Occidente», come lo chiama Boccia: una edificio che risucchia tutte le culture, le storie e le soggettività, creando valori universali e universalizzanti da proteggere e da esportare con la violenza. È necessario quindi non solo abbandonare l’idea politica della guerra come risoluzione di un conflitto, ma decostruire anche l’Uomo come naturalmente incline a questa. Bisogna pensare e pensarsi fuori dalle logiche di violenza istituzionalizzata. In Tempi di guerra, leggiamo come «il pacifismo finalistico si propone di cambiare l’essere umano, scalzando le radici profonde interiorizzate della violenza, quale condizione indispensabile per una convivenza pacifica». Per cominciare a tematizzare la questione della pace più che della guerra, dobbiamo pensare diversamente l’essere umano.

È in questa risemantizzazione che il pensiero femminista, in particolare quello della differenza raccontato e vissuto da Boccia, si pone come forza trasformativa: «solo se riconduciamo le differenti condizioni di vita nelle diverse aree del mondo alla comune vulnerabilità, possiamo stabilire alleanze durevoli contro la supremazia e il ricorso alla violenza. Vulnerabilità, relazioni, interdipendenza, sono al centro della politica femminista». La subordinazione di genere si regge se all’indipendenza dell’uomo corrisponde la dipendenza della donna, se alla forza maschile si stacca la debolezza femminile. Ma come osserva la docente di filosofie femministe dell’Università Sapienza Caterina Botti, «siamo più abituati a sentir parlare di una “comune vulnerabilità” che interessa e caratterizza sia uomini che donne, quando invece Boccia legge nel pensiero della differenza un pensiero che possa portarci a ripensare pratiche politiche, anche internazionali, di stare in relazioni con diversi, in contrasto all’universale».

È a un «altro genere di forza», per dirla con Alessandra Chiricosta, che bisogna guardare per riconvertire il pensiero delle relazioni internazionali sul fronte della pace. La proposta di teoria politica della pensatrice è quella di un’Europa che si accorge di essere «una delle tante periferie» del mondo, e che la sua «differenza dagli Stati Uniti è determinata da questo più che dalla sua identità storica, politica, culturale e sociale». Sia la filosofa Rosi Braidotti in Nuovi soggetti nomadi (2002) che il filosofo Etienne Balibar in L’Europa, l’America, la guerra (2003), «muovono dalla convinzione che l’Europa potrà avere un ruolo mondiale solo prendendo atto fino in fondo della fine della sua supremazia, congedandosi dal proprio “destino eroico” (..) elaborando una politica di risoluzione dei conflitti e di evoluzione tendenziale dei rapporti di forza che configuri un nuovo regime di potenza, dove la potenza non è il presupposto sul quale si definiscono i rapporti ma è un risultato dell’agire, in quanto potenza essenzialmente relazionale», sostiene Boccia. Porsi oltre la politica di potenza indica «passare da una logica dell’identità a una della differenza, intesa innanzitutto come modo di pensare e praticare la relazione». Puntare quindi sull’impotenza dell’Europa «per renderla credibile e autorevole nei confronti di chi non può (o non vuole) competere per il potere dominante».

Dobbiamo sentirci coinvolti: «la coscienza pubblica del paese deve sapere che lo Stato italiano, il suo governo, le sue istituzioni hanno deciso di prendere parte a una guerra».

L’Italia è in guerra nella misura in cui partecipa alla guerra. Ed è nella messa in discussione della legittimità di questa partecipazione che Boccia teorizza una pratica di resistenza. Nel capitolo Lottare con i nostri corpi disarmati, prende forma un’applicazione del “pensiero incarnato” proprio del femminismo, che assume i corpi «come misura e senso del proprio essere e del proprio fare», propria della filosofia di Judith Butler. La proposta di Boccia prende le mosse dalla teorizzazione della scrittrice Nadia Fusini che si domanda: «se organizzassimo una resistenza passiva di inermi?». Il no alle armi in Ucraina e il no della creazione di una zona di non sorvolo nel cielo, che secondo la pensatrice sarebbe strumentale al ricattatore Putin per scatenare una terza guerra mondiale, non può passare attraverso l’abbandono passivo di un popolo intero sotto attacco, in nome della “non violenza”. È per questo che la proposta parte dalla consapevolezza che siamo tutti coinvolti in questa guerra, e sfrutta i corpi come strumenti per una resistenza pacifica. «Se noi donne e uomini europei di buona volontà dall’Italia, dalla Francia, dalla Spagna, partissimo disarmati e andassimo al confine con l’Ucraina e cercassimo di entrare, semplicemente a testimoniare che siamo con loro: in tanti corpi vivi che vanno a condividere la minaccia di morte, che un superpotente viriloide e fascista, colluso con un sistema di governo mondiale ambiguo e ipocrita, impone a un popolo, noi stessi diventando quel popolo?».

La proposta è sicuramente audace, ma è coerente e valida nella misura in cui espone i propri corpi, coinvolti, “protetti solo dall’essere una massa estesa”, prendendo parte dal vivo del conflitto, senza prendere le armi.

In questo modo, tornando a Boccia, si coglierebbe l’opportunità di sfruttare la propria posizione di vulnerabilità come una ritematizzazione del concetto di potenza. Oggi il Presidente dell’Ucraina Zelensky chiede armi per vincere la Russia, e gran parte del movimento femminista ucraino esorta l’Europa a riarmare il proprio paese per praticare una resistenza all’invasore. La guerra per combattere la guerra, senza mai uscire dalle sue logiche. E l’Italia si posiziona sullo stesso piano, guardando ai movimenti pacifisti come un centinaio di idealisti che non hanno contezza di come funziona la politica internazionale. «Noi facciamo la guerra perché ci sia la pace in Ucraina», puntualizza Botti, portando avanti un ammantamento etico della guerra che si nasconde dietro l’incapacità di farne altrimenti. Boccia invita a pensare differentemente, «a nominare gli istinti inconsci del dominio e della schiavitù che ci abitano e che ci muovono (..), contrastare il clamore delle voci che guidano la corrente della guerra nelle menti e negli animi di noi tutti e tutte».

Perché l’articolo 11 della Costituzione smetta di essere un bel ricordo scritto su una carta quasi ottant’anni fa, e che torni a essere un progetto politico per riscrivere il “mai più” prima di “guerra”.

Immagine di copertina da Openverse