cult

CULT

Razza migrante

Una riflessione sui concetti che definiscono esseri umani in movimento a partire da “Io sono confine” (in corso a Palazzo Grillo a Genova fino all’8 aprile, a cura di Antonino Milotta, Anna Daneri, e Pierre Dupont). La mostra indaga con le opere di ventotto artist* proprio lo slittamento semantico di “migrante” – che, suggerisce l’autore, sembra diventare oggi la parola per dire “razza”.

Un tempo si diceva immigrato. E si trattava senza dubbio di una parola pesante, con una caduta perpendicolare, tutta la durezza di un participio passato. Evocava un atto  compiuto, per lo più irreversibile: un viaggio di sola andata, un progetto di vita, di casa (di Heim-at). Quel sostantivo si prestava al lessico dell’ethnos: gli immigrati erano polacchi, italiani, albanesi, meridionali. L’aggettivo, così, gli è rimasto appiccicato, sostantivandosi, andando per lo più a inghiottire il nome (le stragi di “italiani” a Marcinelle, ad Aigues mortes, la nave stracolma di albanesi a Bari); inchiodando al luogo di provenienza, a suoni e cognomi storpiati, come un fantasma che infesta, macchia, trasfigura: dietro lo spettro della nazione, in agguato, c’era quello incollocabile della razza.

Anche per questo, con le migliori intenzioni, si è deciso di attenuare il peso di una parola conclusa, come per sfumarla. L’inglese sembrava fornire un supporto, e immigrant l’impressione di maggiore levità, forse fluidità, di un marchio o uno stigma alleggeriti. Ma per una di quelle strane scorciatoie che la parole  spesso intraprendono poteva anch’essa sostantivarsi e allora migrant, nome, meglio se al plurale, è parso un modo per togliere presa all’ethnos, verosimilmente pure al genos. A partire dagli anni Novanta anche in Italia, quando il passaggio da paese di emigrati a luogo di migranti pareva definitivo, irreversibile. Poi è stata la volta dell’Europa, di Bruxelles e delle Commissioni a ratificare lo slittamento, facendone un luogo comune nei report e nei briefing. Per chi era colpito dalla particolare autonomia, dalla capacità di eccedere spazi nazionali e tecnologie di governo (dall’ingovernabile, l’arte di non essere governati), o anche solo dalla transnazionalità che caratterizza un movimento sempre più reversibile,  sembrava importante fornire uno sfondo storico e politico al presente delle migrazioni, aggettivi che per esempio scompaginassero il retaggio coloniale dell’Europa. Le migrazioni diventano così postcoloniali, tanto quanto postcoloniale sembra diventare l’Europa provincializzata e auspicabilmente in via di decolonizzazione che il movimento  e quei movimenti ingovernabili disegnano. Intanto la parola fa il suo corso e la perpendicolarità di immigrato è definitivamente spazzata via dalla caduta obliqua, slant, di migrante, di nuovo attenuata in forme aggettivali: presenza migrante, famiglia migrante, lavoro migrante, ecc. 

L’ex miniera di Marcinelle, oggi un museo. Foto di Nenea sartia, Wikimedia commons

In mezzo però è sfuggito qualcosa, come una voragine, qualcosa che il linguaggio e i numeri hanno invece registrato e che è difficile non definire genocidio: 50.000 (ma sono senza dubbio molti di più) mort* in un mare di mezzo o intorno e dentro i confini postcoloniali dell’Europa negli ultimi 20 anni; infinitamente  di più quell* reclus* nei centri di detenzione europei e nei lager limitrofi che decretano la particolare deportabilità e espellibilità di questa presenza orbitale; o confinati nei campi di grano e nei cantieri  dove si consuma la particolare sfruttabilità e sostitituibilità di questo lavoro in transito. 

Non è tanto una questione di nominalismo, di capire quanto le parole abbiano la forza di definire o solo decretare e riflettere l’esistenza di qualcosa e qualcuno, ma di certo migrante, anche solo per un lapsus, una caduta obliqua, ha il potere di rimandare e vincolare una presenza e una vita a un atto, un’azione o un gesto che si svolge, che è continuamente in corso (in divenire?). Più precisamente, ha il potere di fissare al movimento, all’attraversamento, e quindi a una soglia, un confine di status, condizione, territorio. Sulla levità di questo participio presente, poi, risulta più facile congetturare, assegnare una dimensione provvisoria, in perenne transito, un’aderenza dimidiata, dimezzata (denizen), una doppia assenza, una particolare invisibilità, anche una sparizione, una scomparsa. 

Ruth Gilmore e Angela Davis hanno fornito una definizione apparentemente asettica e tecnica di razza, suggerendo di interpretarla come particolare esposizione a una morte prematura «sanzionata dallo stato». Il riferimento in questo caso è soprattutto alla specifica esposizione alla morte, all’“uccidibilità” di black lives che contano proprio perché nel mondo, nella materialità che definisce una razza, non contano e non si contano. Su questi presupposti necropolitici, lo suggeriva già Etienne Balibar, migrante sembra diventare oggi la parola per dire “razza”.

E sicuramente è sfuggito qualcosa se oggi quella parola è pronunciata indifferentemente da sociologi, antropologi, psicologi, anche attivisti e poi da giornalisti, think-tank, magistrati, ministri dell’interno, della difesa, delle infrastrutture o premier, come da agenti di pubblica sicurezza e funzionari di Frontex, diventando senso comune.  Se cioè quel participio presente, il tempo sospeso di un attraversamento che inchioda continuamente a un’azione e a un confine da varcare nello spazio (interno, esterno, tra) e nel tempo (prima, dopo, durante), attecchisce su ogni vita o presenza trasformandola in richiedente, applicante, supplicante, anche paziente.  Intanto, intorno a noi, lo spazio si è conformato, adattandosi a questa presenza in transito, razzializzandosi e razzializzandola: stati murati, città e quartieri blindati, piazze, treni, mezzi pubblici attrezzati per  arginare e ghettizzare queste vite orbitali, riservandogli luoghi  consoni, definitivamente provvisori. Come nel caso del palazzetto dello sport di Crotone, dove le bare dei 74 “migranti” naufragati a Cutro sono state provvisoriamente disposte in attesa di un rimpatrio, un congedo, un funerale. Perché, come per le anime di Gogol, si resta migranti anche da morti. 

Una mostra a Genova, progetto di un artista, Antonino Milotta e un gruppo di curatori (Anna Daneri, il collettivo Pierre Dupont) prova a ricapitolare le traiettorie di questo slittamento che ci è sfuggito di mano, andando a finire in quelle di un ministro dell’interno (come carico residuale) e di una premier, fino a depositarsi in una razza.  Il titolo della mostra riprende quello di un libro sotto molti aspetti straordinario di Sharam Khosravi di qualche anno fa, Io sono confine: più che a uno status allude a un movimento continuo, per certi versi definitivo, quello stesso che inchioda la parola migrante a un luogo continuamente attraversato. Come un popolo in transito, il genos di un genocidio sotto i nostri occhi.

Una delle opere esposte: Fiamma Montezemolo, Passing, 2017-ongoing, 10 lingotti di cemento incisi e dipinti in oro. Courtesy l’artista

La mostra immette in questo spazio di transito, tra mare, terra e mura, a partire da un’immagine a pelo d’acqua, un’onda fatta di materia sensibile, di aria e fuoco (Agathe Rosa). Lo introduce iconicamente attraverso una rampa, un carrello sovraffollato affacciato sul vuoto, in attesa di un aereo che non c’è (Adrian Paci), tra carichi affondati, norme di navigazione e resti di mappe (Rossella Biscotti), veicoli improvvisati che come Odradek costeggiano orizzonti solcati da cargo ships (Eva Marisaldi), in mezzo a tracce, cicatrici, rotten tomatoes verniciati di nero (Binta Diaw), mantelli mimetici per passare inosservati (Francesca Marconi) e coperte termiche  che diventano tappeti (Ryts Monet).  Ma soprattutto invita a riflettere sul senso della parola cura, come pratica specifica dei mondi dell’arte, affidandosi a immagini che risultano tutte, chi più chi meno, “incurabili”:  che di certo non curano e semmai indicano altrettante lacune, che sono esse stesse lacune.  Una bandiera sbiancata che continua a sventolare ma rallentata, perché sott’acqua (Bruna Esposito); una donna in penombra che continua a sbattere lenzuola, rifare un letto, riassettare una camera (Liryc de la Cruz); delle onde che continuano a infrangersi sulle scogliere presidiate da bunker della fortezza Europa (Margherita Moscardini); il dialogo tra due giovani non vedenti in attesa di ottenere la cittadinanza del paese in cui sono cresciuti e vivono (Zimmerfrei); una nave fantasma in balia delle onde, dal nome ostinato e dissonante, “resto” (Masbedo), oggetti e fotografie di persone scomparse maneggiati con cura chirurgica, asettica, che vanno a comporre un archivio altrettanto ripetitivo, un mosaico dell’assenza (Martina Melilli) cui fa da controcanto quello sonoro, vibrante e alla fine incollocabile raccolto nella piattaforma Black-Med (Invernomuto). Tanti gesti reiterati, trattenuti o protratti, tutti participi presenti, e quindi, nonostante tutto, anche desideranti, impazienti, recalcitranti, dissidenti, più e oltre che migranti.

In copertina: il flyer della mostra “Io sono confine”, con un’immagine dell’opera Centro di Permanenza temporanea, 2007 di Adrian Paci