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MONDO

Q e la seconda guerra civile americana

Il 20 gennaio si terrà l’insediamento ufficiale di Joe Biden alla presidenza statunitense, ma intanto la “ferita” aperta con l’assalto al Campidoglio è ancora aperta: teorie del complotto ed estremismo di destra, suprematismo e patriottismo si mischiano in un complicato puzzle destinato a segnare la scena politica a venire

«Un punto d’origine.
Memorie che ricompongono i frammenti di un’epoca. La mia.
E quella del mio nemico: Q.»

 

Domani si terrà l’insediamento ufficiale del nuovo presidente americano, Joe Biden. La situazione è tutt’altro che pacificata dopo l’irruzione in Campidoglio e, nonostante ancora non si possano escludere del tutto altre manifestazioni, il giorno dell’insediamento di Sleepy Joe rimane quello più attenzionato e gli Usa si confrontano, di fatto, con venti di guerra civile. Mettendo in fila i pezzi di questo puzzle intricato, fatto di teorie del complotto ed estremismo di destra, suprematismo e patriottismo, si può provare a riflettere insieme su come siamo arrivati a questo punto e su cosa ci aspetta in futuro.

 

 

QAnon e le mani sul congresso

L’assalto al Campidoglio del 6 gennaio non nasce dal nulla. Ha radici ben piantate, cresciute a dismisura in questi anni di presidenza Trump con un processo difficilmente semplificabile in poche righe. Sicuramente il tycoon non ha fatto mai nulla per nascondere le sue simpatie verso i sostenitori di Q (che lo considerano il salvatore del mondo), o addirittura per i gruppi dichiaratamente fascisti/suprematisti, come i Proud Boys ad esempio. Questa galassia variegata, ma in un certo senso affine, si è sempre più consolidata come la sua base, elettorale e di sostegno, sua e non del partito repubblicano tout court.

Durante le proteste Blm di questa estate, mentre il presidente invocava il pugno duro contro i manifestanti, non mancava di strizzare l’occhio ai gruppi armati e organizzati che a volte attaccavano le manifestazioni («State pronti», diceva ai Proud Boys), così come a chi diceva che le proteste facessero parte di un grande piano del Deep State per rovesciarlo, proprio lui, eletto dal popolo e benedetto da Dio.

 

Continuamente, durante la sua presidenza, Trump ha fatto propri molti concetti, molti riferimenti alle teorie QAnon, creando direttamente le condizioni affinché una eventuale sconfitta elettorale si fosse immediatamente trasformata, agli occhi dei suoi sostenitori, in una truffa, un inganno, un piano per liberarsi del presidente legittimo e consegnare le chiavi della Grande America al pedosatanista Biden.

 

Si è spinto fino a delegittimare completamente il voto postale e a dire che l’unica risposta possibile alla sua sconfitta sarebbe stata una guerra civile. Ed eccoci qui.

Ma c’è stato anche un punto di svolta specifico in questa storia, concretizzatosi in particolare nelle elezioni dello scorso novembre, quando QAnon ha direttamente eletto dei suoi rappresentanti al Congresso, tra le fila repubblicane. Si è parlato molto di loro (e dell’impatto di questa cosa sull’immaginario QAnon: un segno ulteriore che il “Piano” era in atto e stava andando per il meglio) ma quale è stato il loro ruolo prima e durante l’assalto al Campidoglio?

Marjorie Taylor Green, eletta in Georgia, è il simbolo di Q nelle istituzioni americane. Ha dichiarato che QAnon è l’occasione di una vita per abbattere la cabala di pedofili adoratori di Satana una volta per tutte, oltre a non nascondere il suo disprezzo verso i neri, gli ebrei e i musulmani. David Madison Cawthorn, eletto in North Carolina, ha dichiarato ufficialmente di non appoggiare la teoria di Q. Allo stesso tempo riprende molte delle sua affermazioni, in particolare quelle che riguardano la tratta dei bambini, recandosi oltretutto spesso in Texas, fino al “Wall”, punto nodale della tratta secondo molti. Nel 2017 ha visitato il Nido d’Aquila, la residenza estiva di Adolf Hitler, dichiarando che era un suo sogno da tempo, salvo poi smentire categoricamente eventuali simpatie naziste.

Il ruolo più attivo durante l’assalto è stato giocato, però, da Lauren Boebert, eletta in Colorado, attivista conservatrice e pro armi (ha dichiarato che avrebbe continuato a portare la sua pistola anche alle sedute del Congresso), a detta sua non è una sostenitrice di Q, anche se nei fatti ne sposa appieno gli intenti. Boebert, con il suo telefono, ha continuato a twittare per tutto il tempo dell’irruzione la posizione e gli spostamenti all’interno della struttura di Nancy Pelosi, uno dei principali bersagli dei manifestanti, che nel frattempo gridavano slogan contro la speaker dem, dicendo che la «stavano cercando». Per questo (gravissimo) atteggiamento, ne sono state chieste le immediate dimissioni.
Oramai negli USA Q ha occhi e orecchie in ogni dove, anche nel Congresso.

 

Foto da commons.wikimedia.org

 

 

Mike “Thirty Piece of Silver” Pence

Uno degli elementi più interessanti di tutta questa vicenda è la questione che riguarda il vicepresidente Mike Pence che, dopo l’assalto al parlamento, è stato bollato come nuovo “Giuda”, il traditore di Trump (e di Gesù, of course, nell’immaginario QAnon il ruolo di Trump è quasi lo stesso). Il “tradimento” di Pence si è concretizzato con il voto che ha avallato la successione di Biden al presidente uscente, nonostante Trump avesse poc’anzi chiesto al suo vice di opporsi alla nomina ufficiale del nuovo presidente (cosa che tra l’altro non sarebbe rientrata nelle sue possibilità istituzionali).

 

Non solo, pare che il braccio destro di Trump abbia anche ignorato la catena di comando, avallando l’invio di ulteriori riservisti della Guardia Nazionale per contenere i disordini al Campidoglio (invio più che tardivo tra l’altro, considerando che la frittata era fatta, la struttura quasi completamente evacuata e sicuramente già ampiamente saccheggiata dai manifestanti).

 

Questo comportamento “imperdonabile” del cattolicissimo ex governatore dell’Indiana gli è valso l’epiteto sopracitato, il paragone con il traditore di Cristo. Gli accostamenti tra Pence e Giuda sono presto rimbalzati sui social, da Twitter a Parler, passando per i gruppi Telegram e per la piattaforma 4Chan, dove alcuni gli hanno dato anche del “massone”, postando una sua foto mentre stringe nelle mani una moneta dopo il voto dello scandalo, un possibile “pagamento simbolico” per le sue azioni.

Già diversi osservatori delle dinamiche all’interno della Casa Bianca avevano, in tempi non sospetti, posto l’accento sul rapporto tra Pence e Trump, come ad esempio Kate Andersen Brower che, dalle pagine di “Vanity Fair” nel 2018, aveva addirittura scritto che «Mike Pence, Trump’s most faithful servant, is the man who many in Washington D.C suspect could one day become his Judas». Non c’è che dire, davvero parole profetiche, in particolare per le orecchie dei seguaci di Q.

Ma la galassia QAnon ha scavato anche più a fondo, riesumando un tweet del 2017 scritto nientemeno che da Assange in persona, nel quale metteva in guardia Trump dal fatto che Pence fosse al centro di una trama per rovesciarlo, in combutta con la Clinton (praticamente il peggior incubo possibile per loro, ma anche la spiegazione più “logica”). A questo si aggiungono diverse altre accuse mosse contro Pence, come quella di aver personalmente ordinato di sparare ad Ashley Babbit, la nuova martire dell’estrema destra mondiale, di essere anche lui un pedofilo satanista membro del Deep State e, udite udite, di essere addirittura un comunista.

Dal suo account su Parler, infatti, L. Lin Wood, seguace di QAnon e avvocato che ha predisposto diversi ricorsi per ribaltare i risultati elettorali, ha tenuto a far sapere ai suoi followers (più di un milione) che delle non meglio precisate voci le hanno detto di esser certe di un piano di Pence e degli altri leader del “colpo di stato” per arrestare e giustiziare Trump, tipico atteggiamento da “comunisti”.

 

La realtà è però un’altra e, allo stato attuale, Mike Pence è ritenuto in serio pericolo, considerando le numerose minacce di morte che gli sono pervenute, anche durante l’assalto a Capitol Hill, quando alcuni manifestanti promettevano a gran voce di impiccarlo.

 

Un grande rischio quello corso dal vicepresidente nell’avallare la vittoria di Biden quindi, al cospetto del quale i trenta denari di ricompensa sembrano poca cosa.

 

 

Sono stati gli Antifa, o di Xena vs Hercules

Un altro filone delle teorie del complotto intorno all’irruzione del 6 gennaio riguarda le fantomatiche infiltrazioni degli  Antifa nelle proteste pro-Trump. La pista del “false flag attack” è stata battuta non solo da tweets virali e discussioni su piattaforme e social, ma ha anche pesantemente coinvolto parte del mainstream (in particolare Fox News, network che supporta il presidente uscente) e diverse voci istituzionali. Questa corsa ai ripari una volta degenerata la situazione ha dato perfetto seguito all’atteggiamento del presidente Trump, dapprima diretto sobillatore delle folle, salvo poi ripiegare dopo qualche ora su una generica condanna degli episodi di violenza, facendo appello al fatto che in America comandano “law and order” e che i responsabili di tali episodi avrebbero dovuto essere puniti.

 

Questa mossa ha sicuramente contribuito al teatrino delle accuse agli Antifa, il tutto ovviamente senza uno straccio di prova tangibile nonostante, secondo i sostenitori di questa teoria, le prove sarebbero invece chiare ed inequivocabili.

 

Come ad esempio quelle riportate nel tweet del già citato Wood (sì, lo stesso che ha dato del comunista a Pence), nel quale si potevano vedere, prima che il suo account venisse sospeso, le foto di due militanti neonazisti che si aggiravano tra la folla all’interno del Campidoglio, indizio inconfutabile che qualcosa di strano era in corso. Ma Wood non è stato l’unico trumpiano confuso da questa vicenda. Il pastore evangelico Mark Burns, supporter della prima ora del presidente Trump, ha twittato che l’assalto al Campidoglio era una messinscena Antifa. Prova ne sarebbe la presenza di uno strano personaggio con le corna, il viso dipinto e il cappello di marmotta, ossia proprio Jake Angeli, lo “sciamano di Q”, del quale molto si è scritto anche in Italia. Un tweet che ha incassato anche il like del figlio di Trump, Eric, e diverse migliaia di risposte che facevano notare il clamoroso autogol.

 

Immagine da commons.wikimedia.org

 

Per quanto riguarda Fox News invece, il dibattito sulla possibile infiltrazione delle proteste da parte di gruppi organizzati Antifa è andato avanti per diverse ore, passando per lo show di Laura Ingraham, nel quale si sosteneva che alcuni accessori nell’abbigliamento paramilitare di una parte di manifestanti fossero insoliti tra i sostenitori di Trump, e arrivando alla governatrice dell’Alaska Sara Palin, che ha dichiarato di essere incerta su chi abbia istigato le violenze ma di aver riconosciuto nelle foto dei manifestanti il tipico “antifa folks”.

 

La teoria delle infiltrazioni Antifa, ripresa successivamente (e con forza) anche da Trump, ha avuto un altro sostenitore d’eccezione: Kevin Sorbo, conosciuto per aver interpretato Hercules nell’omonima serie televisiva degli anni Novanta.

 

Il bel biondo, sostenitore di Trump e vicino ad ambienti complottisti, ha seguito con attenzione l’irruzione al Campidoglio, producendo diversi post, di cui l’ultimo proprio a sostegno della tesi delle infiltrazioni. In primo piano di nuovo Jake lo Sciamano, nel testo la frase «They don’t look like patriots to me…» (Non mi sembrano proprio dei patrioti…). A tale post ha prontamente risposto nientemeno che Xena in persona, la Principessa Guerriera, al secolo Lucy Lawless. I rapporti tra i due non sono mai stati idilliaci, perché Sorbo è un fervente cattolico e conservatore, mentre Lawless non nasconde la soddisfazione di essere una specie di icona per le lotte femministe e Lgbtqia+. Nel suo post di risposta a Sorbo riassume con disarmante semplicità quanto appena successo a Washington: «No, chicco di riso. Non sono Patrioti. Sono le tue scimmie volanti, i terroristi di casa nostra agenti di QAnon. Sono la feccia che fa il lavoro sporco per gente come te che soffia sul fuoco lasciandoli sfogare impunemente. #keepingYourFilthyHandsclean #enabler» (#puliteLeVostreLurideMani #complice). Un’analisi abbastanza lucida della giornata.

 

 

La Million Militia March e la minaccia ai Parlamenti degli Stati

Tempi duri per la Capitol Police e più in generale per tutti quelli che si sono trovati a gestire il disastro dell’Epifania. Dopo la figuraccia del 6 gennaio (e le inevitabili teste rotolate nelle successive ore) ora non è più permesso sbagliare ed è il momento di mostrare i muscoli e prepararsi al peggio. Questo, in sostanza, è quanto dice il dipartimento di polizia di Washington, nell’occhio del ciclone per non aver saputo contenere i manifestanti, se non addirittura per averli aiutati a fare irruzione nel Campidoglio, e senza alcun dubbio per aver sottovalutato la portata e le potenzialità della manifestazione pro-Trump.

Lapalissiane le differenze con la manifestazione di Blm di questa estate, quando la stessa scalinata bianca era presidiata da un dispiegamento di forze ben più poderoso e “muscolare”. Polizia, Fbi, intelligence sono adesso tutti concordi sulla serietà della situazione e che il 20 gennaio potrebbe succedere di tutto. Non a caso, già da qualche giorno, centinaia di riservisti della National Guard sono accampati nella hall del Campidoglio, pronti a gestire le nuove mobilitazioni previste per il prossimo mercoledì. Diversi sono gli scenari prefigurati nelle chat e sui social dalla galassia dei sostenitori di Trump, che spazia da gruppi di fascisti e suprematisti organizzati (e pesantemente armati) alla miriade di persone che si riconoscono nel Maga, con sullo sfondo l’ombra lunga di Q.

 

Tutti sono convinti che ci sia ancora speranza per Trump, che non è il momento di arrendersi ma anzi, è il momento di organizzarsi e combattere, è il momento della Guerra Totale.

 

E sia l’impeachment nei confronti del Presidente voluto dai Dem, sia la paventata ipotesi di ricorrere al venticinquesimo emendamento per rimuovere Trump già prima del 20 (e affidare di fatto la Presidenza al “traditore” Pence per qualche giorno) non fanno altro che gettare benzina sul fuoco.

Su alcuni canali Telegram dell’estrema destra sta girando il lancio di una Million Militia March, la più grande manifestazione armata nella storia degli Stati Uniti, stando a quanto dicono, lanciata con tanto di locandina per il 20 gennaio a Washington. Sugli stessi canali si chiedono a gran voce manifestazioni anche per Ashli Babbitt, la donna uccisa dalla polizia negli scontri del 6 gennaio all’interno del Campidoglio e diventata una martire.

Inoltre, secondo un report fatto proprio dalla Capitol Police ai Democratici, oltre ai primi due scenari riportati si aggiunge la possibilità di più manifestazioni che punteranno a circondare il Campidoglio, la Casa Bianca e la Corte Suprema per impedire ai Dem (e ad alcuni Repubblicani) di raggiungere questi posti, possibilmente uccidendoli. Se pensate che tutta l’attenzione sarà concentrata su Washington e sull’inaugurazione della nuova presidenza, state sbagliando di grosso.

Esiste infatti un altro piano per quella giornata, una “mossa Kansas City” per mettere in crisi l’intero dispositivo di sicurezza degli Stati Uniti. In una nota interna dell’Fbi, ripresa dal network di comunicazione Abc, i federali mettono in guardia sia dal possibile arrivo, già per il 16 di gennaio, di diversi gruppi armati organizzati nel DC, sia dalla possibilità che altre manifestazioni armate prendano di mira non solo il Campidoglio, ma tutte le sedi dei governi statali o di quello federale in tutti e 50 gli stati. Si parla di “storming all the governement buildings”, ma anche sedi dell’amministrazione pubblica e sedi del Partito Democratico.

 

Uno scenario da non sottovalutare. E a occhio e croce questa volta la minaccia non sarà sottovalutata, quasi tutti hanno capito che non abbiamo più a che fare con dell’innocuo folklore, seppur persistente nell’abbigliamento di una parte dei sostenitori di Trump. Il problema sarà capire a quale costo.

 

Non solo perché la reazione della polizia, dei federali e, soprattutto, della Guardia Nazionale potrebbe alimentare gli scenari di guerra civile, ma anche perché non sono da escludere misure di emergenza sulla gestione delle piazze e dei conflitti nel paese, in nome della sicurezza nazionale. Misure che, se approvate, produrranno effetti anche dopo che l’attuale tempesta sarà passata, rischiando di vanificare gli sforzi del movimento Blm e della rivendicazione «defund the police», che tanta parte hanno fatto nell’ottica di una profonda riforma dei corpi di polizia in Usa, aprendo un dibattito di cui il paese aveva assoluto bisogno. Ma si sa, questo è l’obiettivo dell’estrema destra da sempre.

 

Foto di Ted Eytan da Flickr

 

 

Ashli Babbitt, la nuova martire dell’estrema destra americana e mondiale

L’irruzione nel Campidoglio si è lasciata alle spalle ben cinque morti (tra cui un poliziotto), alcuni dei quali per cause accidentali, non direttamente legate agli scontri avvenuti all’interno. Una di loro, Ashli Babbitt, è stata raggiunta da un colpo di pistola al collo mentre tentava di fare irruzione da una finestra rotta all’interno della Speaker’s Lobby. Babbitt, ex veterana dell’aeronautica statunitense, era una fervente sostenitrice di Trump e di molte teorie cospirazioniste, da quelle nate intorno alla pandemia di Covid-19 e ai vaccini, passando per la frode elettorale ai danni di Trump, il tutto con sullo sfondo l’ombra di Q, di cui ostentava anche la celebre maglietta il 6 gennaio.

Il suo attivismo online era sorprendente, con una media di circa 50 post al giorno. Proprio attraverso la rete ha intrapreso il suo percorso di radicalizzazione che l’ha portata tra le fila dei seguaci di Q. La sua morte è stata immediatamente elevata a martirio, fin da subito è iniziata a circolare, in particolare sui canali Telegram legati all’estrema destra, una grafica che la ritrae stilizzata, quasi come una Madonna, con la cupola del Campidoglio a farle da sfondo.

 

Una mitizzazione della donna bianca, patriota, uccisa mentre difendeva l’America, tipica dell’immaginario dei suprematisti statunitensi e del Klan in particolare. Migliaia i messaggi che la descrivono come “una patriota”, Promettendo che il suo sangue non sarà stato versato invano.

 

Babbitt è prontamente diventata il George Floyd dei suprematisti, in un’operazione vigliacca di equiparazione e cattura dell’immaginario, come se questa morte fosse da un certo punto di vista un contraltare, una cosa per cui dire “adesso basta Blm, tutti in ginocchio per Floyd e nessuno per Babbitt”.

Ed è quello che da subito si è prodotto, in rete come nelle strade, con slogan e cartelli che recitano «Say her name» o «A patriot is dead» o ancora sul fatto che fosse la prima vittima della “Second Civil War”, contornati da una miriade di messaggi e commenti che gridano alla vendetta, che vogliono manifestazioni e violenza in suo onore. È lo stesso processo di martirizzazione, mitizzazione e distorsione della realtà che conosciamo fin troppo bene e che non agisce solo in America. La vicenda ha infiammato i canali dell’estrema destra americana e dei seguaci di QAnon, ma ha presto travalicato i confini degli Usa.

In Italia la morte di Babbitt è stata immediatamente ripresa da diversi esponenti politici. Il primo ad esprimersi è stato Roberto Fiore, ex terrorista nero e leader di Forza Nuova, che ha dichiarato «Onore a Ashli Babbitt, prima martire della nuova rivoluzione popolare americana». Gli fa eco anche il leghista Pironi, che prima commenta l’assalto al Campidoglio («All’assalto del Deep State, la controrivoluzione identitaria al grido di Fight for Trump») e poi l’uccisione di Babbitt («Ashli Babbit, veterana, disarmata. Le femministe tacciono?»).

Susanna Ceccardi non tarda a farci sapere come la pensa a riguardo, osannando i morti di Capitol Hill e dicendo che se fossero stati di sinistra sarebbero già stati elevati a eroi, come Carlo Giuliani. A queste voci se ne sono aggiunte molte altre, provenienti dalla galassia fascioleghista, comprese quelle dei maggiori esponenti, come Meloni e Salvini, che in un capolavoro cerchiobottista hanno allo stesso tempo condannato le violenze ed esaltato i patrioti, espresso fiducia in Trump e nella democrazia americana.

Questa storia ci insegna, una volta di più, che estrema destra e teorie del complotto, teorie e affermazioni una volta relegate agli ambienti eversivi più beceri ed ora appartenenti al mainstream, violenza e disprezzo nei confronti delle lotte sociali, difesa di presunte identità nazionali sotto attacco, sono oramai legate a doppio filo, non solo negli Usa.

 

Dapprima nell’ombra e successivamente nello spazio pubblico, nelle reti virtuali, Q ha fatto e continua a fare gli interessi del potere mascherati da intenti rivoluzionari e popolari, tessendo relazioni e alleanze, costruendo storie, lavorando sull’immaginario collettivo, reclutando seguaci.

 

E lo sta facendo dannatamente bene. Questa non è solo una storia americana, è una storia che ci riguarda da vicino e della quale, in un modo o nell’altro, ci dovremo occupare, perché il clima di guerra civile latente non riguarda, purtroppo, solo gli Usa.

 

Immagine di copertina di Ted Eytan da Flickr