EUROPA

Podemos, il cambiamento e la sinistra dopo le elezioni spagnole del 26 giugno

Un contributo di analisi sulle sfide di Podemos dopo le elezioni di fine giugno in Spagna.
Interviste a Raúl Sánchez Cedillo. Parte prima: Scenari elettorali spagnoli.
Parte seconda: Spagna e città ribelli.

Sappiamo com’è andata: il modello puro dell’autonomia del politico definito a Vista Alegre si basava nella pratica sulla piena delega allo stato maggiore della macchina da guerra mediatico-elettorale e da un punto di vista teorico, su un populismo laclauiano e mouffiano esclusivo ed escludente nei confronti delle altre narrazioni che riguardavano il processo di trasformazione, tanto quelle di sinistra quanto quelle che si rifacevano alla radicalità democratica del 15M. La constatazione del limite elettorale di questa prima fase di Podemos ha portato alla crisi di questa prima ipotesi.

Non possiamo sovrastimare il ruolo che hanno giocato in questa crisi la potenza composita e capace di costruire processi di aggregazione dei vari municipalismi e il loro successo elettorale, ma anche l’incompatibilità tra la pretesa di centralizzazione dell’errejonismo, la cupola madrilena, e la realtà policentrica e molteplice composta da Galizia, Andalusia, Asturie, Catalogna, Navarra e Paesi Baschi. Dopo il 20 dicembre, con quasi un milione di voti di IU-UP dispersi che vengono intesi come un problema impossibile da occultare, non vi era altro rimedio se non rimettere mano all’arsenale gramsciano per cercare nuove combinazioni possibili per l’ipotesi nazionale e popolare.

In fin dei conti, la contesa attorno alla strategia all’interno di Claro que Podemos, e tra questa esperienza e il garzonismo, girano attorno ad aggiustamenti, interpretazioni e attualizzazioni di una certa lettura di Gramsci, e soprattutto, di Togliatti. L’ammirazione di Laclau per Togliatti è esplicita e possiamo leggerla in nero su bianco ne La Ragione Populista e la chiave risiede nell’interpretazione togliattiana del PCI come partito della nazione. E’ quasi ironico che sia stato un anticomunista reo confesso come Matteo Renzi, 25 anni dopo la fine del PCI, a sfruttare con relativo successo quel termine inteso come adattamento alla realpolitik del concetto gramsciano di nazional-popolare.

E’ difficile credere che il progetto di partito si possa tradurre in qualcosa di più di una nuova-sinistra-unita. All’interno di questa finestra di opportunità che si era aperta intervenivano già da tempo Manolo Monereo e la sua interpretazione della nozione gramsciana di partito organico. Si tratta di un concetto poco definito, che si ¬riferisce sempre al “partito organico” della borghesia che sottende ai frammenti e “alle frazioni, ciascuna delle quali prende il nome di Partito e di Partito indipendente” (Gramsci). L’intervento di Monereo ha influenzato in maniera decisiva lo schema teorico e la prassi di ciò che è stata definita la “confluenza”. La prima operazione è stata simmetrica: se l’oligarchia ha un partito organico, anche noi allora dobbiamo averlo. E chi siamo noi? Le sinistre dello stato spagnolo, ovviamente. Oppure, con un volo retorico, “i lavoratori e le lavoratrici: il nazionale e popolare, a breve o lungo termine, avrà la necessità di un protagonismo di classe”.

La seconda operazione è stata invece una proiezione: il partito organico è tale nell’ambito di una rivoluzione democratica nazionale. Le condizioni reali, e non quelle ideali, son quelle che determinano la funzione, il senso e il valore del progetto del partito organico. Monereo si riferisce ai cittadini e ai movimenti sociali come parti costituenti del partito organico. Si tratta di un’altra torsione del concetto gramsciano, che disconnette il partito organico dal partito elettorale. Senza dubbio, che ci sia o meno un governo del cambio dopo le elezioni del 26 giugno, dopo ben due anni di elettoralismo puro e di un sempre crescente governismo tra i partiti del cambio – in contrasto con l’elogio dell’agonismo nello schema di Laclau e Mouffe – è difficile credere che, al di là dei cerimoniali, il progetto di partito organico si traduca in qualcosa di più di una nuova sinistra, finalmente unita. Una specie di consumazione anticipata del vecchio progetto aunguitiano.

Se accettiamo questo luogo comune gramsciano, possiamo considerare valida l’idea di un partito organico solamente nel caso in cui questo coincida con il progetto di assemblee costituenti della cittadinanza per il cambiamento. E questa possibilità ha come condizione di partenza la dissoluzione, all’interno di questo processo, di tutti i partiti e di tutti gli apparati esistenti. Al contrario, torneremo a ripetere il post festum, pestum.

Tratto da anarquiacoronada.blogspot.it

* Traduzione a cura di Alioscia Castronovo