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PKK-Verbot aufheben: una genealogia della criminalizzazione del movimento curdo in Germania

Contro la messa al bando del PKK si è formata da tempo la campagna PKK-Verbot aufheben, Demokratie stärken di cui AZADÎ e diversi gruppi della sinistra fanno parte (tra i partiti istituzionale c’è solo la LINKE). La campagna punta il dito contro la repressione, il deficit democratico e il razzismo anti-curdo sviluppatisi in questi trent’anni, chiedendo una soluzione politica alla situazione in Kurdistan. Una genealogia della criminalizzazione del movimento curdo in Germania

Il 26 novembre di trent’anni fa, sotto il quarto governo guidato da Helmuth Kohl, venivano messe al bando in Germania tutte le attività del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK). Una data, quella del 26 novembre, che precede di un giorno l’anniversario della fondazione del partito da parte di Abdullah Öcalan e di un pugno di rivoluzionari, avvenuta invece quarantacinque anni fa – 27 Novembre 1978. Non è dato sapere se questa coincidenza sia stata perfidia del caso o delle autorità. Era il 1993 e la Repubblica Federale Tedesca mirava allora a gettare solide fondamenta per la criminalizzazione della comunità curda più grande e probabilmente più organizzata al di fuori di Anatolia e Medio Oriente.

Curde e curdi arrivati dapprima negli anni ’60 come Gastarbeiter, forza lavoro migrante, poi a migliaia come rifugiati politici dopo il colpo di stato in Turchia del 1980, e poi ancora negli anni successivi con l’intensificarsi della repressione e dei massacri nel Kurdistan turco e iracheno. Più di mezzo milione di persone negli anni ’90, diventate oggi quasi un milione e mezzo, tra generazioni nate in Germania e nuovi arrivi, soprattutto in seguito alla guerra in Siria del 2011 e alla politica autoritaria portata avanti da Erdoğan. Un numero che il Ministero Federale dell’Immigrazione stima in crescita: tra gennaio e ottobre di quest’anno sono dalla sola Turchia 45mila i richiedenti asilo, la maggior parte di origine curda.

Quella curda è una diaspora in cui il PKK si era radicato già dai primi anni ’80, mettendo in piedi le proprie strutture, i propri centri culturali, le associazioni, i giornali. La prima federazione di organizzazioni curde in Europa – FEYKA Kurdistan – viene fondata proprio nella Germania occidentale, a Colonia, nel 1984.

Venivano denunciati il colonialismo interno alla Turchia, le brutalità commesse dall’esercito, sostenuta la lotta di chi era rimasto a combatterle: quando nel 1982, nel carcere turco di massima sicurezza di Diyarbakir, i prigionieri del PKK organizzano uno storico sciopero della fame ad oltranza, a Duisburg se ne porta avanti uno di 35 giorni in solidarietà.

All’incirca a questi anni risalgono anche i primi tentativi della Repubblica Federale di combattere il movimento di liberazione curdo all’interno dei propri confini. “Il PKK lavorava apertamente in Germania occidentale. Certo non era registrato come partito politico, ma c’era ad esempio una rappresentanza europea. L’ERNK, il Fronte di Liberazione del Popolo, che univa al suo interno le organizzazioni di donne, giovani e intellettuali del movimento, aveva degli uffici. Simboli del PKK si potevano mostrare apertamente,” dice Arno Jermaine dell’associazione AZADÎ. AZADÎ sostiene dal 1996 i prigionieri politici curdi nelle carceri tedesche, portando avanti anche un importante lavoro di monitoraggio e di sensibilizzazione. “La repressione contro la comunità in esilio comincia con l’inizio della lotta armata in Kurdistan”, spiega Arno.

Con il colpo di stato del 1980 in Turchia molti dirigenti e militanti del PKK erano finiti in carcere, mentre altri, tra cui lo stesso Öcalan, si erano rifugiati in Siria per riorganizzare il Partito.

Che nel 1982 rientrava nel paese e il 15 Agosto del 1984 organizzava la prima azione di guerriglia in territorio turco. In un’intervista rilasciata qualche anno fa Duran Kalkan, comandante e tra i fondatori del PKK, ricordava come, dopo l’inizio della lotta, armata Ankara avesse portato il problema della guerriglia curda all’ordine del giorno della NATO. “La Repubblica Federale Tedesca ha deciso sulla base dell’Alleanza Atlantica di supportare la guerra della Turchia in Kurdistan”, dice infatti Arno. Direttamente, attraverso la vendita di armi (tra il 1980 e il 1991 si calcola un valore di 3,5 miliardi di marchi), e indirettamente, attraverso appunto la lotta interna contro il PKK.

Nel 1987 un’ondata di indagini e perquisizioni da parte delle autorità tedesche portavano in carcere preventivo più di 20 militanti del PKK, per la prima volta sulla base del paragrafo 129a, associazione terroristica, creato nell’ambito delle “leggi speciali” per combattere la RAF. “E’ stato il tentativo di isolare un piccolo gruppo di quadri all’interno dell’organizzazione per criminalizzarli”, commenta Arno.

Quello conosciuto come il processo di Düsseldorf partirà solo due anni dopo, nel 1989, contro 19 di loro (tra cui lo stesso Duran Kalkan). Sarà un Mammutprozess, un maxi-processo mediatico,il più grande e dispendioso della storia tedesca (70 milioni di marchi): venne costruito un apposito edificio, gli imputati portati ammanettati mani e piedi, fatti sedere a 20 metri dai propri avvocati dietro pareti di vetro alte fino al soffitto – il Kurdenkäfig, la gabbia dei curdi. Non era mai successo nemmeno a Stammheim, nello storico processo ai primi quadri della RAF. Quello di Düsseldorf finirà nel 1994 con solo 4 condanne, ma per altri reati. Due dei condannati saranno poi dichiarati innocenti dal Tribunale Europeo per i Diritti Umani nel 2001.

Gli anni in cui si chiude il processo erano quelli in cui si intensificata la guerra dell’esercito turco in Kurdistan. Ancora una volta anche con armi tedesche. Il Muro era caduto, la Germania riunificata, e la Repubblica Federale decideva di regalare alla Turchia armamenti per 1,5 milioni di marchi provenienti dagli arsenali della DDR.

Waffenbruderschaft, fratellanza d’armi, la chiamano i curdi. In Germania e altri paesi europei il movimento aveva risposto attaccando obiettivi turchi – filiali di banche e compagnie aeree devastate, consolati occupati, negozi incendiati.

La messa al bando – in tedesco Betätigungsverbot – del PKK prendeva queste azioni a pretesto. Le attività del partito, motivava l’allora Ministro dell’interno Manfred Kanther (CDU), “violano la legge, sono orientate contro la concezione di un’intesa fra i popoli, mettono in pericolo la sicurezza e l’ordine interno”. Ma la ragione del Betätigungsverbot va letta appunto nel quadro internazionale e come risposta al primo tentativo fallito di criminalizzare il PKK nel 1988. “Con il Verbot l’obiettivo non diventava più un piccolo gruppo, ma tutto il movimento”, dice Arno. Insieme al PKK il governo tedesco dichiarava di fatto illegali le attività di 35 associazioni, tra cui FEYKA Kurdistan e l’ERNK, e ancora giornali, case editrici, agenzie stampa. Ne veniva vietato il supporto, così come venivano vietati i simboli del partito e di molte altre organizzazioni.

Divieti che durano dal 1993 a questa parte. Più di 30 i simboli che non possono essere esposti in pubblico – oltre alla bandiera del PKK, anche l’immagine di Öcalan o il solo inneggiargli possono costare un processo e una multa fino a 1000 euro, nonché essere alla base del divieto di manifestare o tenere un evento. Una restrizione dei diritti della minoranza curda in Germania, e uno strumento di controllo che pesa sulla testa di chi vuole organizzarsi politicamente.

E non solo: uno degli ultimi e più eclatanti casi in cui il Betätigungsverbot è stato applicato è quello del 2019 contro la casa editrice Mesopotamia e la casa di produzione musicale MIR, entrambe da anni regolarmente registrate in Germania. I loro archivi, che costituivano la raccolta di letteratura e musica curde più grande in Europa, sono stati sequestrati, le loro attività dichiarate illegali con l’accusa di essere vicine al PKK.

Eppure il movimento in questi trent’anni ha reagito ai colpi ed è continuato a crescere. Nuovi giornali, agenzie stampa, organizzazioni e associazioni sono nati. Lo testimoniano anche i rapporti annuali dei servizi di intelligence tedeschi, che alla voce “terrorismo internazionale” listano il PKK come l’organizzazione maggiore tra quelle attive in Germania. Quali siano secondo loro le attività terroristiche, i servizi lo mettono nero su bianco: raccolta fondi, propaganda, organizzazione di manifestazioni. Attività pacifiche che si muovono all’interno di una cornice legale.

E’ dal 1996, difatti, che il PKK ha dichiarato pubblicamente di rinunciare a compiere azioni violente sul suolo europeo, come confermato nell’anno successivo dallo stesso Öcalan in un’intervista all’emittente tedesca ZDF. Dopo il suo arresto da parte dei servizi segreti turchi nel 1999, il leader del PKK ha poi annunciato il cambio di paradigma del movimento curdo: non più il separatismo, ma l’autonomia e la democraticizzazione nella cornice degli stati nazionali. Tutti punti che contraddicono le motivazioni della messa al bando del 1993. Su quali basi viene allora portata avanti la persecuzione?

Innanzitutto giuridiche: nel 2002, sull’ondata degli attacchi dell’11 settembre e della lotta al terrorismo, la Germania amplia il suo apparato legislativo aggiungendo il paragrafo 129b – associazione terroristica all’estero. “Non importa quindi se il PKK in Europa fa solo lavoro legale. Basta che i media turchi parlino di attacchi contro militari o polizia”, spiega Arno. Ma le motivazioni sono allora soprattutto politiche: “Fino a quando il governo non ammetterà che in Kurdistan c’è una lotta di liberazione, i membri del PKK saranno considerati terroristi. Stiamo parlando di persone il cui reato è organizzare una manifestazione, fare campagna per l’HDP o raccogliere fondi.” Nel 2011 il Ministero della Giustizia, in collaborazione con quello degli Interni, degli Esteri e con la Cancelleria ha infatti diramato un’autorizzazione a perseguire specificatamente chi è sospettato di appartenere al PKK secondo il §129b. Un’accanimento che il governo non mostra con gruppi fascisti turchi come i Lupi Grigi, che godono di una certa libertà di azione. “In Germania è il potere esecutivo, non quello giudiziario, a definire cosa sia terrorismo e cosa no.” Il contrario è successo in Belgio, in cui nel 2020 la Cassazione ha definito il PKK come parte di un conflitto e che, in quanto tale, va giudicata secondo il diritto internazionale e non secondo le leggi anti-terrorismo.

Quanto estese siano le conseguenze di questa scelta politica del governo tedesco lo si capisce leggendo i report che AZADÎ ha pubblicato negli ultimi 30 anni. Una lista dichiaratamente incompleta che raccoglie più di 200 casi di processi, condanne o incarcerazioni. Dal 2011 a oggi, 65 quelli documentati sulla base del §129b contro persone accusate di essere quadri del PKK. Dal 2016, in base allo stesso paragrafo, 781 indagati.

Tutti i processi per il §129b, racconta Arno, finiscono con una condanna. Al momento sono 12 i prigionieri politici curdi (tra cui una sola donna) nelle prigioni tedesche, alcuni in carcere preventivo, in attesa di processo. Il più giovane ha 24 anni, il più vecchio 72, le pene vanno dai 2 ai 5 anni e mezzo. “Una parte di loro è cresciuta e si politicizzata in Germania, un’altra in Kurdistan, dove sono stati anche in prigione. Hanno anni di repressione e attività politica alle spalle – paradossalmente, è il motivo per cui sono stati accolti come rifugiati”, continua Arno. Chi è stato condannato è in cella singola, quelli in carcere preventivo in isolamento. L’ora d’aria la si passa da soli, le visite si fanno alla presenza della polizia criminale federale e dietro una parete divisoria, la posta viene letta e censurata. Alcuni prigionieri, dice Arno, non parlano tedesco e sono quindi doppiamente isolati. Dal carcere si continua comunque a combattere: l’ultimo sciopero della fame contro le condizioni detentive è stato interrotto il 9 novembre.

Quando si finisce di scontare la pena si resta sorvegliati speciali per tre o cinque anni: divieto di lasciare il comune di residenza, obbligo di firma, divieto di fare politica, scrivere articoli, parlare in pubblico, andare ad eventi, frequentare le associazioni curde. Chi è rifugiato perde il permesso di soggiorno e ne ottiene uno che deve essere rinnovato ogni tre mesi. La Repubblica Federale, sin ora, non ha lasciato deportare nessun attivista curdo in Turchia. Ma a marzo di quest’anno se ne è fatta consegnare uno dall’Italia: Mehmet Çakas, che aveva lasciato la Germania dopo una richiesta d’asilo rifiutata, ma di cui il governo tedesco ha preteso e voluto comunque l’estradizione, processandolo secondo il §129b per aver preso parte all’organizzazione di manifestazioni ed eventi politici a Brema ed Hannover.

Contro la messa al bando del PKK si è formata da tempo la campagna PKK-Verbot aufheben, Demokratie stärken di cui AZADÎ e diversi gruppi della sinistra fanno parte (tra i partiti istituzionale c’è solo la LINKE). La campagna punta il dito contro la repressione, il deficit democratico e il razzismo anti-curdo sviluppatisi in questi trent’anni, chiedendo una soluzione politica alla situazione in Kurdistan.

Ogni anno a novembre ci sono eventi di sensibilizzazione e una grande manifestazione nazionale. Lo stesso PKK, tramite alcuni avvocati tedeschi, ha fatto l’anno scorso richiesta ufficiale al Ministero dell’Interno per annullare la propria messa al bando, senza ricevere risposta. “Se lo stato non sarà costretto, non farà nulla”, commenta Arno. “E costretto lo sarà solo da un’ampia maggioranza della società. Lo si può vedere nelle strade, in parlamento, e soprattutto nella vita di tutti i giorni: giovani curdi possono organizzare all’università un circolo di letture su Öcalan? Rappresentanti del popolo curdo possono parlare nelle Consulte per i cittadini stranieri della situazione in Rojava? Sono questioni per cui ogni volta si deve lottare.” E’ come se la Turchia – per usare ancora una volta le parole di Duran Kalkan –  fosse il 17° Bundesland tedesco.

Immagine di copertina di Berlin Migrant Strikers