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ITALIA

Piume e Alveari. Verso un’economia circolare

“L’Alveare che dice Si!” è un progetto di filiera corta nato in Francia nel 2010 e che negli ultimi anni si sta diffondendo in molte regioni italiane. Un racconto sul campo

A pochi passi dalla stazione di Bergamo una schiera di persone è in fila alla posta sotto ai deboli raggi del sole di fine gennaio. Ai piedi di questa coda chiassosa si apre via Tridentina: una schiera di anonimi edifici residenziali colorati soltanto da piccoli giardinetti ai lati della strada. In cima alla via si nasconde il sogno di una ragazza di nome Alessandra, la Terza Piuma.

La porta è aperta, entrando si sentono due forti e distinti «ciao» provenire da altre stanze. Il locale ha un’invitante luce calda. A destra un manichino fatto di listelli di legno è posto vicino a una selezione di abiti attentamente curati. A sinistra, sopra un grande scaffale una scritta recita: Alveare Terza Piuma. Ai piedi del cartello ci sono scatole vuote, mensole e qualche bottiglia di vino.

 

L’interno del negozio. Dettaglio di un manichino di legno

 

 

La Terza Piuma è un negozio circolare, «un contenitore di diverse attività che promuove uno stile di vita sostenibile a 360 gradi. Abbiamo la sartoria che si occupa di moda etica, l’Alveare che è una piattaforma online dedicata al cibo a Km 0, i prodotti della casa e poi anche corsi e workshop.

 

L’idea è quella di diffondere una vita sostenibile facile da attuare nel quotidiano», spiega Alessandra Gabriele mentre saluta alcuni clienti.

È mercoledì pomeriggio, il giorno della “distribuzione” e l’Alveare si trasforma. Il freddo portale online diventa reale, produttori e clienti si incontrano in un clima familiare e festoso. Ci sono cassette con i numeri degli ordini già acquistati online che traboccano di frutta e verdura fresca di stagione, uova, olio, latte e qualsiasi ben di Dio prodotto a Bergamo e dintorni.

“L’Alveare che dice Si!” è un progetto di filiera corta nato in Francia nel 2010. Un giovane ingegnere aerospaziale, Eugenio Sapora, si innamora del progetto e abbandona la vita parigina per lanciarlo in Italia. Il team nasce a Torino nel 2015. Si tratta di una piattaforma online interamente a servizio dell’agricoltura, del mangiare sano e locale. Si fonda sull’economia partecipativa: chiunque, privato, azienda o associazione può aprire il proprio Alveare. «Il processo di creazione di un Alveare è semplice.

 

Si va sul sito e con il sostegno dell’Alveare madre ci si impegna a cercare dei produttori nel raggio di 250 chilometri, dei consumatori e un luogo per la distribuzione qualunque esso sia: un ufficio, un oratorio, un bar, un garage, un cinema», aggiunge Alessandra Gabriele.

 

Ogni settimana i produttori vendono i prodotti online direttamente ai clienti finali. I consumatori possono acquistare tramite un’applicazione e non c’è un “ordine minimo”. La distribuzione dei prodotti avviene nel luogo scelto, nella fascia oraria e nel giorno stabilito. Lo scopo è combinare tecnologia e agricoltura sostenibile per accorciare la filiera.

 

Alessandra Gabriele davanti al negozio

 

Le restrizioni Covid hanno un po’ smorzato i toni conviviali dei giorni di distribuzione. Ora i produttori non sono ammessi, la mattina passano e depositano i prodotti. La sera si entra uno alla volta a ritirare l’ordine ma le ragazze dell’Alveare tengono alto il morale e offrono grandi sorrisi ai clienti. La porta si apre e si chiude in continuazione.

Stasera tra i clienti c’è anche Chiara: «l’Alveare è stato un mix di opportunità intelligenti, da una parte la comodità di poter fare la spesa all’una di notte quando finisco di fare le mie cose e venirla a ritirare in cinque minuti e dall’altra quella dei principi già propri dei Gruppi di acquisto Solidale (Gas), fondati sull’importanza degli alimenti freschi, di qualità e di sostegno ai produttori locali».

 

Il mercoledì di distribuzione

 

 

Ma si può parlare davvero di economia solidale? Francesca Forno, sociologa e professoressa all’Università di Trento, ha appena condotto con la sua equipe e altre tre università europee una ricerca sul boom delle piattaforme alimentari online nell’anno segnato dall’epidemia.

 

«L’Alveare rispetto anche ad altre piattaforme online è trasparente. Sappiamo bene che il 10%  sull’acquisto va al gestore dell’Alveare e un altro 10%  alla piattaforma che si occupa principalmente di sponsorizzazione.

Resta una piattaforma proprietaria che ha scopo di low business, si inserisce però in un contesto di critica alla grande distribuzione e sta avendo il pregio di rendere più praticabile l’acquisto di good food» – afferma la ricercatrice. Difficile però paragonarlo ai Gruppi di acquisto solidale che sono nati a Fidenza a partire dal 1994. In quel caso, si trattava infatti di gruppi senza scopo di lucro, organizzati spontaneamente, su base volontaria, da famiglie con un approccio critico al consumo.

 

L’intento era sempre quello di accorciare la filiera mediante l’acquisto diretto di ordini molto grandi a produttori selezionati oltre che l’organizzazione di riunioni ed eventi per sensibilizzare le persone su alimentazione ed etica.

 

Molti Gas sono ancora oggi attivi ma il movimento sembra aver raggiunto da qualche anno il suo massimo bacino d’utenza dovuto anche alla difficile gestione del modello e a difficoltà come la necessità di avere un luogo dove poter stoccare gli ordini voluminosi e il troppo tempo richiesto ai partecipanti.

 

(le regioni assenti non sono ancora Alveari)

 

Quanto alla rete degli Alveari e alle nuove piattaforme, Francesca Forno aggiunge un altro elemento interessante: «Molti clienti cercano una sorta di riconnessione con la natura. Una persona ci spiegava come acquistando a ridosso della chiusura dell’ordine settimanale trovasse meno varietà. Non se ne lamentava, è come se riconoscesse che la natura è, sì, abbondante ma a un certo punto finisce».

Di riconnessione parla anche Antonella, una ragazza che sta facendo il tirocinio universitario alla Terza Piuma e ne è diventata cliente insieme alla famiglia: «sto imparando a riconoscere qual è la frutta e la verdura di stagione e soprattutto ora so cosa mangio e conosco la filiera, questo al giorno d’oggi è imprescindibile».

 

Durante l’emergenza Covid l’Alveare è riuscito a garantire puntualità nelle consegne degli ordini, evitando le code viste nei supermercati.

 

Forse anche per questo nel 2020 ha registrato un vero e proprio exploit. «Rispetto al 2019 siamo cresciuti del 193 per cento e durante il primo lockdown nel giro di qualche settimana gli iscritti nuovi al sito sono stati 33 mila» spiega Simona Cannataro, responsabile nazionale della comunicazione dell’azienda.

«Una crescita enorme considerato che la nostra azienda è ancora piccola e gli iscritti totali alla rete sono 163 mila. Il transato sul sito nel 2020 è stato di circa 14 milioni di euro di cui 11 sono andati direttamente nelle tasche dei nostri produttori. Gli alveari attivi oggi sono 231 in tutto il Paese».

A dirigere il mercoledì di consegna c’è anche Lorenzo Nava, l’altro socio fondatore dell’associazione. «Il mondo dell’Alveare stimola una riflessione sugli acquisti. Non si fa più una spesa compulsiva, si impara ad acquistare i prodotti, ci si ritrova con un frigorifero semivuoto ma si scopre poi che quel frigo è totalmente bilanciato sui nostri reali bisogni e così facendo si evitano gli sprechi».

 

 

A parlarne soddisfatti sono gli stessi agricoltori.

 

«Presentare il risultato delle proprie fatiche alla gente, descriverne le peculiarità e soddisfare le curiosità dei clienti mi dà molta soddisfazione», sostiene Marco Vitali, che incontriamo all’ora di pranzo di fronte alla sua stalla ad Arcene, in provincia di Bergamo.

 

Ci ha appena descritto le proprietà antiossidanti dei suoi cereali e farine con mais rosso.

Per il mais da Polenta utilizzano varietà così dette “antiche” di cui producono le sementi. Siamo nella sua azienda, 60 ettari di terreno si aprono davanti ai nostri occhi. Un labrador nero dal pelo lucido ci accompagna felice nel tour tra i campi e le 160 vacche da latte di Vitali. Giampietro Ferri, invece, ha un’azienda agricola nella Bassa bergamasca, cammina con aria attenta tra le decine di serre e mostra fiero la sua nota produzione bergamasca di zenzero e curcuma.

Collabora oramai con una trentina di alveari e da ottobre ha avviato il suo all’interno dell’azienda, tra una fila di serre e i campi di ortaggi. «Lavorare con la grande distribuzione sta diventando difficilissimo, non c’è più guadagno, decidono i prezzi e ti schiacciano.

Da quattro anni siamo entrati nel circolo degli Alveari e con l’Alveare è diverso: si ritrova il contatto con la clientela. Propongo un prezzo e sono i clienti a decidere se comprarlo o meno. Mi ha ridato tanto entusiasmo».

 

Per Giampietro Ferri, la commissione che va all’Alveare Madre è però aumentata troppo. Un punto su cui convergono le lamentele di diversi agricoltori.

 

 

Gianpietro Ferri in una delle sue serre

 

L’Alveare Madre si occupa dell’assistenza tecnica e della sponsorizzazione del progetto. «Un aumento c’è stato nel 2017 dall’8.35 al 10%, perché non eravamo più sostenibili, le spese di gestione del sito e quelle del provider dei pagamenti hanno costi di gestione molto alte. La commissione è stata alzata non per lucrare ma per sopravvivere, mettendo sempre al centro dei nostri interessi i produttori» – replica indirettamente Simona Cannataro. Tra le iniziative dell’azienda c’è il lancio nel maggio del 2019 del primo negozio offline.

A Milano è infatti nato il primo negozio fisico legato alla piattaforma. In via Thaon di Revel 9, nel quartiere Isola, ha aperto “l’Alveare Boutique”, una piccola bottega di quartiere dove acquistare frutta, verdura, pane a Km 0. I prodotti arrivano freschi in negozio ogni giorno da produttori distanti mediamente una ventina di chilometri da Isola.

 

«La filosofia è la stessa, la differenza è sulla vendita, qui la gente può osservare, toccare e scegliere i prodotti e si può creare un rapporto anche più intimo col cliente», spiega la responsabile del negozio mentre dispone ordinatamente delle cassette di cavolo nero appena arrivate.

 

«L’idea non è combattere la grande distribuzione, ma proporre un canale alternativo. Un luogo dove il produttore ma anche l’ambiente venga rispettato» spiegano Alessandra e Lorenzo prima di tornare dai loro clienti, qui alla Terza Piuma di Bergamo.

 

 

 

 

Dressing Piuma, la moda etica

La Terza Piuma non è solamente cibo sostenibile. Tra le ragazze che gestiscono la distribuzione del mercoledì c’è Monica Cerri che è una stilista e designer. Ha creato un marchio all’interno dell’associazione, Dressing Piuma. «Riparo vecchi vestiti usati con l’idea di sensibilizzare le persone a non buttarli via».

Si occupa anche di creazione di modelli unici a partire da tessuti di scarto di alcune aziende italiane, di tessuto rigenerato da reti di nylon recuperate della pesca intensiva e infine da tessuti biologici.

 

Grazie alla collaborazione con altre organizzazioni La Terza Piuma è riuscita a portare la “Fashion Revolution” a Bergamo.

 

Un movimento globale nato dall’indignazione per il crollo del Rana Plaza a Dacca, in Bangladesh, l’edificio commerciale di otto piani con al suo interno fabbriche tessili che lavoravano per i principali brand di moda occidentali, da Benetton a Inditex.

Il crollo è costato la vita a 1129 persone. È in questo contesto che nasce l’idea della startup Zero Impact, un’intuizione innovativa ed essenziale. Su quali criteri scegliamo. un capo quando facciamo shopping? Colore? Tendenze? Zero Impact stravolge i criteri di scelta e l’esperienza d’acquisto con un’etichetta sui capi che certifica l’emissione di Co2 utilizzata per la produzione.

 

 

Ascolta il podcast “Rana Plaza. 8 anni dopo”

 

 

Tutte le immagini di Matias Gadaleta