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MONDO

Perù: un anno di massacro della democrazia

Dopo un anno di dittatura, le proteste sono ricominciate e il paese plebeo sta nuovamente scendendo nelle strade con un protagonismo che l’intellighenzia borghese e i media mainstream possono ignorare, ma non negare

Storicamente in Perù le élites hanno escluso le masse plebee, soprattutto i contadini e gli indigeni, dal gioco democratico. Solo nel 1968 il governo militare di Juan Velasco Alvarado promulgò la legge di riforma agraria, che eliminò il regime di servitù della gleba che interessava il 30% del Paese. Nel 1980, l’Assemblea Costituente fece un altro importante passo avanti decretando finalmente il suffragio universale. Ma al di là dei cambiamenti formali, per i settori più impoveriti esercitare la piena cittadinanza non è stato un compito facile. Prima il conflitto armato interno e poi l’imposizione del neoliberismo arrestarono il processo di protagonismo politico. Solo nell’aprile del 2021, nel mezzo di una profonda crisi politica ed economica, questi settori sono riusciti a eleggere uno dei loro come presidente. Pedro Castillo, un insegnante rurale, un sindacalista e, come milioni di peruviani, sottopagato, disprezzato e terruqueado [in Perù, il terruqueo è una pratica utilizzata dall’establishment conservatore per delegittimare e intimidire gli avversari politici di sinistra o settori sociali popolari attraverso l’accusa di affinità col terrorismo, ndt].

La decisione dei gruppi di potere di fronte a questo trionfo è stata chiara: Castillo non poteva portare a termine il suo governo, doveva fallire e sarebbe stato ancora meglio se fosse finito in prigione, come avviso affinché qualunque altro indio rimanesse al suo posto. Dopo quindici mesi di assedio, gli sforzi di destabilizzazione e di erosione permanente dell’ordine costituzionale in decadenza hanno dato i loro frutti. L’arresto illegale del presidente fu consumato e Dina Boluarte è stata imposta come presidente. Le proteste di massa dei primi mesi che chiedevano le dimissioni di Boluarte furono accolte con l’atavica brutalità coloniale. Il nuovo regime era destinato a rimanere.

A un anno da questa operazione che ha finito per massacrare la debole e deteriorata democrazia peruviana, facciamo un bilancio analizzando le due forze più importanti oggi in lotta. Da un lato, la coalizione golpista che si muove per riconquistare il potere minacciato, ricorrendo a pratiche mafiose e antidemocratiche. Dall’altra, il campo popolare mobilitato che cerca di resistere all’assalto restauratore e ottenere cambiamenti profondi che includano la propria traiettoria politica. Una lotta ancora aperta e dall’esito incerto.

Foto di Connie France

La coalizione golpista: finché la mafia non ci farà a pezzi

Da un anno è al potere una coalizione che ha come maschera legale Dina Boluarte ed è sostenuta dall’articolazione pragmatica dei partiti di destra del Congresso (Fujimorismo, Alleanza per il Progreso), della Procura Generale, dei grandi media e dei gruppi di potere economici. Questi finora si sono uniti intorno a due obiettivi fondamentali: primo, recuperare il deteriorato modello economico neoliberale e, secondo, conquistare le istituzioni e garantirsi di non perdere il potere nel medio termine.

Il compito di rilanciare l’economia non è riuscito. Al contrario, l’inettitudine di Boluarte e l’instabilità politica hanno messo fine al ciclo delle “cuerdas separadas”, in cui la macroeconomia peruviana andava bene indipendentemente dalla crisi politica. Oggi il Perù sta vivendo una grave recessione economica e la contrazione dell’economia si riflette nel conseguente calo del prodotto interno lordo. La crisi si fa sentire nelle tasche delle famiglie perché, come riporta il Programma alimentare mondiale, «più della metà della popolazione vive in condizione di insicurezza alimentare, mentre la malnutrizione cronica è aumentata per la prima volta in 17 anni». Tuttavia, il governo sta seguendo l’agenda imposta dalle multinazionali e dalle organizzazioni padronali. A marzo, il primo ministro Alberto Otarola si è recato in Canada per la concessione delle riserve di litio e a ottobre ha annunciato un nuovo pacchetto di misure favorevoli all’agrobusiness a spese dei lavoratori. Mentre il popolo paga i costi della crisi, il regime asseconda i padroni.

Per quanto riguarda la conquista delle istituzioni, il primo passo della coalizione è stato quello di nominare i membri della Corte Costituzionale, un organo che ha avallato tutte le decisioni del Congresso ed è stato fondamentale per concordare l’indulto illegale di Alberto Fujimori. Inoltre, grazie a una controversa alleanza con il partito “marxista-leninista” Perú Libre, sono riusciti a prendere il controllo della Defensoría del Pueblo [Ufficio del Difensore Civico], nominando un avvocato pro-Fujimori.

Il passo successivo era controllare la Junta Nacional de Justicia, JNJ [Giunta Nazionale di Giustizia], i cui membri sono decisivi nella designazione dei titolari del Jurado Nacional de Elecciones [Giurì Nazionale delle Elezioni]. Il piano stava avanzando, ma alla fine di novembre un settore della Procura ha denunciato la stessa Procuratrice della Nazione Patricia Benavides accusandola di guidare un complotto contro la Junta Nacional de Justicia. Sono emersi accordi con cui la Procuratrice offriva impunità ai deputati in cambio dei loro voti in plenaria. L’esecutivo ha sfruttato la tensione e Boluarte ha chiesto la destituzione di Benavides. La Procura ha contrattaccato denunciando la presidente per la sua responsabilità nei massacri avvenuti durante le proteste di dicembre 2022, dopo un anno di insabbiamenti.

In generale, la coalizione ha registrato successi modesti, ma è riuscita nell’intento principale: rimanere al potere. Tuttavia, la disputa sul controllo del sistema giudiziario ha rivelato le prime crepe nel blocco, svelando il modus operandi tra il Congresso e la Procura Generale, lo stesso utilizzato nel caso di lawfare contro Pedro Castillo. Ha inoltre messo in luce la natura mafiosa di un regime illegittimo in cui non esiste indipendenza di poteri e in cui i vantaggi vengono scambiati con l’impunità giudiziaria, con posti di governo o con favori politici. Ma sebbene la mafia non sia più così unita, non è disposta a rompere il patto di convivenza che le permette di rimanere al potere fino al 2026, data entro la quale dovranno essere indette per legge le elezioni politiche. Probabilmente ci saranno patti sottobanco per mantenere un ordine decadente, ma che ognuno a suo modo favorisce. La mobilitazione popolare potrebbe modificare la situazione, ma sotto dittatura protestare non è un compito facile.

Foto di Melanie Soca

Mobilitazione popolare e crisi politica, i profondi contrasti

In Perù, l’imposizione del neoliberismo durante la dittatura di Fujimori ha significato una nuova forma di governo e di amministrazione pubblica favorevole agli investimenti privati, che ha ridotto lo Stato alla sua espressione minima. Milioni di cittadini sono stati gettati nell’economia informale sotto l’etichetta di “imprenditori”. L’annullamento dello stato come garante dei diritti e la precarizzazione del lavoro andarono di pari passo con la polverizzazione delle mediazioni sociali; sindacati, corporazioni, associazioni, partiti politici si diluirono in una lunga crisi. Il sogno di Milei si è realizzato nel Perù impoverito degli anni Novanta.

I settori popolari che erano emersi dalla resistenza e dall’adattamento al neoliberismo – lavoratori informali, contadini, lavoratori a giornata dell’agro-esportazione, tassisti in motocicletta, studenti, cuochi e microimprenditori – si sono politicizzati, cercando una propria rappresentanza politica. Queste masse plebee, per lo più di origine indigena o cholos [termine, a volte usato in maniera dispregiativa dalle elité coloniali, utilizzato per indicare la popolazione meticcia, ndt] dei quartieri periurbani, votarono massicciamente per Pedro Castillo e difesero il suo governo fino all’ultimo giorno. Sono stati questi settori a mobilitarsi in tutto il paese per rifiutare la destituzione del loro presidente, contro l’usurpazione di Dina Boluarte avallata dal Congresso corrotto e dalla classe politica di Lima di ogni schieramento. La repressione li ha colpiti duramente ed essi e le loro famiglie sono tra le vittime della dittatura, con più di settanta assassinati, milleduecento feriti e milleottocento perseguitati dalla giustizia.

Dopo il forte attacco repressivo, è stato molto difficile per i settori mobilitati costruire una piattaforma organizzativa che superasse limitazioni come la frammentazione territoriale o i caudillismi locali. A marzo è stato creato il Comitato Nazionale Unitario di Lotta del Perù (Comité Nacional Unificado de Lucha del Perú, CONULP), composto da gruppi regionali, ma a giugno si è sciolto ed è stato creato il Comitato Nazionale Unitario di Coordinamento di Lotta (Coordinadora Nacional Unitaria de Lucha CNUL). Dal punto di vista politico, non sono ancora riusciti a trovare un punto di riferimento politico perché sebbene la leadership di Pedro Castillo mantenga l’egemonia, ci sono settori che chiedono la sua liberazione e altri che insistono per il suo reintegro. Nel corso dell’anno hanno inscenato diverse manifestazioni di protesta unitarie per chiedere le dimissioni di Dina Boluarte, la chiusura del Congresso, un’Assemblea Costituente e la libertà dei prigionieri politici. Ma al di là della loro combattività, le loro possibilità di alterare gli equilibri di potere sono piuttosto limitate, a meno che la loro influenza non cresca.

Negli ultimi mesi, di fronte alle azioni autoritarie e mafiose del regime, settori del centro, del centro-sinistra e della classe media progressista si sono uniti all’opposizione. Leader politici, giornalisti, ONG e altri soggetti che all’inizio sostenevano apertamente Dina Boluarte stanno ora organizzando sit-in e attività di strada per difendere la Giunta Nazionale di Giustizia e la democrazia che solo di recente hanno visto minacciata, nonostante il palese golpe di dicembre.

Si tratta di azioni minoritarie, concentrate a Lima, che stanno rapidamente prendendo le distanze dai settori popolari mobilitati, che bollano come “castillisti” perché tra le loro richieste c’è la liberazione del presidente deposto. La democrazia può continuare a essere massacrata, ma le «incomprensioni profonde e mortali» [hondos y mortales desencuentros: espressione che fa riferimento alla storia di violenza del conflitto armato con Sendero Luminoso, ndt] che hanno storicamente segnato la società peruviana si stanno imponendo, approfondendo gli abissi di classe e razziali, dando un vantaggio alla coalizione golpista.

Un anno dopo la dittatura, le proteste riprendono e il paese plebeo torna a scendere nelle strade con un protagonismo che l’intellighenzia borghese e i media mainstream possono ignorare, ma non negare. Hanno la determinazione di costruire il proprio percorso, ma servono più politica e ponti di dialogo per rompere il patto infame che sostiene i golpisti. Il risultato è aperto, per ora.

Anahí Durand Guevara è sociologa, docente dell’Università di San Marcos di Lima, fa parte del collettivo “Mujeres por una nueva Constitución” ed è ex ministra delle Donne del governo Castillo.

Articolo pubblicato originariamente su Diario Red, che ringraziamo, assieme all’autrice, per la gentile concessione. Traduzione dallo spagnolo di Angelo Piga per Dinamopress.

Immagine di copertina di Connie France, Lima, 2023