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Per un cinema apolide e partecipato

Abbiamo incontrato Vittorio Iervese, vice presidente e membro del comitato di selezione del Festival dei Popoli , la più longeva rassegna di cinema documentario al mondo giunta alla 56esima edizione, conclusasi la scorsa settimana.

Mi ha colpito la forte attualità del programma di questa edizione, quali sono gli obbiettivi che vi hanno guidato nella selezione dei film?

Il Festival dei Popoli, il più antico festival di cinema documentario al mondo, nasce a Firenze 56 anni fa con un’impostazione di origine accademica, quella del cinema etnografico e antropologico, unita alla voglia di andare oltre all’Europa e agli Stati Uniti accogliendo produzioni provenienti dall’Africa, dal Medio e Estremo Oriente. L’attualità intesa anche in senso politico nell‘accezione più nobile del termine, è sempre stata un obbiettivo di questo festival, ma adesso c’è da parte nostra un’attenzione particolare alle urgenze e alle impellenze di cui riteniamo che il nostro pubblico voglia discutere. Quest’anno ovviamente la guerra diffusa e la produzione di nuove forme di terrorismo, in congiunzione con alcuni processi di migrazione e un certo squilibrio sociale, sono diventati elementi di una mappa che abbiamo voluto tracciare, una mappa di un territorio che è in continuo cambiamento. La affidiamo agli spettatori perché ognuno possa uscire dal cinema non soltanto con delle immagini ma anche se si vuole con un carico di impegno civile, di commozioni e informazioni, e possa poi ricostruire il proprio puzzle. Quindi la funzione del festival è cambiata: non è più una vetrina, non soltanto un red carpet, ma è un movimento con il quale si vuole accompagnare sotto braccio da una parte gli autori e dall’altra gli spettatori, e facendosi accompagnare sotto braccio da loro.

Com’è nata la sezione “Alì nelle città – derive e approdi dei migranti contemporanei”? Chi è Alì?

Nel titolo della sezione vi è una doppia citazione: “Alice nella città” film di Wim Wenders che ha anche dato il nome alla sezione Nuovi Orizzonti della Festa del Cinema di Roma, e “Alì dagli occhi azzurri” protagonista di Profezia, una poesia di Pier Paolo Pasolini. Abbiamo voluto fare un omaggio indiretto ad un autore che ha lavorato non sul documentario ma sul realismo poetico, e che in questa poesia eccezionale, visionaria e d’avanguardia, pubblicata 50 anni or sono, immagina gli sbarchi dei migranti come li vediamo ai giorni nostri.

Non lavoriamo mai con una idea preconcetta ed essendo il nostro un festival di cinema che si occupa di realtà, ci adattiamo a quello che vediamo. Quest’estate eravamo nella fase in cui stavamo concependo il nostro festival, e l’emergenza dei migranti bussava alle nostre porte. Pur non volendo schiacciarci sull’urgenza delle news, abbiamo voluto rispondere ad una semplice constatazione. Negli ultimi anni ci sono arrivati tantissimi film che si occupavano di questi argomenti, e ne sono arrivati sempre di più e da tutto il mondo, per cui noi avevamo anche un patrimonio che dovevamo mostrare.

Abbiamo quindi selezionato quei film che parlassero delle migrazioni in modi non soltanto emergenziali, esclusivamente nel momento in cui se ne notano gli effetti collaterali, guardando invece a quei processi biografici complessi che i media fanno fatica a descrivere. Il cinema documentario si occupa proprio di questo, di restituire le complessità, le passioni e le diverse sfumature di queste situazioni.

L’intenzione era quella di dare a questo presunto Alì lo statuto del nuovo cittadino. Ci siamo voluti chiedere: come c’è arrivato Alì fin qui, nelle nostre città? I film che abbiamo selezionato sono film che da prospettive diverse ricostruiscono questa complessità a volte anche imprevedibile, a volte creativa, a volte divertente e certo drammatica, ma non solo. Questi film sono il nostro salvagente, con cui cerchiamo di non affogare nell’indifferenza e nella superficialità, tra la paura e il disorientamento.

Tra le molte occasioni di dibattito, c’è stato un incontro pubblico (in collaborazione con il Global Governance Program dell’EUI) “Luoghi poco comuni – per un altro racconto delle migrazioni”, quale l’intento di questa sessione?

Quel tentativo di riflessione non era né un dibattito accademico né tantomeno per addetti ai lavori. Il tentativo era quello di chiamare ad un tavolo a confrontarsi persone che affrontano gli stessi problemi da prospettive e da ambiti professionali differenti: il giornalista (Fabrizio Gatti, L’Espresso), il ricercatore universitario (Nicola Mai, Kingston University), il cineasta (Malik Nejmi), e chi lavora con i musei (Beatrice Ferrara, CSPG/L’Orientale). La nostra ipotesi è che l’interdisciplinarità che spesso è propria di questo ambito, che sta tra documentario, reportage giornalistico, ricerca scientifica, denuncia politica e attivismo, questa interdisciplinarità necessaria si costruisce sui metodi, ovvero prendendo gli attrezzi del mestiere di un ambito e applicandoli su un altro ambito, e vedendo che succede. Allora c’é il giornalista che utilizza l’osservazione partecipante dell’antropologo, c’è l’antropologo che utilizza la formula dell’intervista del giornalista, c’è il ricercatore che utilizza le forme dell’arte, e via dicendo. Questo prestito in realtà è una sorta di traduzione continua e quindi innesca delle forme innovative. Questo è quello che volevamo fare, ne è scaturito un dibattito franco, scoppiettante anche spesso provocatorio in cui proprio le difficoltà di comprendere le accezioni e di mettere in comune le aspettative che ciascuno ha nel proprio ambito professionale creano dei fraintendimenti ma anche scatenano delle prospettive creative.

Durante la discussione ci si è soffermati forse anche un po’ troppo sull’annosa questione del realismo, cosa ne pensi?

La questione del realismo paradossalmente è una questione che i documentaristi hanno superato già da molto tempo e di cui si occupano altri ambiti. Abbiamo film che proprio perché si avvicinano sempre di più al reale devono ammettere che ogni racconto della realtà è una costruzione. Il problema è piuttosto quali modi utilizzare per far trasparire gli strumenti con cui l’hai costruita? C’è una finzione? C’è una messa in scena? C’è del materiale d’archivio? C’è un particolare lavoro di montaggio? Quello che noi privilegiamo qui sono quei film che non nascondono ma che anzi in qualche modo giocano in modo creativo con le contraddizioni e i paradossi della rappresentazione. E non a caso noi approfondiamo molto, cerchiamo di entrare in contatto con gli autori di farli entrare in contatto con il pubblico. Sono film che spesso non hanno necessariamente dei canali commerciali ma che girano molto e che spesso tratteggiano e indicano delle direzioni che poi vengono prese in considerazione e copiate da tanti altri autori, magari più mainstream.

Johan van der Keuken, importante documentarista olandese, diceva che il documentario è sostanzialmente “luce e contatto” intendendo da una parte la scrittura con la luce, la fotografia, il linguaggio cinematografico, e dall’altra parte il contatto, ovvero la relazione con sia con i soggetti protagonisti che con gli spettatori. Questa è la vera questione, non è tanto quello che dici ma come lo dici e soprattutto con chi lo dici che diventa importante, così come per definire la mia identità non è importante la questione del “chi sono” ma piuttosto “con chi sono e dove sono”.

Come si sta evolvendo il genere del cinema documentario, nell’ampio spazio creativo che sta tra reportage giornalistico e cinema d’autore?

Per molti i documentari hanno dei riferimenti piuttosto obbligati e scontati, ovvero i documentari storici divulgativi e pedagogici, quelli di tipo naturalistico con la voice-over che spiega il mondo da una prospettiva esterna. In realtà il cinema che noi presentiamo qui al Festival dei Popoli da diversi anni ormai è un cinema apolide nel senso che non si riconosce in questi generi e spesso li mescola per cui è un cinema che cerca una casa, degli spettatori. Fortunatamente li sta trovando, perché molti dei film che stanno avendo dei riconoscimenti nei grandi festival o che stanno appassionando e vengono riconosciuti come i più innovativi sono questi. Sono film senza un unico luogo e senza necessariamente una scuola di riferimento.

Inoltre questi film possono essere considerati apolidi anche nel senso che sono ibridati dal punto di vista produttivo. Vi sono persone, registi o anche semplici curiosi, che si mettono in cammino seguendo le migrazioni, travalicando i confini e sperimentando dunque nuove forme di produzione e di realizzazione e anche nuove forme di finanziamento e distribuzione. Ci sono film che nascono con campagne di crowdfunding e che nascono dal basso, altri che nascono con delle produzioni miste, e altri che devono affidare la videocamera agli stessi migranti, per cui la domanda comincia a diventare: a chi appartiene questo film?

In realtà, è qui sta probabilmente l’aspetto più interessante per chi fa cinema, i film sulle migrazioni estremizzano alcune tendenze che stanno avvenendo nell’ultimo periodo. L’autore diventa sempre di più un mediatore per la realtà, piuttosto che uno che racconta dall’inizio alla fine una realtà che ha già in mente. Aiuta a far nascere alcuni elementi, li riprende, li monta, li porta nei festival, ma senza un lavoro di partecipazione con i soggetti o di relazione con essi non esisterebbe questo tipo di cinema. Per questo è un cinema in cui la paternità e la maternità sono difficili spesso da attribuire.