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Panzieri, cento anni dopo

È appena uscito per i tipi di Derive Approdi, il libro di Marco Cerotto “Raniero Panzieri e i “Quaderni rossi”. Alle origini del neomarxismo italiano”(Roma,2021) che ricostruisce il metodo di inchiesta del “sapere operaio” e di un marxismo anti-deterministico e anti-oggettivista, in grado di confrontarsi con la realtà materiale

Sono note le parole con cui Cesare Cases ricordava Raniero Panzieri dopo la sua morte, avvenuta improvvisamente (non aveva ancora compiuto 44 anni) l’8 ottobre 1964: «credo che gran parte del fascino di Panzieri derivasse da un’arte rarissima, benché essenziale in politica: quella di ricominciare da capo». In questa frase è contenuta l’essenza di un lavoro teorico e pratico come quello di Panzieri, incapace di adeguarsi comodamente all’esistente tanto nel campo della riflessione, quanto in quello dell’intervento politico.

Quello di Panzieri è stato un pensiero volto alla «ricostruzione del sapere operaio» (per dirla con Negri) a partire da una «reinterpretazione senza precedenti di Marx fuori dal marxismo […] e del conflitto sociale colto, attraverso l’inchiesta, come lotta operaia» (parole di Adelino Zanini). Non stupisce, dunque, che nel centenario della sua nascita si siano moltiplicate le iniziative editoriali e di riflessione dedicate alla figura intellettuale e militante di Panzieri.

Tra queste, Raniero Panzieri e i “Quaderni rossi”. Alle origini del neomarxismo italiano di Marco Cerotto (Derive Approdi, 2021) ha il merito di inquadrare la statura di Panzieri all’interno del complicato intreccio storico che ne circonda il profilo. Diviso in tre capitoli, il libro fotografa infatti dapprima una dettagliata biografia politica e intellettuale di Panzieri, dalla formazione intellettuale nell’Università di Urbino fino ai “Quaderni Rossi”.

Qui Cerotto mette in luce l’importanza degli scambi, intellettuali e politici, che Panzieri intrattiene con Galvano Della Volpe, Ernesto De Martino e Rodolfo Morandi (tra gli altri), ed evidenzia il modo in cui il sociologo ha attraversato le vicende del PSI tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Sessanta.

Il secondo capitolo è dedicato al dibattito teorico-politico italiano che prende piede nel marxismo italiano del secondo dopoguerra, e in particolar modo degli anni Cinquanta, a partire dalla discussione sull’eredità gramsciana e fino alle diverse interpretazioni sul “neocapitalismo”.

A quest’altezza emerge l’originalità di Panzieri, la sua capacità «ricostruttiva» e «reinterpretativa», l’aderenza marxiana a un metodo di analisi e di intervento capace di scontrarsi finanche contro il marxismo stesso. Un’attitudine che Cerotto sintetizza nella divaricazione tra il «”marxismo teorico” delle organizzazioni di classe» che interpretava il neocapitalismo «come un processo di oggettivo miglioramento delle condizioni materiali della classe operaia»(p. 94) e la prospettiva panzieriana capace di analizzare lo sviluppo tecnologico come «un fenomeno in grado di svelare il dispotismo del capitale che provocava una reificazione della forza-lavoro senza precedenti storici» (p. 99). In sintesi, l’analisi di Panzieri «smascherava le cosiddette ideologie “oggettivistiche” del marxismo ortodosso, rendendo insostenibile il parallelismo teorico che individuava nel miglioramento materiale della condizione operaia il presupposto per la stessa emancipazione sociale» (p. 100).

Infine, nel terzo capitolo Cerotto si dedica al fondamentale contributo di Panzieri nei “Quaderni Rossi”. L’autore mostra la traiettoria che il sociologo ha voluto costruire all’interno di questa esperienza e le frizioni che ne sono nate con altri esponenti (soprattutto Mario Tronti e il gruppo che dal 1963 darà vita a “Classe Operaia”) in seguito alla rivolta torinese di piazza Statuto nel luglio 1962. Da una parte, l’indisponibilità di Panzieri ad abbandonare le organizzazioni storiche del movimento operaio, dall’altra l’intenzione di parte della redazione di scommettere sull’autonomia e l’antagonismo di classe, senza la mediazione partitica o sindacale.

Proprio le “divergenze teoriche” tra Panzieri e Tronti occupano le conclusioni del volume. Qui l’autore mette all’opera una contrapposizione che viene introdotta già nelle prime pagine del libro, quella tra “sociologi” (Panzieri) e “politici” (Tronti), divisi tanto dalla prospettiva analitica quanto dalla proposta politica. Tale separazione, se anche può risultare funzionale dal punto di vista dell’esposizione, rischia di essere un po’ semplificante e di ostacolare la restituzione piena di un’esperienza intellettuale quale quella del primo operaismo in cui teoria (analisi: sociologia) e prassi (intervento: politica) pretendevano di camminare insieme.

In altre parole, all’altezza della rottura dentro i “Quaderni Rossi”, Cerotto sembra aderire in modo forse un po’ troppo rapido alle critiche panzieriane mosse nei confronti di Tronti. Le analisi di quest’ultimo, infatti, vengono ricondotte a posizioni «che implicitamente o meno si fondavano su una concezione della classe che risentiva delle analisi sul capitale elaborate dalla tradizione terzinternazionalista, interpretando lo sviluppo capitalistico come inesorabilmente destinato a entrare in un’ultima fase e legittimando così la prospettiva del crollo e l’alternativa del socialismo concepito come storicamente necessario» (p. 131).

Una «concezione deterministica del marxismo» (ibidem) in cui Tronti «sentenziava, seppur indirettamente secondo Panzieri, la fase ultima dello sviluppo capitalistico e la necessità di puntare su una strategia rivoluzionaria che inquadrasse nella classe operaia l’unico motore mobile del processo capitalistico in grado di spiegare gli sviluppi recenti del neocapitalismo» (p. 134).

Panzieri riteneva “hegeliane” le posizioni di Tronti e non ebbe remore a esprimere questa sua posizione nella relazione del 1963 che, di fatto, sanciva la rottura interna ai “Quaderni Rossi”. Tuttavia, rilette oggi quelle sue considerazioni andrebbero forse affrontate in maniera diversa. “Oggettivismo” e “determinismo” mal si conciliano con una prospettiva quale quella trontiana elaborata tra il 1962 e il 1967 e sviluppata tra “Classe Operaia” e Operai e capitale (dunque, in quella che Steve Wright ha definito la «fase classica dell’operaismo»), in cui centrale è la questione del rovesciamento del punto di vista, prima di tutto sul piano logico.

L’antecedenza della classe operaia rispetto al capitale è, anzi, la quintessenza di una prospettiva che guarda al modo di produzione dal punto di vista del soggetto (della valorizzazione, e dunque dell’antagonismo), piuttosto che dell’oggetto.

In questo senso, il “determinismo” è spazzato via dall’azione soggettiva e autonoma della classe, in cui nulla è preordinato e tutto soggetto alla capacità di intervenire nella congiuntura. Anzi, da un certo punto di vista tale prospettiva manifesta una sorta di continuità dell’eredità panzieriana nello sviluppo dell’operaismo, nel senso di un ulteriore smascheramento delle «ideologie oggettivistiche del marxismo ortodosso».

Per questa ragione, risulta difficile sostenere che «Tronti subisce la dura legge del contrappasso di chi ha avversato severamente l’ortodossia teorica del marxismo per finire completamente intrappolato in una nuova canonizzazione teorica» (p. 59). Al contrario, il merito di Panzieri, che Cerotto mette in luce, è stato proprio quello di contribuire in modo determinante a una “apertura del marxismo” che, negli anni successivi, ha trovato proprio in Tronti (e poi in Negri) uno sviluppo capace di impedire alla teoria la chiusura in un canone statico, mantenendola invece altamente mobile e in grado di misurarsi con la realtà materiale.

Nella foto 28/05/1975: scontri a Padova per impedire il comizio del presidente dell’Msi Covelli (via collettivipoliticiveneti)