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ITALIA

Pandemic Chronicles, capitolo 1. Qualcuno processi quel virus

L’inchiesta dei PM di Bergamo sulla gestione delle prime fasi della pandemia punta il dito sulle responsabilità istituzionali, sulle omissioni e sui ritardi. Ma la grandezza dell’inchiesta ci interroga su un dato più generale che riguarda la “normalità” precedente la pandemia. E il tanto agognato “ritorno” alla normalità ad essa successivo. Come se quel che è accaduto non fosse in continuità proprio con la “normalità” antecedente e successiva

È difficile stabilire quando una pandemia finisca. Come ci spiega lo storico della medicina Mauro Capocci in un articolo uscito sull’ultimo numero di “Le Scienze” (1) determinare la fine di una pandemia è infatti un affare che riguarda ben poco i numeri dei contagi o delle morti, quanto la percezione di emergenza della cittadinanza. Nello specifico dell’attuale situazione, l’allentamento delle misure di distanziamento e isolamento, la minor insistenza sulla campagna vaccinale, il “ritorno alla normalità” determinano la fine della pandemia molto più dei dati epidemiologici. Per quel che riguarda il SARS-COV2, possiamo affermare con una certa sicurezza che grazie alle robuste campagne di vaccinazione siamo fuori dall’emergenza e che la situazione, salvo improbabili e radicali mutazioni che facciano emergere nuove varianti più aggressive e meno immunogene, si vada stabilizzando, facendo diventare questo virus un altro patogeno con sintomatologia ed epidemiologia simil-influenzale. Ma anche qui, c’entra molto la nostra percezione viziata da un punto di vista occidentale che difficilmente guarda oltre il cortile di casa. Basta vedere quel che sta accadendo in Cina.

Dei piani pandemici e della loro applicazione

A giudicare da quel che vediamo oggi, la nostra percezione è andata ampiamente oltre il semplice considerare a torto o a ragione la pandemia terminata. Pare in effetti di assistere in tutta Italia a un vasto processo di rimozione collettiva di quanto accaduto. Insomma, non parliamo unicamente della comprensibile dismissione delle misure di distanziamento e delle chiusure selettive. Nella coscienza collettiva, qualcosa è stato completamente cancellato, come se la pandemia fosse stato effettivamente un momento di completa eccezionalità, al di fuori del normale scorrere del tempo e senza correlazioni col prima e col dopo. Una vulgata diffusa a piene mani da politici, intellettuali e sedicenti esperti che hanno ascritto continuamente quanto avvenuto all’ambito dell’imponderabile, dell’imprevedibile, dell’irripetibile, dell’eccezionale per l’appunto. Già durante la pandemia, qualsiasi dibattito sulle cause sistemiche dell’accaduto è stato del tutto eliminato dal dibattito pubblico. Abbiamo assistito a lunghe e infuocate discussioni sull’origine più o meno naturale del SARS-COV2, sulla sua provenienza più o meno cinese, sui suoi natali più o meno novembrini ma ben poco sulle ragioni profonde dell’esposizione sempre più frequente della nostra specie a rischi pandemici. Niente sugli allevamenti intensivi, sulla deforestazione, sul consumo di suolo, sulla globalizzazione dei commerci. Lo stesso discorso vale sul versante sanitario.

Si è molto dibattuto ad esempio sulla mancanza di modifiche sostanziali al piano pandemico nazionale, redatto nel 2006 e principalmente riferito a virus influenzali e a quelle mancate modifiche si è imputata buona parte dell’impreparazione e dell’approssimazione che abbiamo visto. Eppure è davvero difficile immaginare che nel giro di 14 anni possa cambiare “sostanzialmente” la modalità di affrontare una pandemia e del resto il SARS-COV2 ha modalità di trasmissione simili ai virus influenzali, tant’è vero che in molti paesi del mondo si è affrontata la pandemia facendo riferimento proprio a piani pandemici contro virus influenzali. Insomma, bisognerebbe avere l’onestà di dire che quel piano, per quanto datato, indicava esattamente cosa fare, quando farlo e come farlo. È un passaggio piuttosto rilevante. Perché sposta l’attenzione dalla specifica omissione di un aggiornamento di un documento allo stato dell’intero sistema sanitario e non solo. Ha avuto il coraggio di dirlo Andrea Crisanti nella sua recente relazione sui fatti avvenuti in Lombardia a inizio pandemia consegnata ai PM di Bergamo. L’inchiesta ha infatti chiamato sul banco degli imputati tutti i decisori politici dell’epoca, dal governatore Fontana al Premier Conte al Ministro Speranza, l’assessore Gallera e vari rappresentanti delle istituzioni sanitarie, per un totale di 15 imputati di massimo rango.

L’accusa piuttosto grave è di aver tentennato, ignorato le evidenze e i richiami in particolare in riferimento all’istituzione di una zona rossa nei comuni di Alzano e Nembro, causando un totale di 4000 morti evitabili, stando alle analisi di Crisanti. La seconda accusa riguarda proprio la mancata attuazione di quel “vetusto” piano pandemico che parla esattamente di sorveglianza epidemiologica delle sindromi respiratorie, contact tracing, screening a tappeto dei viaggiatori nella fase di rischio pre-pandemico. Indica al contempo di aumentare la disponibilità di posti in terapia intensiva e provvedere all’approvvigionamento di ossigeno medicale e dispositivi di respirazione assistita. Afferma l’esigenza di avere un deposito nazionale di dispositivi di protezione individuale di scorta per il personale sanitario oltre che una riserva di virali ed antibiotici. Parla anche della divisione dei percorsi per malati sospetti infetti e altro genere di pazienti. Infine, prevede che a livello nazionale e regionale vengano svolti periodicamente corsi di aggiornamento sul rischio epidemico per il personale sanitario ed esercitazioni ad hoc. Insomma, quel piano pandemico indicava di fare esattamente tutto quel che non è stato fatto. E il dato per cui queste indicazioni risalissero al 2004 è al limite un aggravante rispetto alle enormi responsabilità politiche nella distruzione del nostro sistema sanitario e nell’omissione di quelle misure lì indicate.

Mentre urlavamo allo scandalo dell’omesso aggiornamento del piano pandemico, come se l’aggiunta di un paio di pagine a un documento comunque mai applicato potesse rivoluzionare la situazione, il problema era macroscopico, come un elefante in una stanza. Ed era soprattutto frutto di decenni di definanziamento del sistema sanitario, di spostamento delle risorse sulla “medicina d’avanguardia” a scapito della medicina territoriale e dei servizi di prevenzione, di totale sottovalutazione del rischio di pandemia, in un Occidente che culturalmente riteneva di aver più o meno chiuso i conti con le malattie infettive, considerate ormai roba da terzo mondo.

4 marzo 2020: Il governatore della Lombardia Fontana neo-positivo al SARS-COV2 dirime i dubbi mostrando al Paese le difficoltose manovre da compiere per indossare una mascherina chirurgica.

Un virus eccezionale

Insomma, la pandemia ci è stata presentata come una rottura nella temporalità del capitalismo, non come parte strutturale di quella temporalità. E le sue conseguenze devastanti, come il frutto di una qualche particolare malignità intrinseca del SARS-COV2 (nuovamente, un bias cognitivo tutto occidentale, andate a raccontarlo nella Sierra Leone martoriata da Ebola) e di una o più negligenze in ogni caso circostanziate e temporalmente collocabili, oltre che emendabili. Un’eccezione, appunto, che si verifica quando casualmente si incrociano il caso sadico di Madre Natura che ci consegna un nuovo patogeno, la circostanziata inefficienza nell’aggiornare un piano pandemico e l’ontologica finitezza dell’essere umano che «non poteva prevedere quanto accaduto». In questo modo si salva tutto quel che c’era “prima” della pandemia. E si legittima il fatto che “dopo” possa essere esattamente come prima, se in fin dei conti il “prima” è assolto da ogni responsabilità.

Su questo elemento dell’imprevedibilità, dell’impossibilità di individuare responsabilità ai massimi livelli o di mettere sotto la lente d’ingrandimento le politiche sanitarie in toto e le influenze mortifere degli interessi economici padronali, ha lungamente insistito ad esempio Matteo Bassetti, virologo preferito dai tutti i turbo-liberisti di questo paese. Parlando in riferimento alle accuse mosse dai PM di Bergamo nell’inchiesta sulla gestione delle fasi iniziali della pandemia, Bassetti è arrivato alla curiosa proposta di processare il SARS-COV2 piuttosto che i vertici della politica e della sanità che per settimane hanno sottovalutato i rischi e che anche di fronte all’evidenza dei fatti, quando già il virus uccideva in Lombardia, hanno tentennato per evitare che la “locomotiva d’Italia” dovesse spegnere i motori. Nella posizione di Bassetti troviamo tutto quanto fin qui detto. L’incalcolabilità del rischio, la natura furtiva e furbesca di un microscopico pacchetto di proteine e acidi nucleici ribattezzato SARS-COV2 che avrebbe fregato l’intera comunità dei decisori politici e degli scienziati, l’assoluzione totale dell’intero “sistema paese” del quale Bassetti si dice invece orgoglioso. La sua posizione cozza con quella di Crisanti che invece segnala proprio come attuando azioni diverse la situazione sarebbe stata decisamente migliore. La questione non è tanto avere un approccio giustizialista, ritenere che con qualche condanna i conti siano chiusi, quanto individuare responsabilità, negligenze, mancanze per far si che non si ripetano.

Non è interessante sul piano analitico assumere il punto di vista degli apparati giudiziari, quanto rendersi conto che la quantità e la qualità degli indagati ammantano di per sé il processo di un valore politico più generale, non riguardando questa o quella fazione politica, questa o quella istituzione sanitaria ma la totalità della politica e delle istituzioni nazionali e locali. Una lettura strettamente giudiziaria rischia di depotenziare questo portato sistemico della questione. Del resto, tutti ricordiamo le prese di posizione di Assolombarda, “Milano non si ferma”, l’allora segretario PD Zingaretti che volava nella città meneghina per fare un aperitivo sui navigli, salvo risultare positivo al SARS-COV2 dopo qualche giorno, le ormai acclarate pressioni confindustriali per non chiudere le aree a rischio. Ma al netto del fatto che negligenze e omissioni vanno individuate e perseguite, il punto è comprendere come l’estensione di questo processo interroghi direttamente lo stato del sistema sanitario in termini generali, l’inefficacia di un’idea di sanità tutta mirata sulla cura individuale più che sulla prevenzione – che è sempre un dispositivo sociale –, il conflitto connaturato al capitalismo tra salute e produttività.  È questa la dimensione che il processo di Bergamo indica sul piano sistemico e che dovremmo cogliere, al di la della cronaca giudiziaria.

27 febbraio 2020. Il Segretario del PD Nicola Zingaretti beve birra e spritz sui navigli con alcuni giovani democratici milanesi al grido di “Milano non si ferma”. Il 7 marzo risulterà positivo al SARS-COV2.

Tutto sarà come prima

Ma nonostante la risonanza mediatica acquisita da questo processo che ha – temporaneamente – riportato la memoria a quei giorni, la lettura bassettiana evenemenziale e a tratti fatalista della pandemia si è ampiamente affermata nell’immaginario collettivo. Riportare la mente a quei giorni è faticoso e difficile e se quegli eventi hanno certamente lasciato qualcosa nell’inconscio collettivo, pare che invece ci sia un’enorme difficoltà nell’affrontarli su un piano cosciente, nel rielaborarli e situarli in una dimensione di continuità temporale col prima e il dopo. E dunque possiamo dire che anche questa volta, come in passato, non ne siamo usciti per niente migliori. E abbiamo imparato ben poco di utile, salvo qualche nozione di sanità pubblica e infettivologia, tanto per far sì che quando ci sarà la prossima pandemia nessuno potrà dire che il problema principale sarà la mancanza di cultura scientifica delle italiche genti, nel peggiore dei casi ignoranti e nel migliore troppo affezionate all’antica e inutile educazione umanistica. Di insegnamenti che vadano oltre lo starnutire nel gomito o il lavare le mani per almeno 60 secondi, ben pochi.

Un dato plastico rispetto all’enorme processo di rimozione collettiva avvenuto, riguarda la netta rielezione di Fontana a governatore della regione Lombardia. Il dato risulta ancora più evidente se si guarda alle aree del lodigiano e della bergamasca che in prima battuta furono colpite dal COVID, oggi al centro dell’inchiesta. In queste zone, il vantaggio di Fontana è in linea se non maggiore del risultato regionale.

Il secondo dato indicativo riguarda gli investimenti in sanità. Stando a un recente report della Corte dei Conti, l’Italia continua a spendere molto meno in sanità rispetto agli altri grandi paesi europei. Dal 2013 al 2019 la spesa sanitaria è stata ridotta dell’8,2% e nel triennio 2023-2025 è previsto che si riduca di ulteriori 4,6 miliardi rispetto al “florido” triennio precedente, che ha registrato un incremento dovuto principalmente alle esigenze di gestione dell’emergenza pandemica. L’annunciata riforma dell’autonomia differenziata inoltre decentrerà moltissime funzioni sui sistemi sanitari regionali, sancendo la definitiva separazione tra sistemi di serie A e sistemi di serie B, come denuncia la fondazione GIMBE. Il tutto nonostante un recente sondaggio IPSOS segnali che per la cittadinanza la sanità rappresenti la prima preoccupazione, col 55% degli intervistati che la collocano al primo posto tra le priorità del paese con particolare attenzione al potenziamento dei pronti soccorso, dell’assistenza ospedaliera e dei dispositivi di prevenzione, quindi proprio quei servizi sanitari che più sono stati sollecitati durante la pandemia.

A questo si aggiunge il recente allarme lanciato dall’OCSE in un report sui sistemi sanitari nazionali dall’evocativo titolo “Pronti per la prossima crisi?”. In questo report, si richiamano i paesi ad aumentare gli investimenti in sanità, sulla scorta delle lezioni apprese durante la pandemia e in vista di futuri sconvolgimenti legati non solo all’eventualità di nuovi outbreak potenzialmente pandemici ma anche a varie emergenze di carattere sociale, ecologico e geopolitico che avranno ricadute sanitarie importanti (migrazioni, guerre, cambiamenti climatici, antibiotico-resistenze per dirne alcuni). In particolare si raccomanda all’Italia di aumentare di circa 25 miliardi l’anno la spesa sanitaria, rispetto a quella già consistente del 2021.

Infine, c’è la questione ambientale. La percezione del legame stretto tra emergere di nuovi patogeni umani e il deterioramento ambientale, i cambiamenti climatici, lo sfruttamento delle risorse, è ben noto ai decisori politici e alla comunità scientifica. Eppure, anche su questo piano nulla è cambiato. Lo denuncia persino l’Agenzia Europea per l’Ambiente, non proprio un consesso di ecosocialisti radicali o anarchici primitivisti. Quei pochi e illusori segnali di miglioramento che abbiamo visto durante la pandemia (tutti correlati alla contingente situazione di lockdown e alla conseguente riduzione radicale nei trasporti e nei consumi) sono anche in questo caso stati del tutto eccezionali e strettamente correlati alla situazione contingente. Non appena l’emergenza è passata, i livelli di emissioni hanno avuto un’impennata tornando a livelli pre-pandemia. E di fronte alla crisi energetica causata dalla guerra in Ucraina, si torna addirittura all’utilizzo del carbone per la produzione di energia. Mai pervenuti provvedimenti sostanziali in tema di deforestazione, consumo di suolo e allevamenti intensivi, tra le cause più note di passaggi di patogeni da animali a umani.

Una statua al Pincio omaggia i “medici eroi” che hanno combattuto contro il SARS-COV2. La presenza di diversi dispositivi di protezione individuale è a tutti gli effetti una libertà artistica dell’autore che non ricalca la realtà dei fatti.

La pandemia nella relazione tra società e natura

Non bisogna tuttavia dedurre da quanto detto che un fenomeno quale una pandemia non abbia in ogni modo una componente significativa di imprevedibilità e che la sua violenza non possa comunque causare danni devastanti. Ricadere nell’atteggiamento antropocentrico e baconiano tale per cui l’umanità (nella sua accezione tendenzialmente bianca, occidentale e maschile) può dominare in toto la natura grazie al proprio intelletto e al progresso ottenuto nei campi delle scienze e della tecnica è quanto mai miope. In tal senso, letture massimaliste per cui la pandemia sarebbe tout court il frutto marcio del capitalismo mentre invece in una futura società comunista chiuderemo i conti con tali tragedie, risultano soffrire di un positivismo rozzo e dogmatico e sono analiticamente del tutto inservibili, facendo da contraltare alle letture fataliste che indicano viceversa nella Natura (quella con l’iniziale maiuscola, l’entità eterna e impersonale, non quella immanente, storica e mutevole) fattasi matrigna, l’unica responsabile dell’accaduto, assolvendo del tutto il sistema socio-economico. Ambedue i punti di vista soffrono infatti della riproposizione di un dualismo stantio, nel quale da una parte c’è l’uomo e dall’altro la natura e qualsiasi relazione tra le due sfere si da unicamente nei termini dell’azione unidirezionale dell’una sull’altra, sia l’uomo che domina la natura grazie all’accresciuto progresso e alla miglior organizzazione sociale assicurati da un regime comunitario o la natura che viceversa a un dato momento lancia imprevedibilmente nel campo dell’umano un patogeno pandemico tanto per ricordarci la sua intrinseca malvagità.

Il tema è piuttosto quello di interpretare dialetticamente il rapporto tra le società umane (cosa ben diversa dall’Umanità ma anche da homo sapiens) e quella che definiamo “natura”. Le prime sono sì un sottoinsieme della seconda ma al contempo ne rappresentano anche una delle funzioni più determinanti nel condizionarla in toto in questo ridotto intervallo di tempo della storia naturale che Jason Moore ha chiamato “capitalocene”. In quest’ottica affermare che una pandemia sia un evento naturale che colpisce le società umane o affermare che una diversa organizzazione sociale potrebbe chiudere i conti con le pandemie non ha alcun senso. Sono ambedue affermazioni assolute, astoriche, idealiste. Il tema è piuttosto andare ad analizzare puntualmente, con il metodo dialettico e un approccio relazionale, il rapporto tra società umane e natura ed evitare conclusioni assolute. Conclusioni che solitamente saltano fuori quando si fa un uso politico della scienza mentre invece raramente vengono utilizzate sul piano ristretto dell’analisi scientifica che ad esempio prevedono tutti gli studi di “risk assessment” che puntano esattamente a definire sul piano probabilistico il rischio di un dato evento, per evitare, per dirne una, che qualche ultraliberista possa appellarsi all’imprevedibilità delle pandemie per salvare il “migliore dei mondi possibili” o che qualche marxista superficiale possa affermare fideisticamente che quando sorgerà il sol dell’avvenire il potere taumaturgico del comunismo preserverà l’umanità dai contagi. Quindi una ridefinizione del sistema produttivo in relazione alle sue ricadute ecologiche, un rafforzamento del sistema sanitario, un investimento in ricerca, possono certamente ridurre il rischio di future pandemie e attenuarne le conseguenze. Ma non di certo abolire tutto questo. Quel che invece è certo è che collocando le cause di quanto accaduto al di fuori del sistema sociale, al di fuori della storia recente della nostra specie e dei suoi diversi modi di produzione, al di fuori persino della “normalità” e della temporalità delle nostre società, otteniamo come unico risultato quello di assolverci da qualsiasi responsabilità e tirare ottusamente dritto verso la prossima “imprevedibile” pandemia.

1. Quando finisce una pandemia? Mauro Capocci, Le Scienze Marzo 2023

Immagine di copertina da Wikimedia di Alberto Giuliani