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MONDO

Cronaca di un disastro annunciato: pandemia e resistenze in Colombia

L’impatto della pandemia in Colombia mostra l’immensa e drammatica disuguaglianza sociale e lo stato precario del sistema sanitario dopo decenni di neoliberismo. La prima parte di un reportage in due puntate: mentre la violenza e il genocidio di leader sociali nel paese non si ferma, un approfondimento sulle esperienze e le pratiche di mutualismo con le donne in prima linea nei quartieri popolari.

Mentre la fame esplode nei quartieri popolari, la violenza e la furia estrattiva che devastano corpi e territori non si fermano, ma si rinnovano con maggiore intensità. Tre mesi dopo i primi casi di Covid-19, mentre l’America Latina è diventata l’epicentro planetario della pandemia, in Colombia sono 43.682 i casi confermati, 1.433 i deceduti, 17.333 i pazienti guariti a fronte di 444.933 test effettuati. La maggior parte dei casi si concentrano a Bogotá e nelle grandi città, ma la situazione è drammatica anche in alcuni territori indigeni, in particolare in Amazzonia e lungo le frontiere con Venezuela, Perú e Brasile.

Nei mesi che hanno preceduto la pandemia, una serie di proteste e insurrezioni popolari contro le insostenibili politiche neoliberiste hanno attraversato diversi paesi dell’America Latina. In Colombia, a partire dallo sciopero nazionale di fine di novembre vi sono state diverse settimane di grandi mobilitazioni contro il paquetazo neoliberale, la riforma fiscale e quella del lavoro suggerite dal FMI e dall’OCDE al presidente Iván Duque, contro la violenza sistematica nei confronti dei popoli indigeni, degli ex guerriglieri che hanno deposto le armi, delle donne e dei leader sociali e per il rispetto degli accordi di pace siglati tra le Farc e il governo colombiano a L’Avana nel 2016.

L’attuale governo di estrema destra non ha rispettato gli accordi di pace, la violenza è ritornata con più forza nei territori e inoltre sono stati sospesi i negoziati con l’altra guerriglia attiva nel paese, l’Esercito di Liberazione Nazionale, che ha però dichiarato un cessate il fuoco unilaterale durante la pandemia.

 

L’eccedenza delle lotte degli scorsi mesi a partire dallo sciopero del 21 novembre ha sconvolto il paese con una intensità e una estensione inedite, e con una straordinaria capacità di coniugare radicalità, partecipazione di massa ed eterogeneità delle forme di protesta.

 

Mentre stavano per essere lanciate nuove mobilitazioni studentesche, sindacali, femministe, indigene, contadine e ambientaliste nel mese di marzo, in continuità con i mesi precedenti, l’arrivo della pandemia ha contribuito ad acuire la crisi anche dal punto di vista sanitario: la sanità pubblica svenduta al mercato, razzializzata ed elitaria svela e mette in risalto la devastazione prodotta da decenni di governo delle destre neoliberiste e le ragioni profonde delle mobilitazioni dei mesi scorsi.

In Colombia il 60% della popolazione vive in condizioni di povertà, il 10,8% di estrema povertà,  mentre «la ricchezza è concentrata in poche mani, poche imprese che creano PIL ma non uguaglianza» come affermato da Alicia Bárcena del CEPAL nel novembre 2019 in occasione della presentazione del rapporto sulla Colombia.

In piena pandemia, la disoccupazione è arrivata al 19,8%, coinvolgendo circa 4,1 milioni di persone, secondo i dati di  aprile del 2020, 1,6 milioni in più dello scorso anno secondo l’ente di statistica nazionale DANE. Il paese è anche il primo al mondo per tassi di informalità del lavoro, arrivando al 61,3%, secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale del Lavoro; significa che quasi 10 milioni di persone vivono dell’informalità, del cosiddetto rebusque,  attività che garantiscono entrate giornaliere, senza avere accesso alle pensioni né alla previdenza sociale. La Colombia ospita inoltre circa il 40% del totale dei migranti venezuelani e la loro situazione è peggiorata nella pandemia anche rispetto ai rimpatri dato che il governo non riconosce come legittimo il presidente venezuelano Maduro.

 

Le misure prese del governo di Iván Duque hanno favorito le grandi imprese e due mesi dopo il primo caso registrato nel paese, lo scorso 11 maggio, in piena pandemia, ha deciso la flessibilizzazione delle misure di quarantena per favorire i settori concentrati dell’economia, che hanno fatto pressione per riaprire, a scapito della salute, le attività manifatturiere e le costruzioni.

 

In risposta a questo, diverse organizzazioni indigene hanno deciso di mantenere misure di quarantena autogestita sulla base del controllo territoriale entrando così in forte tensione con il governo nazionale.

Continua inoltre anche l’emergenza  nelle carceri dovuta al sovraffollamento strutturale che, come denuncia Sergio Segura, è dimostrato dalle statistiche del INPEC: «nelle 134 carceri del paese che hanno una capacità fino a 80.156 si trovano attualmente 124.188, oltre 44 mila più del numero massimo previsto». Attualmente, sono  1.399  i casi di contagio e 4 i morti nelle carceri e le proteste continuano sia dentro che fuori, dove si mobilitano amici e parenti dei detenuti, sin dalle prime ondate di rivolte duramente represse dalla polizia con il tristemente noto massacro del carcere La Modelo dove nel mese di marzo ci sono stati 23 morti e 83 feriti da parte della polizia.

 

Foto di Luis Carlos Ayala, Ciudad Bolívar

 

La pandemia nei quartieri popolari di Bogotá

La capitale del paese, con i suoi otto milioni di abitanti, è attualmente l’epicentro del contagio nel paese con 14.132 casi confermati. La quarantena è stata prorogata fino al 15 giugno, è stata raggiunto quasi il 50% della capienza negli ospedali, anche se già prima della pandemia il sistema sanitario era sull’orlo del collasso.

 

Il malessere crescente della popolazione per la sistematica violazione dei diritti e le condizioni precarie di vita nei quartieri popolari e nei municipi di periferia è esploso con l’arrivo della Covid-19.

 

Oltre al rischio di contagi, gli abitanti dei quartieri popolari, così come gli indigeni, gli afrodiscendenti e i contadini in Colombia affrontano ogni giorno molteplici forme di violenza: quella dei gruppi armati, dell’esercito e dei paramilitari, quella del narcotraffico e delle sue trame di violenza sui territori, ma anche quella della fame che aumenta, della disoccupazione, mentre la crescente precarizzazione e la finanziarizzazione della vita quotidiana obbligano le famiglie a indebitarsi anche per un piatto di cibo al giorno.

In molti territori dell’antica Bakata, nome della capitale colombiana nella lingua indigena del popolo Muisca, originario di questi altipiani andini, le comunità hanno denunciato che la situazione di miseria si è aggravata con la pandemia e hanno messo in campo una serie di pratiche solidali e comunitarie come mense popolari, raccolte di fondi solidali tra vicini e sostegno alle donne che vivono situazioni di violenza.

Per lo Stato esistono solamente quando viene richiesto loro di stare in prima linea rischiando il contagio,  altrimenti vengono abbandonati alla scelta se morire di fame o di Covid. A fronte dell’inefficienza dello Stato, e alla sua violenza, diverse carovane di solidarietà hanno attraversato i quartieri popolari delle città e i territori rurali indigeni.

 

I drappi rossi appesi alle finestre e ai balconi per denunciare condizioni di emergenza, fame e povertà, sono diventati il simbolo della diseguaglianza sociale nella pandemia e mostrano come la violenza strutturale sia la normalità.

 

In tutte le 20 località di Bogotá sono presenti diverse aree di estrema povertà, 381.418 famiglie vivono in condizioni abitative precarie (Distretto Bogotà 2020) mentre 9.538 sono senza casa (ONG Temblores) e 39.620 sono venditori ambulanti (IPES – Instituto para la Economía Social).

La rappresentante nazionale dei lavoratori informali, Flor María Hernández, racconta come siano «i lavoratori informali i più colpiti dalle misure di isolamento sociale obbligatorio, perché nonostante il governo abbia disposto un piano di sussidi sociali, questi vengono pagati attraverso il sistema bancario e una parte significativa dei lavoratori informali non ha il conto in banca». Flor María denuncia sia le irregolarità nella consegna degli aiuti che la risposta repressiva: «molte famiglie stanno soffrendo la fame, così sono scese in strada a protestare e hanno ricevuto come unica risposta la repressione dell’ESMAD e della polizia».

 

«Morire di fame o di Covid»: cosi Flor María presenta l’angosciante dilemma che attanaglia i lavoratori informali e delle economie popolari.

 

La maggior parte dei lavoratori informali ottengono entrate economiche giornaliere legati ad attività che si svolgono in gran parte a stretto contatto con altre persone, non hanno risparmi e non accedono alle misure di protezione sociale o ai diritti del lavoro. Dalla prospettiva della loro condizione socio-economica, le misure di isolamento e di quarantena rappresentano un rischio per la sopravvivenza. Per queste ragioni alcuni «escono comunque a vendere mascherine, sacchi per l’immondizia, o eucalipto» racconta ancora Flor María.

In questo contesto difficile, il Gruppo di ricerca in Socioeconomia, Istituzioni e Sviluppo dell’Università Nazionale di Bogotá ha lanciato la campagna per un Reddito minimo per venditori ambulanti, riciclatori, tessitori, per chi svolge lavoro di cura, parrucchieri e tutte le altre attività che costituiscono le economie popolari.

Secondo l’economista César Giraldo  «le economie popolari soddisfano le necessità di base di molti ambiti della vita urbana, offrono servizi e beni senza ricevere in cambio dallo Stato alcuna garanzia né alcun diritto. Milioni di persone vivono di queste attività […] Per questo proponiamo una garanzia di reddito minimo per la vita e, oltre a migliorare il contributo economico destinato a questi settori sociali, ai disoccupati ed ai lavoratori autonomi, occorre rafforzare le reti di distribuzione alimentare». Queste rivendicazioni contribuiscono ad ampliare le rivendicazioni di un reddito di base universale che in particolare durante questa crisi pandemica è diventato un tema centrale per i movimenti sociali a livello globale.

 

Foto di Luis Carlos Ayala, Usme.

 

Sgomberi e violenza nei territori

I popoli indigeni che vivono a Bogotá si confrontano con un alto rischio di contagio a causa degli spazi ridotti in cui vivono, come denuncia il leader del cabildo indigeno Muisca, popolo originario che vive nelle località di Bosa e Suba, epicentri del contagio. «Nel quartiere Rincón di Suba c’è il tasso di contagio più alto della media, noi stiamo monitorando la situazione, non restiamo con le mani in mano a fronte dell’inefficienza del governo, ma al tempo stesso chiediamo un tavolo per negoziare le politiche pubbliche mentre ci organizziamo con la nostra comunità. Siamo in lotta da oltre 500 anni, resisteremo anche a questa crisi».

 

La maggior parte dei 37.000 indigeni appartenenti ai diversi popoli che vivono nella Cxhab wala,  la grande città in lingua indigena Nasa, condividono le stesse problematiche. Lo scorso 7 maggio, l’Organizzazione Nazionale Indigena della Colombia ha denunciato gli abusi commessi dalla polizia contro le comunità urbane del popolo indigeno Emberá Katío in occasione di sgomberi violenti.

 

Conosciuti nei propri territori di origine come «la gente del mais», gli Emberá vivono una difficile crisi abitativa e alimentare, condividono stanze dalle 6 alle 15 persone in piccole pensioni e la loro unica fonte economica deriva dalla vendita dei tessuti tradizionali lungo le strade. Come la maggior parte degli indigeni che vivono a  Bogotá, sono emigrati a causa del conflitto armato che ha distrutto i loro territori, le relazioni comunitarie, i loro affetti, tutto tranne la forza con cui si sostengono alla loro cultura per resistere in mezzo alla metropoli, in attesa di poter tornare nei territori ancestrali. Proposito per adesso irrealizzabile, a causa di una pace che continua ad allontanarsi. Dopo la firma degli accordi di Pace dell’Avana tra le Farc e il governo, altri gruppi armati hanno preso possesso dei loro territori, dove scontri armati e reclutamenti forzati rendono impossibile vivere.

In piena quarantena, molti altri quartieri popolari hanno dovuto affrontare violenti sgomberi, in particolare nella zone di Usme e Ciudad Bolívar, località della zona sud della capitale dove vive circa un milione di abitanti. Anche qui gran parte della popolazione è costituita da vittime del conflitto armato costretti allo sradicamento forzato dai loro territori. All’assenza del rispetto di diritti di base come la salute, l’istruzione e la casa va aggiunta la presenza di gruppi armati illegali. E adesso, per aggravare ancora di più la situazione, l’emergenza alimentare e la pandemia Covid.

Qui lo Stato non ha solamente un debito storico con gli abitanti per le condizioni di abbandono in cui vivono, ma è responsabile direttamente della violenza agita contro la popolazione. Come accaduto a fine aprile, quando un poliziotto ha ferito gravemente un giovane che protestava per l’assenza di sussidi sociali nel barrio El Recuerdo. Rocío Garzon, del Movimento Popolare La Sureña, denuncia che sono scesi in strada perché «non sono arrivati gli aiuti, né le reti solidali, per questo abbiamo protestato».

 

In questi stessi territori lo Stato è responsabile delle esecuzioni extragiudiziarie di giovani dei quartieri popolari denunciate dalle madri che lottano contro l’impunità dei militari e per la verità e giustizia per i loro figli.

 

Le Madres de Falsos Positivos de Soacha y Bogotá denunciano una ferita ancora aperta nel paese, il massacro dei cosiddetti falsos positivos, gli oltre  8.000 ragazzi dei quartieri popolari o dei territori rurali spariti nel nulla e presentati poi come guerriglieri caduti in combattimento dall’esercito colombiano durante la guerra contro-insurgente del governo di Álvaro Uribe Vélez.

Ana Páez Muñoz, madre di uno di loro, Eduardo Garzón Páez, racconta che nonostante le difficili condizioni in cui si trovano, le Madres stanno fabbricando mascherine con gli slogan del movimento e le vendono per riuscire a sostenersi e al tempo stesso portare avanti la loro battaglia.

«Ci chiedono di non uscire e non scendere in strada, ma sono sessanta giorni che siamo chiusi in casa e non abbiamo alimenti, non abbiamo niente, nemmeno per una giornata. Dobbiamo pagare l’affitto, le spese, e non abbiamo nulla. Lottiamo per la verità e la giustizia da ormai tredici lunghi anni, molte di noi hanno più di sessant’anni ormai e non abbiamo avuto giustizia. Lo Stato non si rende conto in quale condizioni viviamo noi vittime del conflitto, non si rende conto di cosa abbiamo bisogno, ma noi non siamo elemosinando nulla, sono diritti che ci spettano e lo Stato ce li deve garantire», racconta Ana con voce stanca ma determinata.

 

Foto di Luis Carlos Ayala, Ciudad Bolívar

 

«No estamos solas»: pratiche di resistenza del femminismo popolare

Decine di donne e trans hanno denunciato gli abusi della polizia che si sono intensificati dopo la misura Pico y género, che stabiliva le uscite per donne e uomini in giorni alterni. Si sono così riprodotti stereotipi di genere, esponendo le persone che non si riconoscono nel modello binario tradizionale e trasformando così la popolazione in giudici rispetto all’identità sessuale, come hanno denunciato le organizzazioni femministe e trans: «Abbiamo paura. Come è successo a Bosa, la polizia minaccia le donne nelle strade. A una ragazza l’hanno spogliata, a un’altra hanno rubato i soldi», denuncia ancora Rocío Garzón.

Questa misura, inoltre, ha rivelato l’assenza di equa distribuzione del lavoro domestico e di cura: nei giorni assegnati alle donne le vendite sono aumentate del 20%. La Rete Popolare delle Donne della Savana, composta da donne che abitano e vivono nei territori limitrofi alla capitale, in gran parte occupate nell’industria della floricultura finalizzata all’esportazione, denunciano l’impatto delle giornate di lavoro pagato e non pagato delle donne nella pandemia e le conseguenze sui loro corpi.

Dialogando con loro, ci raccontano che «un aspetto centrale delle nostre attività è stata la campagna Mi trabajo en casa también vale per il riconoscimento dell’apporto economico e sociale delle donne. Per noi è stato fondamentale mobilitarci sul tema del lavoro di cura» affermano in relazione con la situazione concreta che le donne vivono in questa crisi pandemica.

«La questione di genere è una questione molto presente. Nella savana di Bogotá, l’altopiano che circonda la capitale, moltissime donne portano avanti una famiglia da sole lavorando nelle piantagioni di fiori e in queste condizioni difficili tra pandemia e licenziamenti di massa non riescono a sopravvivere».

 

Le donne che lavorano nella floricultura soffrono gravi conseguenze per la salute a causa dell’intensità delle giornate di lavoro, dell’esposizione a temperature estreme e all’uso di pesticidi e altri prodotti chimici; a questo, bisogna aggiungere il lavoro domestico e di cura. Con l’arrivo della Covid lo scenario è peggiorato.

 

«Nella floricultura, gli imprenditori non hanno implementato sistemi di sicurezza sanitaria. Le donne lavorano esponendosi al rischio del contagio. Alcune non hanno più i mezzi di trasporto per andare al lavoro, e devono andare a piedi o in bicicletta, tornando sole di notte. E quando le imprese garantiscono il trasporto,  i bus sono sovraffollati».

La maggiore esposizione al rischio dei settori popolari è evidente. Molti municipi non hanno nemmeno ospedali propri, i pazienti devono viaggiare fino alla capitale.

«Vogliamo denunciare quel che sta avvenendo, molta gente va negli ospedali delle aree del sud ma non riceve una diagnosi, non vogliono che aumentino le cifre del contagio e non vogliono usare i test disponibili per i poveri», ci racconta Rocío Garzon, denunciando anche la situazione degli anziani: «Non li ricoverano, anche quando riescono ad arrivare all’ospedale, perché hanno paura, non ci sono protocolli per gestire la situazione, medici e infermieri non sono preparati, mandano i più giovani e inesperti in prima linea. Questa è la realtà, ma non viene raccontata».

 

Foto di Luis Carlos Ayala, Usme

 

La militante del Movimento Popolare La Sureña racconta anche come stiano lavorando dal punto di vista della comunicazione popolare ed alternativa da una prospettiva di genere per rendere visibile ciò che non emerge nella narrazione mainstream «mostrando per esempio come abbiamo sostenuto la logistica della solidarietà con la campagna Todas Somos Todas e con la rete di Mutuo Sostegno, rendendola visibile ed efficace, perché molte cose non vengono raccontate. Ora per esempio c’è di nuovo una frana nella discarica di Doña Juana, la gente è costretta a sopportare odori terribili, mettono le mascherine per sopportarli, chiudendo le finestre delle proprie case. I bambini si ammalano per questo, se non di Covid si ammalano di malaria, al sud della capitale questa è la situazione».

Doña Juana è la discarica più grande della Colombia. La sua crescita smisurata e arbitraria ha creato una crisi ambientale nel territorio ed una crisi sanitaria nelle comunità, che sono costrette a vivere con la mascherina da ben prima della pandemia.

 

Ma in queste periferie dove si soffre fame e inquinamento, si respira anche aria di lotta. Perché la negligenza statale è stata affrontata a partire da re-esistenze capaci di tessere articolazioni tra movimenti sociali e femministi organizzando strategie di solidarietà comunitaria e popolare, creando dispositivi per garantire sicurezza alimentare.

 

Per sostenere la quarantena è stata creata una gestione dal basso dell’emergenza, consegnando in bicicletta gli alimenti fino alla casa di chi ne ha bisogno, offrendo sostegno alle donne vittime di violenza, insegnando l’uso di strumenti di comunicazione come Whatsapp, costruendo attraverso le pratiche di  educazione popolare una sfida politica che va oltre l’emergenza.

Il lavoro di cura viene politicizzato a partire dalla condizione che vivono le donne dei settori popolari: «Lavoratrici domestiche e della cura, donne diversamente abili, disoccupate, lavoratrici del riciclo, ragazze madri con più di quattro figli. Noi donne del sud ci organizziamo e lottiamo, con mense popolari e cucine in comune, per sostenerci a vicenda. La cosa più importante” – continua Rocío Garzón – «è che tutte si sentano sostenute ed accompagnate da una rete sociale, che non si sentano sole, credo sia l’aspetto più importante del femminismo popolare. Non siamo sole».

Dal punto di vista dell’economia della cura, la Rete Popolare delle Donne della Savana racconta come stiano «rafforzando strategie per rafforzare le nostre economie, con gli orti popolari, nelle case, sostenendo psicologicamente le persone, comunicando con loro quotidianamente. Lo facciamo perché vogliamo una società alternativa, femminista, con al centro la possibilità di una buona alimentazione, prendendoci cura della vita di ognuno e di ognuna di noi».

 

In queste esperienze di mutualismo possiamo ritrovare spunti concreti di sperimentazioni di altri mondi possibili, che scommettono a partire dai propri territori sulla costruzione di alternative alla falsa opposizione “economia o salute” che finisce per far prevalere gli interessi del profitto sulla vita.

 

In questo dibattito rimane illesa la razionalità economica globale del modello produttivo responsabile dell’ipersfruttamento delle risorse e dell’impoverimento generalizzato. Questo affresco della situazione colombiana esprime chiaramente l’impossibilità di rinviare ancora la transizione dalla razionalità dominante ad altre razionalità, a una nuova etica e pratica politica che emerge dalle lotte ecologiste, femministe e antirazziste.

Una politica della differenza capace di rinnovare il senso della vita in comune aprendo spazi per la re-esistenza di pluriversi dove sia possibile, riprendendo le parole di Boaventura de Sousa, «pensare la differenza con l’uguaglianza, non convertire le differenze in diseguaglianze». Le trame che intrecciano le ribellioni e le insurrezioni degli ultimi mesi con le pratiche di solidarietà, mutualismo e resistenza nella pandemia indicano concreti percorsi possibili per rilanciare le lotte anticapitalistiche nella crisi civilizzatoria che stiamo attraversando.

 

 

Immagine di copertina e foto nell’articolo: Luis Carlos Ayala che ringraziamo per la gentile concessione. Qui il suo profilo instagram.