approfondimenti

OPINIONI

Palestina, l’urgenza di un approccio decoloniale al diritto internazionale: intervista a Shahd Hammouri

Nonostante il suo ethos universalista il diritto internazionale ha come soggetto primario un’accezione eurocentrica di umanità che subordina la differenza: ne parliamo con Shahd Hammouri, professoressa di diritto all’Università del Kent, la cui ricerca si basa sugli approcci critici al diritto internazionale all’intersezione di diritto economico internazionale, diritti umani e diritto umanitario

Il dibattito pubblico circa gli eventi che hanno coinvolto israeliani e palestinesi dal 7 ottobre ad oggi ha fatto continui riferimenti al diritto internazionale, e non senza abusarne. Sulle pagine dei giornali, nei salotti televisivi e nelle aule parlamentari si è parlato della situazione senza una chiara visione del contesto storico in cui questi eventi si sono verificati, ma soprattutto con un’apparentemente povera consapevolezza del quadro normativo che regola quanto sta avvenendo. In questa maniera il diritto internazionale, invece di fornire una lente analitica e uno strumento di giustizia, si è fatto chiacchiericcio indistinto di sottofondo ai dibattiti senza contradditorio affollati da slogan, pregiudizi e sentenze sommarie. I titoli di giornale parlano di terroristi, scudi umani e obiettivi militari scimmiottando i capi di governo che impostano queste narrative senza operare la contestualizzazione critica che dovrebbe essere, di fatto, imprescindibile nel lavoro di ogni giornalista e commentatore.

In realtà, questa è una tendenza intrinseca allo sviluppo del diritto internazionale in sé e per sé, come molti intellettuali anticoloniali e giuristi internazionali hanno affermato e dimostrato. I loro contributi alla decostruzione critica del diritto internazionale possono essere rubricati sotto l’etichetta di studi critici del diritto o di approcci del terzo mondo al diritto internazionale (in inglese Third World Approaches to International Law o TWAIL) e hanno avuto il merito di mettere a nudo la natura coloniale e imperialista del diritto internazionale a partire dagli anni Settanta. Nonostante il suo ethos universalista, infatti, il diritto internazionale ha come soggetto primario un’accezione eurocentrica di umanità che subordina la differenza. In altre parole, la colonialità del diritto internazionale opera una (de)umanizzazione selettiva complice dell’ordine globale neocoloniale che consente, ad esempio, al pubblico occidentale di empatizzare con rifugiati ucraini e non con rifugiati palestinesi, di rifiutare la categorizzazione dei primi come nazisti e di applicare senza battere ciglio quella di terroristi ai secondi, di considerare i primi capaci di autogoverno democratico e i secondi fanatici religiosi.

E, tuttavia, il diritto internazionale non è stato sempre e solo giostrato dai potenti della Terra al fine di difendere i propri interessi in maniera sempre più subdola e meschina – spesso, cioè dietro presunti pretesti umanitari. Man mano che le guerre di liberazione anticoloniale hanno portato alla formazione di stati postcoloniali, i leader di queste nazioni e i pensatori anticoloniali in genere si sono sforzati di far coincidere lo smantellamento del colonialismo nei loro paesi con lo smantellamento del colonialismo come sistema-mondo. Quanto emerge dal discorso pubblico attorno alla Palestina rivela che c’è un bisogno viscerale e impellente di decolonizzare questa branca del diritto. Ne ho parlato con Shahd Hammouri, professoressa di diritto all’Università del Kent, la cui ricerca è incentrata sugli approcci critici al diritto internazionale all’intersezione di diritto economico internazionale, diritti umani e diritto umanitario. Potete seguirla su Twitter (X) a @shahdhm.

MZ: In una recente intervista su Al Jazeera, Michael Lynk, ex Relatore speciale sulla situazione dei diritti umani nella Palestina occupata, ha affermato che il diritto internazionale – in Palestina e nella regione in generale – ha più a che fare con il potere che con la giustizia. Quali interessi serve il diritto internazionale e quale ruolo continuano a giocare colonialismo e imperialismo?

SH: Il diritto internazionale, nel suo sviluppo, come nella sua interpretazione ed applicazione, è estremamente politico. La sua interpretazione è soggetta alle manipolazioni dettate dagli interessi politici internazionali e questi sono profondamente forgiati dal colonialismo.

Allo stesso modo, anche il diritto internazionale è frutto dell’eredità coloniale ed è, perciò, espressione della marginalizzazione dell’esperienza di dominazione e sfruttamento del Sud globale. Queste prospettive subalterne non sono state dovutamente integrate nel linguaggio giuridico internazionale.

Alcuni libri, come “The Battle for International Law” di Jochen von Bernstorff o “The Misery of International Law” di John Linarelli, Margot E Salomon, and Muthucumaraswamy Sornarajah, lo raccontano bene. Ci sono state voci autorevoli che hanno cercato di sfidare le strutture che sostengono la natura coloniale del diritto internazionale, come Mohammed Badjaoui, gli autori della proposta per un Nuovo Ordine Economico Internazionale e la Dichiarazione sulle relazioni amichevoli e cooperazione tra stati.

Tuttavia, laddove non sono stati repressi sul nascere, i loro tentativi di integrare le posizioni del Sud del mondo nel diritto internazionale sono stati marginalizzati e addomesticati in quadri normativi volontari, come le iniziative per lo sviluppo e la sostenibilità. In questo modo, hanno perso il loro significato e la loro portata originale e hanno funto da copertura per eludere le cause strutturali di natura economica e politica.

Questo è molto evidente nel diritto internazionale umanitario – che regola la condotta nei conflitti armati – e il professor Frederic Mégret lo ha dimostrato bene. Il suo lavoro evidenzia l’obsolescenza del diritto umanitario. Ogni sforzo di arricchire questa branca del diritto alla luce del contesto più ampio, prendendo in causa, ad esempio, gli interessi economici e le relazioni di potere alla base dei conflitti internazionali, sono stati puntualmente arginati o disattesi.

Al contrario, l’obsolescenza e la vaghezza di questo corpus giuridico viene sfruttata come forma di “lawfare” al fine di pilotare il discorso pubblico e giustificare selettivamente la condotta degli stati sul campo. È quel che sta facendo ora Israele, ad esempio, spingendo l’interpretazione del diritto internazionale ai suoi limiti, spesso operando una distorsione dei fatti.

Nel caso della Palestina, ad esempio, si ammette con riluttanza che si tratta di colonialismo. E, tuttavia, nei documenti sull’ammissione di Israele alle Nazioni Unite (ONU), i rappresentanti dell’Agenzia ebraica si definivano colonizzatori. Fino agli anni ’70, il sionismo era paragonato all’apartheid sudafricano, ma la politica del diritto internazionale ha alterato questa percezione, riducendo la questione palestinese a una questione umanitaria o terroristica.

Foto di Wafa da wikimedia commons

MZ: In che modo le prospettive critiche sul diritto internazionale affrontano il quadro terroristico in questo contesto?

SH: Il quadro terroristico è intrinsecamente un quadro eccezionalista che è stato storicamente utilizzato come strumento politico. È pratica diffusa tra i poteri coloniali identificare in chiunque opponga loro resistenza un gruppo terroristico. È così, ad esempio, che il Regno Unito descriveva le fazioni della resistenza in Irlanda. Storicamente, il terrorismo è stato l’epitome dell’uso politico dell’indeterminatezza del diritto internazionale.

Dopo il 2003, gli Stati Uniti hanno guidato gli sforzi per sviluppare un quadro giuridico più solido che regolasse le azioni di terrorismo e controterrorismo. Il problema principale è che è venuto a colmare la lacuna dell’obsolescenza del diritto internazionale umanitario. L’obiettivo del paradigma del terrorismo è quello di sfruttare questo interstizio legale cancellando le relazioni di potere e la dominazione strutturale, proprio come nel caso della Palestina.

D’altronde, se l’intenzione è quella di valutare questi gruppi armati in base alla condotta delle ostilità, è ovvio che hanno commesso delle violazioni del diritto umanitario. Queste violazioni sono orribili e ognuna delle diverse fazioni coinvolte deve essere chiamata a rispondere delle violazioni commesse di fronte a un tribunale obiettivo. Ma ciò che questo discorso nasconde è il pericolo di decontestualizzare completamente i palestinesi e la loro condizione. E ciò che Israele sta cercando di fare è usare questo linguaggio simil-giuridico per associare Hamas all’ISIS o ad altri gruppi terroristici. Il fine è disumanizzare il soggetto palestinese. Questa disassociazione rende lecito uccidere indiscriminatamente i palestinesi e questo è sufficiente a criticare questo quadro discorsivo.

Israele dice che attualmente il suo obiettivo militare è quello di cancellare Hamas ed è appoggiato dai suoi alleati nel perseguire questo obiettivo. Ma il controsenso salta subito all’occhio. È come se in passato avessimo sostenuto che i francesi avevano il diritto di annientare tutti gli algerini che si opponevano alla colonizzazione. Se le premesse per classificarli come organizzazione terroristica si basano sulla loro stessa condotta di ostilità come guerra insurrezionale, allora dovrebbero tenere in conto che la loro campagna controinsurrezionale non farà altro che generare altra resistenza armata.

MZ: Lei ha recentemente pubblicato un articolo sul diritto alla resistenza secondo il diritto internazionale. I palestinesi hanno il diritto di resistere? Qual è la fonte e la portata del loro diritto alla resistenza?

SH: Il mio articolo sul diritto di resistenza è stato scritto allo scopo di essere presentato alla Corte internazionale di giustizia. L’argomentazione complessiva si basa sull’identificazione primaria dell’occupazione israeliana della Palestina come una forma di dominazione e sottomissione aliena. Se siamo d’accordo su questa premessa, ovvero che la condotta di Israele in Palestina è un classico caso di colonizzazione, allora raggiungiamo la posizione più logica, ovvero che qualsiasi popolo che subisce una dominazione aliena ha il diritto di resistere all’occupazione straniera come forma di dominio che lo priva del suo diritto alla dignità e all’uguaglianza.

La premessa giuridica si basa in primis sulla Dichiarazione universale dei diritti umani. Il suo preambolo afferma chiaramente che il rispetto dei diritti inalienabili alla dignità e all’uguaglianza è essenziale proprio per prevenire il ricorso alla violenza armata da parte dei popoli. Si insinua che il diritto di resistere sia implicito nella gravità dell’illegalità della privazione sistematica e strutturale dei diritti umani fondamentali, che è ciò di cui siamo testimoni in questo momento.

Esiste poi una lunga serie di risoluzioni dell’Assemblea Generale dell’ONU che affermano che il popolo ha il diritto di lottare contro la dominazione e la sottomissione aliena con tutti i mezzi disponibili come forma di autodeterminazione. Esiste quindi un legame molto forte tra la pratica dell’autodeterminazione dei popoli e il loro diritto a praticare forme di resistenza.

Infine, il Secondo protocollo alle Convenzioni di Ginevra riconosce esplicitamente le guerre di liberazione nazionale.

Dobbiamo tenere presente che il diritto del popolo a resistere è una questione di ius ad bellum – che regola il diritto ad usare la forza – e non di ius in bello – che regola la condotta delle ostilità. Nell’ambito della condotta delle ostilità tutti devono attenersi al diritto umanitario e, di conseguenza, ciò che è accaduto il 7 ottobre dovrebbe essere giudicato da un tribunale neutrale. Tuttavia, ciò non pregiudica il diritto di resistenza, che ha a che fare con il diritto ad usare la forza, e non con lo ius in bello, che regola come la forza debba essere usata. Il fatto che Hamas abbia violato le leggi sulla condotta delle ostilità non incide sul diritto a resistere dei palestinesi.

Perché non siamo in grado di utilizzare questi quadri per il caso della Palestina? Si tratta di una scelta politica per mettere da parte il diritto palestinese alla resistenza a favore di un presunto diritto israeliano all’autodifesa. Questa affermazione va contro il parere della Corte internazionale di giustizia sul Muro del 2004, che ha affermato che non ci si può difendere da un’area che si occupa da soli, come fa Israele. Nel contesto dell’occupazione illegale, Israele è l’aggressore per definizione. Inoltre, non si può usare il diritto di autodifesa contro un attore non statale. Gli unici stati che sostengono il contrario sono proprio Israele e gli Stati Uniti.

Wafa da wikicommons. Gaza ottobre 2023

MZ: Come ha detto prima, il diritto alla resistenza è strettamente legato al diritto all’autodeterminazione. Il libro di Atom Getachew “Worldmaking After Empire” fornisce una critica convincente del diritto all’autodeterminazione, suggerendo che è stato cooptato dagli stati del Nord globale come mezzo per sopprimere la resistenza e perpetuare il dominio imperiale postcoloniale. Ritiene che questa valutazione sia accurata? Il diritto all’autodeterminazione rimane una strada percorribile per l’emancipazione palestinese?

SH: Il diritto all’autodeterminazione è legato al popolo. Poiché il diritto internazionale è imperniato sullo stato, di solito non vede di buon occhio tutto ciò che riguarda il diritto dei popoli.

Io dico sempre che il diritto all’autodeterminazione è stato trattato come il miglior set di tazze di porcellana da caffè di tua madre. Sono quelle belle che mette in mostra in vetrina e serve agli ospiti graditi ma che non usa mai. Allo stesso modo, il diritto all’autodeterminazione non è mai stato integrato nelle leggi sui conflitti armati e non è mai entrato a far parte del nostro modo di pensare.

Tuttavia, credo che sia giusto sfruttare il potere del diritto all’autodeterminazione. Nonostante le sue limitazioni intrinseche è comunque un diritto che esiste ed è una norma di ius cogens – o diritto cogente, ossia appartenente a quell’insieme di norme consuetudinarie a tutela dei valori fondamentali della comunità internazionale nel suo insieme e, perciò, non derogabili – quindi dobbiamo applicarla. Ad esempio, l’argomento che sostiene l’illegalità dell’occupazione israeliana è proprio fondato sulla violazione del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese.

Ma il vero problema va oltre il diritto all’autodeterminazione e risiede nelle aule di tribunale dove siedono ancora giuristi vecchia scuola. Di fronte a loro, le mie argomentazioni circa il diritto all’autodeterminazione, animate dallo spirito anticoloniale degli anni Sessanta e Settanta dal quale traggo sostegno per il diritto alla resistenza palestinese, si scontrano contro un muro di gomma. Si tratta di un genere di argomentazione radicato negli studi di teoria critica che in ambito TWAIL non necessita di giustificazioni, mentre nella pratica viene ancora rigettato. Gli addetti al lavoro preferiscono evitare di mettere in discussione il diritto e fare lo sforzo creativo atto ad integrare il diritto all’autodeterminazione al fine di dargli davvero significato e applicazione.

MZ: Alla luce delle circostanze attuali, crescono le critiche alla percezione dell’incapacità del Consiglio di sicurezza dell’ONU di svolgere il suo ruolo fondamentale nel mantenimento della pace e della sicurezza globale. In un recente articolo, Rasnah Warah, scrittrice e giornalista keniota, ha sottolineato che i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza sono i principali produttori di armi a livello mondiale e, di conseguenza, hanno un interesse a mantenere i conflitti e l’insicurezza internazionale. Come può avanzare il processo di decolonizzazione del diritto internazionale al cospetto di questa istituzione?

SH: La colonialità del Consiglio di sicurezza dell’ONU ci ricorda come, per quanto uguali dovremmo essere di fronte alla legge, le gerarchie di potere hanno sempre avuto la meglio su ciò che è legale e illegale secondo il diritto internazionale.

Da un lato, il Consiglio di sicurezza è un organo fallito, dall’altro, il diritto internazionale non prende sul serio l’Assemblea generale dell’ONU. Le risoluzioni dell’Assemblea generale non sono nemmeno una fonte di diritto consuetudinario, ma solo una fonte da cui possiamo ricavare l’opinio iuris e la prassi statale in termini teorici astratti. Eppure, è il forum in cui gli stati del Sud globale hanno dato voce alle loro posizioni. Pertanto, ritengo che dovremmo dare più potere all’Assemblea generale dell’ONU.

In generale, bisogna rimodellare le relazioni di potere in modo rispettoso. Anche quando si considera la prassi degli stati attraverso il funzionamento dell’Assemblea generale, si nota che la prassi di alcuni stati è più rilevante di quella di altri. Un altro aspetto che dovremmo considerare è la costrizione economica, poiché anche nell’Assemblea generale gli stati possono essere facilmente comprati per assumere certe posizioni e non altre. In altre parole, anche se gli stati sono formalmente uguali ai sensi del diritto internazionale, non lo sono affatto.

Quello che sta accadendo ora in Palestina lo mette in risalto. Fin dal 7 ottobre abbiamo avvertito le istituzioni internazionali di ciò che stava per accadere, ma non ci hanno ascoltato. Un gruppo autorevole di studiosi internazionali ha affermato che questo è un classico caso da manuale di genocidio e pulizia etnica e dovremmo impegnarci per fermarlo subito. Ma, come la storia ci dimostra, questo accadrà solo se servirà agli interessi degli Stati Uniti e di altre nazioni del Nord globale.

MZ: Hai citato i crescenti avvertimenti sul rischio di genocidio a Gaza e in Palestina da parte di studiosi di diritto ed esperti di studi sul genocidio, compresi alcuni israeliani. Mentre alcuni sostengono che l’intento è facilmente evidente a causa delle diffuse istigazioni da parte di funzionari e civili israeliani, altri invitano alla cautela. In questo contesto, ritiene che il contesto storico del progetto coloniale d’insediamento israeliano, con la sua intrinseca logica di eliminazione, debba essere un fattore significativo nel determinare il potenziale di genocidio?

SH: Sebbene la Convenzione sul genocidio possa sembrare un quadro solido per affrontare i casi di genocidio, la sua struttura appare alquanto problematica, poiché spesso richiede un livello di prova eccezionalmente alto prima di poter intraprendere qualsiasi azione. In pratica, questo significa che di solito non viene applicata fino a quando la situazione non è già degenerata.

Trovo le discussioni in cui si cerca di determinare se la situazione sia qualificabile come genocidio surreali. Se da un lato è fondamentale avere un quadro di riferimento chiaro, dall’altro questo può portare a una estenuante battaglia legale che comporterebbe l’esame di ogni singola bomba lanciata, di ciascun obiettivo militare, per non parlare delle sfide legate alle prove, all’intento e alla proporzionalità. Ma la Convenzione dovrebbe essere attivata nel momento in cui c’è il rischio di genocidio, non dopo. Dato che abbiamo un chiaro intento, il caso dovrebbe essere portato in tribunale, adesso, e i potenti meccanismi disponibili all’interno del quadro giuridico internazionale in caso di genocidio vanno sfruttati ora.

Le prove spesso indicano un intento genocida se collocate nel contesto di una narrazione coloniale. E, invece, in questo caso, c’è un chiaro e diffuso rifiuto a collocare gli attuali incitamenti al genocidio all’interno del più ampio progetto statale di cancellare la popolazione indigena della Palestina, come è stato fatto continuamente dal 1948. Di per sé, questo riconoscimento rende l’intervento ancora più urgente.

Nonostante le numerose prove, alcuni studiosi esitano a usare il termine, forse per timore di essere emarginati dalla comunità giuridica tradizionale. È essenziale essere onesti sul ruolo del diritto internazionale e sul suo rapporto con la giustizia e l’etica. Molti giuristi internazionali tacciono per proteggere le loro carriere, perché parlare potrebbe danneggiare le loro prospettive professionali. La disponibilità a correre rischi e ad affrontare critiche per difendere la giustizia dovrebbe essere parte dell’impegno.

Un altro punto che vale la pena considerare è il valore attribuito dalla comunità internazionale alla vita umana. I media internazionali parlano del numero di vittime come se fosse una misura temporale, una clessidra che scandisce il tempo rimasto all’offensiva israeliana in cui ogni granello corrisponde a una vita. Sembra che l’Occidente stia aspettando un numero limite arbitrario, una soglia oltre la quale non potranno fare a meno di prendere un’azione decisiva, negoziando il valore delle vite palestinesi. Ad oggi, diecimila sembrano essere insufficienti.

MZ: Secondo Antony Anghie, noto studioso TWAIL, non ci può essere una vera decolonizzazione del sistema giuridico internazionale senza riparazioni. Come ci si arriva?

SH: L’assenza di riparazioni è al centro dell’attuale sistema-mondo neocoloniale. All’inizio del secolo scorso, il mondo ha riconosciuto la colonizzazione di molte nazioni da parte del mondo sviluppato come un problema significativo, portando a un consenso sulla necessità di porvi fine. Tuttavia, all’indipendenza non è seguito alcun riconoscimento o risarcimento per l’immenso danno causato a milioni di persone. L’assenza di riparazioni ha perpetuato gli squilibri politico-economici nel sistema globale.

Purtroppo, gran parte della giustizia transizionale rimane simbolica nella pratica. Tuttavia, dati gli ingenti danni alle infrastrutture di Gaza e della Cisgiordania, come evidenziato nel rapporto dell’ONU sui costi economici dell’occupazione israeliana, al popolo palestinese sono stati inflitti miliardi di dollari di perdite economiche.

I quadri internazionali di responsabilità affermano esplicitamente la necessità dei risarcimenti. Nella petizione dell’Assemblea generale alla Corte internazionale di giustizia sull’illegalità dell’occupazione, una delle domande poste è: “Quali sono le implicazioni delle azioni di Israele?”. Credo che la tragedia in Palestina non possa essere risolta senza due elementi cruciali: primo, il riconoscimento dell’ingiustizia storica; la guarigione non può avvenire senza il riconoscimento del dolore. In secondo luogo, sono necessari risarcimenti e restituzioni. Se, ad esempio, Israele annunciasse domani il ritiro dalla Striscia di Gaza e dalla Cisgiordania, smantellando tutti gli insediamenti e i posti di blocco, sarebbe un passo significativo, ma il diritto al ritorno non può essere eluso.

Immagine di copertina di Enric Borràs, Checkpoint de Betlem.